giovedì 27 aprile 2017

Cosa e non cosa

Fisso la mia attenzione su una cosa, una qualsiasi cosa.
Come posso dire di aver fissato attenzione su questa cosa? Lo posso dire perché posso differenziare “la cosa” da ciò che non è “la cosa”. Posso dire che faccio attenzione ad essa perché non sto facendo attenzione ad altro, poiché se sorgesse altro nella mia mente e mi distraessi potrei dire “non sto più pensando alla cosa” e lo potrei dire perché ho un registro di un tipo quando ho attenzione alla cosa e un registro diverso quando non ho attenzione alla cosa, quindi c'è una distinzione chiara, inequivocabile, in termini di registri, di vissuti interni, tra la cosa e la non-cosa.

Posso quindi dire che sto ponendo attenzione ad una cosa, sto analizzando una cosa, sto osservando una cosa, solamente se ho un registro più o meno chiaro di un ambito, di un campo, all'interno del quale “sono sulla cosa” e all'esterno del quale “non sono sulla cosa”.

Non c'è possibilità di porre attenzione a qualcosa se non c'è una sensazione chiara di dove questa cosa cominci e dove finisca. Se non ci fossero questi limiti, non potrei dire con certezza se sono ancora all'interno del campo cognitivo che riguarda la cosa o ne sono uscito, non esisterebbe il “dentro” e il “fuori” e non potrei quindi porre attenzione diretta su nulla, non potrei distinguere le cose tra loro.

Questo meccanismo è intrinseco nell'atto stesso del porre attenzione, del pensare. Che sia un atto mentale diretto verso un oggetto di percezione o un atto mentale diretto verso un oggetto di coscienza, non c'è possibilità di dirigere questo atto mentale verso un qualsiasi oggetto se non c'è registro di cosa è l'oggetto e cosa non lo è in modo che la coscienza sia sempre in grado di dire “ora sto ponendo attenzione sull'oggetto, ora non più, perché sono su altro”.

Posso porre attenzione ad un oggetto mentale, posso dirigere un atto mentale verso un oggetto, solo se l'oggetto in questione si differenzia da ciò che non è l'oggetto.

Quando quindi pongo attenzione sulla coscienza, è perché ho un registro (che sia evidente o meno) di ciò che non è coscienza. Se riesco a registrare il determinismo, l'incatenamento e riesco a chiamarlo “permanente” è perché percepisco e intuisco in qualche modo i suoi limiti, dove inizia e dove finisce, cosa è incatenamento e cosa no, dove c'è determinismo e dove no.

Percepisco quindi la struttura coscienza/mondo, la forma e il movimento-forma perché ho un registro del complemento. Avere un registro chiaro del complemento non è quindi un cercare di creare qualcosa nella nostra mente attraverso la riflessione, ma un cercare di percepire qualcosa che inevitabilmente già c'è... perché se non ci fosse non avrei mai potuto avere registro del movimento-forma.

Ogni cosa su cui posso porre attenzione, ogni oggetto di un atto mentale, esiste solamente perché esiste il suo complemento. Fino a ieri dicevo “ogni cosa esiste SE esiste il suo complemento” mentre oggi dico “ogni cosa esiste INDISSOLUBILMENTE INSIEME al suo complemento”.

La separazione tra cosa e complemento ha a che vedere solamente con l'intenzione che metto nel porre attenzione, con la direzione dei miei atti. E' il mio sguardo a definire la cosa-complemento. Il mio porre attenzione ad una cosa quindi letteralmente crea la struttura cosa-complemento. Sono io, con la mia intenzione, a definire “cosa è” e “cosa non è”, in ogni singolo istante. Sono io che definisco la realtà, definendo “le cose” nel momento in cui pongo attenzione, in cui dirigo un mio atto verso le cose. Le cose non sono definite “di per sé”, ma vengono definite all'atto del porre attenzione, nel momento in cui la mia intenzione si dirige verso di esse.

Si tratta di meditare in attenta ed umile ricerca sull'essenza di tutto ciò che esiste e sui limiti arbitrari che impongo, sulla libertà.