I. I PAESAGGI E GLI SGUARDI
1.
Parliamo di paesaggi e di sguardi, riprendendo quanto detto in un
altro passo: “paesaggio esterno è ciò che percepiamo delle cose;
paesaggio interno è ciò che filtriamo di esse con il setaccio del
nostro mondo interno. Questi due paesaggi sono una cosa sola e
costituiscono la nostra indivisibile visione della realtà.”
2.
Già nella percezione degli oggetti esterni uno sguardo ingenuo può
portare a confondere “ciò che si vede” con la realtà. Ci sarà
anche chi andrà oltre e crederà di ricordare la “realtà”
tale e quale si è data. E non mancherà un terzo che confonderà le
sue illusioni o allucinazioni, o le immagini dei suoi sogni con
oggetti materiali che in realtà sono stati percepiti e trasformati
in stati di coscienza diversi.
3.
Il fatto che gli oggetti precedentemente percepiti appaiano deformati
nei ricordi e nei sogni non sembra creare difficoltà alla gente
ragionevole. Ma che gli oggetti percepiti siano sempre coperti dal
manto multicolore di altre percezioni simultanee e di ricordi che
operano in quello stesso momento; che percepire sia un modo globale
di stare fra le cose, un tono emotivo ed uno stato generale del
corpo... quest’idea confonde le semplici certezze della vita
quotidiana, del fare con le cose e fra le cose.
4.
Lo sguardo ingenuo coglie il mondo “esterno” con il proprio
dolore o la propria allegria. Guardo non solo con l’occhio ma anche
con il cuore, con il dolce ricordo, con il sospetto che mi dà
vergogna, con il calcolo freddo, con il paragone segreto. Guardo
attraverso allegorie, segni e simboli che non vedo quando guardo ma
che agiscono sul guardare, proprio come non vedo l’occhio né
l’azione dell’occhio quando guardo.
5.
Per questo, per la complessità del percepire, quando parlo di realtà
esterna o interna preferisco usare il termine “paesaggio” al
posto del termine “oggetto”. E con ciò dò per inteso che
menziono blocchi, strutture e non un oggetto nella sua individualità
isolata ed astratta. Mi interessa anche sottolineare che ai paesaggi
corrispondono atti del percepire ai quali dò il nome di “sguardi”
(invadendo, forse illegittimamente, numerosi campi che non riguardano
la visualizzazione). Gli “sguardi” sono azioni complesse e
attive, che organizzano “paesaggi”, e non semplici e passive
azioni di ricezione dell’informazione esterna (dati che giungono ai
sensi esterni) od atti di ricezione dell’informazione interna
(sensazioni del corpo, ricordi, appercezioni). E’ superfluo dire
che in questa mutua implicazione di “sguardi” e “paesaggi”,
le distinzioni fra l’interno e l’esterno si creano in base alla
direzione dell’intenzionalità della coscienza e non secondo gli
schemi ingenui che si insegnano nelle scuole.
6.
Se si è inteso quanto detto fin qui, sarà facile comprendere che
quando parlo di “paesaggio umano” sto pensando ad un tipo di
paesaggio esterno costituito sia da persone che da fatti ed
intenzioni umane plasmate in oggetti, nel quale l’essere umano come
tale può occasionalmente non essere presente.
6. Conviene inoltre distinguere fra mondo interno e “paesaggio interno”, fra natura e “paesaggio esterno”, fra società e “paesaggio umano”, mettendo bene in chiaro che quando si dice “paesaggio” si sta sempre includendo chi guarda; situazione, questa, ben differente da quella in cui il mondo interno (o psicologico), la natura o la società appaiono ingenuamente esistenti in sé, esclusi da ogni interpretazione.
II. L’UMANO E LO SGUARDO ESTERNO
1.
Nulla di sostanziale ci dice l’affermazione: “l’uomo si
costituisce in un ambiente”, o l’altra: “l’uomo si
costituisce grazie all’ambiente” (che è quello naturale per
alcuni, quello sociale per altri e le due cose insieme per altri
ancora). L’inconsistenza di simili affermazioni diventa ancora più
grave se l’enfasi viene posta sul termine di collegamento “si
costituisce” mentre si dà per scontata la comprensione dei termini
“uomo” ed “ambiente” nel senso che si considera “ambiente”
ciò che circonda o meglio sommerge l’essere umano, e “uomo”
ciò che sta dentro tale “ambiente” o ne è sommerso. Anche
così, come all’inizio, rimaniamo all’interno di un circolo di
vacuità. Ciononostante non ci sfugge che, pur se i due termini messi
in rapporto indicano entità separate, è presente l’intenzione di
superare una tale separazione con un collegamento truccato, con la
parola “si costituisce”, che ha implicazioni di genesi, cioè di
spiegazione di un qualcosa a partire dalla situazione di origine.
2.
Tutto ciò non avrebbe alcun interesse se non ci si presentasse
come il paradigma di tante asserzioni diverse che, per millenni,
hanno sempre presentato un’immagine dell’essere umano visto dal
lato delle cose e non visto dallo sguardo che guarda le cose. Perché
dire “l’uomo è un animale sociale”, o dire “l’uomo è
fatto a somiglianza di Dio”, presuppone che la società o Dio siano
coloro che guardano l’uomo, mentre la società e Dio si
concepiscono, si negano o si accettano solamente a partire dallo
sguardo umano.
3.
E così, in un mondo in cui sin dall’antichità si è instaurato
uno sguardo inumano, hanno finito per instaurarsi comportamenti ed
istituzioni che hanno annullato l’umano. Su questa strada, quando
nel campo dell’osservazione della natura è sorta la domanda su
quale fosse la natura dell’uomo, la risposta che è stata data non
ha fatto differenza tra l’uomo e gli altri oggetti naturali.
4.
Anche le correnti di pensiero che hanno presentato l’essere umano
come un soggetto sottoposto a continue trasformazioni hanno pensato
l’umano attraverso uno sguardo esterno, collocandosi sempre, pur se
da posizioni diverse, nel campo del naturalismo storico.
5.
L’idea di “natura umana” è quella che implicitamente ha
corrisposto allo sguardo esterno sull’umano. Ma se sappiamo che
l’uomo è un essere storico che trasforma la propria natura
attraverso l’attività sociale, il concetto di “natura umana”
appare subordinato al fare, all’esistere e sottomesso alle
trasformazioni e alle rivelazioni che tale esistere determina. In
questo senso, le potenzialità del corpo, inteso come protesi
dell’intenzione, trovano il loro campo di sviluppo nell’opera di
umanizzazione del mondo. Ed il mondo non può più essere visto come
semplice esteriorità, ma come “paesaggio” naturale od umano,
sottoposto a trasformazioni umane reali o possibili. E’ in questo
fare che l’uomo trasforma se stesso.
III. IL CORPO UMANO COME OGGETTO DELL’INTENZIONE
1.
Il corpo, in quanto oggetto naturale, è soggetto a trasformazioni
naturali ed è ovviamente suscettibile anche di trasformazioni dovute
all’intenzione umana e questo tanto nelle sue espressioni più
esterne che nel suo funzionamento intimo. Inteso come protesi
dell’intenzione, il corpo acquista il suo significato più
rilevante. Tuttavia, tra il controllo immediato (senza
intermediazioni) del proprio corpo e l’adeguamento di questo ad
altre necessità e disegni si inserisce un processo sociale che non
dipende dall’individuo singolo ma che include altri individui.
2.
Mentre la mia intenzionalità ha la proprietà della mia struttura
psicofisica, gli oggetti esterni mi appaiono estranei alla mia
proprietà immediata e risultano governabili solo in forma mediata
(per azione del mio corpo). Un tipo particolare di oggetto, poi, è
il corpo dell’altro, che intuisco come proprietà di un’intenzione
altrui. E questo rapporto di estraneità mi colloca nella situazione
di “essere visto da fuori”, di essere visto a partire
dall’intenzione di un altro. Per questo la visione che ho
dell’estraneo è un’interpretazione, un “paesaggio” che si
estenderà a qualunque oggetto che porti il marchio dell’intenzione
umana, e questo vale sia quando la persona che l’ha prodotto o
manipolato appartiene al presente sia quando appartiene al passato.
Nel “paesaggio umano” mi è possibile annullare l’intenzione di
altri che finisco per considerare protesi del mio corpo; per far
questo devo “svuotarli” della loro soggettività totalmente o,
per lo meno, in quelle regioni del pensare, del sentire o dell’agire
che desidero controllare immediatamente. Tale oggettivazione
necessariamente mi disumanizza, per cui finisco per giustificare una
tale situazione attribuendola a una Forza più grande di me che non
controllo (la “Passione”, “Dio”, la “Causa”, la
“Disuguaglianza naturale”, il “Destino”, la “Società”
ecc.).
IV. MEMORIA E PAESAGGIO UMANO
1.
Posto di fronte ad un paesaggio sconosciuto, faccio appello alla
memoria; così scopro che è il “riconoscimento” della sua
assenza in me a farmi capire che si tratta di qualcosa di nuovo.
Altrettanto mi succede in un paesaggio umano il cui linguaggio, i cui
modi di vestire e le cui usanze sociali contrastano fortemente con il
paesaggio nel quale i miei ricordi si sono formati. Ma in una società
in cui il cambiamento è lento, il mio paesaggio precedente tende a
imporsi sulle novità, che finisco per percepire come “irrilevanti”.
2.
Se invece vivo in una società caratterizzata da rapide
trasformazioni, tendo a dare poco valore al cambiamento od a
considerarlo come una “deviazione”, senza capire che la perdita
interna che sperimento è la perdita del paesaggio sociale in cui la
mia memoria si è configurata.
3.
Questo mi fa comprendere come una generazione, allorché accede al
potere, tenda a plasmare all’esterno miti, teorie, desideri e
valori propri di un paesaggio che oggi non esiste più ma che
continua a vivere ed ad operare come ricordo sociale, in quanto si
tratta del paesaggio in cui quell’insieme si è formato. E tale
paesaggio era stato assimilato come paesaggio umano dai figli e come
“irrilevanza” o “deviazione” dai loro genitori. E per quanto
le generazioni lottino fra loro, quella che conquista il potere
esercita sempre un’azione di ritardo in quanto impone il proprio
paesaggio di formazione ad un paesaggio umano ormai modificato o che
essa stessa ha contribuito a modificare. Pertanto, qualunque
trasformazione messa in atto da un nuovo insieme umano risulta sempre
affetta da un ritardo che affonda le sue radici nell’epoca di
formazione di tale insieme. Ed è con questo ritardo che si scontra
il nuovo insieme che si sta formando.
Quando
parlavo dell’accesso al “potere” da parte di una generazione,
intendevo riferirmi – ed immagino che questo sia risultato chiaro
- alle diverse espressioni di tale potere: politiche, sociali,
culturali e così via.
V. LA DISTANZA CHE IL PAESAGGIO UMANO IMPONE
1.
Ogni generazione possiede una sua astuzia, per cui non esiterà ad
appellarsi al rinnovamento più sofisticato se tale espediente le
permetterà di accrescere il proprio potere. Ma questo crea
innumerevoli difficoltà: infatti, la trasformazione a cui una
determinata generazione ha dato impulso spinge verso il futuro una
società che già nella dinamica dell’oggi risulta in
contraddizione con il paesaggio sociale interno che tale generazione
desiderava mantenere. Per questo dico che “ciascuna generazione
possiede una sua astuzia”, ma anche una sua trappola.
2.
Con quale paesaggio umano si scontra il desiderio ingiustificato di
possesso? Innanzi tutto con un paesaggio umano percepito, che è
diverso dal paesaggio ricordato. Ma oltre a questo, con un paesaggio
umano che non corrisponde al tono affettivo, al clima emotivo
generale con cui si ricordano persone, edifici, strade, uffici,
istituzioni. E questo “allontanamento” od “estraneità”
mostra chiaramente che ogni paesaggio percepito costituisce una
realtà globale diversa da quella ricordata, anche quando si tratta
di qualcosa di quotidiano o di familiare. E’ per questo che i
desideri, magari accarezzati per tanto tempo, di possedere un oggetto
(una cosa, una persona, una situazione), producono frustrazione una
volta realizzati. E questa è la distanza che la dinamica del
paesaggio umano impone ad ogni ricordo, individuale o collettivo, di
uno o di molti o di tutta una generazione che, per il fatto di
coesistere all’interno di uno stesso spazio sociale, è pervasa,
nel fondo, da un tono emotivo comune! Quanto difficile diventa
accordarsi su un oggetto se a prenderlo in esame sono generazioni
differenti o rappresentanti di epoche diverse che coesistono in uno
stesso spazio! E se può sembrare che si stia parlando di nemici,
devo mettere in chiaro che simili abissi si aprono già tra coloro
che paiono avere gli stessi interessi.
3.
Non si tocca mai un oggetto nello stesso modo né si ha mai una
stessa intenzione due volte. E ciò che credo di percepire come
intenzione altrui è solo una distanza che interpreto in modo sempre
diverso. Così il paesaggio umano, che ha come nota distintiva
l’intenzione, fa risaltare il senso di estraniazione che molti in
passato hanno riconosciuto ma che hanno interpretato come il prodotto
delle condizioni oggettive di una società non solidale che
espropriava ed esiliava la coscienza. E costoro, per aver dato una
valutazione errata dell’essenza dell’intenzione umana, hanno
dovuto riconoscere che la società da loro costruita con tanti
sforzi aveva creato un abisso tra le generazioni e si era alienata
sempre di più con l’accelerarsi della trasformazione del suo
paesaggio umano. Ma altre società, organizzate in base a modelli del
tutto differenti hanno ricevuto un identico contraccolpo: questo
dimostra che i problemi fondamentali dell’essere umano devono
essere risolti avendo come punto di riferimento l’intenzione che
trascende l’oggetto e di cui l’oggetto sociale è solo la dimora.
Non diversamente, tutta la natura, compreso il corpo umano, deve
essere intesa come dimora dell’intenzione trasformatrice.
4.
La percezione del paesaggio umano è verifica di me stesso e
coinvolgimento emotivo, è qualcosa che mi nega o mi lancia in
avanti. E a partire dal mio “oggi”, mettendo insieme i ricordi,
sono risucchiato dall’intenzione verso il futuro. Si tratta di un
futuro che condiziona l’oggi, di un’immagine, di un sentimento
confuso o voluto, di un fare scelto od imposto che segna anche il
mio passato, perché cambia ciò che considero essere stato il mio
passato.
VI. L’EDUCAZIONE
1.
La percezione del paesaggio esterno e l’agire in tale paesaggio
mettono in gioco sia il corpo sia un modo emotivo di stare nel mondo.
Ovviamente mettono in gioco anche la visione stessa della realtà,
come ho osservato altrove. Per questo credo che educare consista
principalmente nel rendere le nuove generazioni capaci di una visione
non ingenua della realtà, nel senso che il loro sguardo consideri
il mondo non come una presunta realtà obiettiva in sé, ma come un
oggetto di trasformazione sul quale l’essere umano applica la
propria azione. Qui non sto parlando dell’informazione riguardo al
mondo, quanto piuttosto dell’esercizio intellettuale di una
particolare visione dei paesaggi, priva di pregiudizi, e di
un’attenta pratica del proprio sguardo. Un’educazione elementare
deve mirare allo sviluppo di un modo di pensare basato sulla
coerenza. Qui non si sta parlando di conoscenza in senso stretto, ma
del contatto con la propria esperienza del pensare.
2.
In secondo luogo, l’educazione dovrà stimolare la sensibilità e
facilitare lo sviluppo emotivo. Per questo, al momento di
pianificare una formazione integrale, bisognerà tenere presente
l’esercizio della rappresentazione e dell’espressione, insieme
allo sviluppo della capacità di padroneggiare l’armonia e il
ritmo. Ma quanto detto non ha lo scopo di mettere a punto
procedimenti atti a “creare” talenti artistici; la sua intenzione
sta piuttosto nel far sì che gli individui stabiliscano un contatto
emotivo con se stessi e con gli altri, senza la confusione a cui
porta un’educazione basata sulla separatezza e l’inibizione.
3.
In terzo luogo, si dovrà ricorrere a qualche pratica che metta in
gioco tutte le risorse corporee in modo armonico; ma una disciplina
di questo tipo somiglia più ad una ginnastica portata avanti con
arte che ad uno sport, poiché lo sport non forma in modo integrale
ma unilaterale. Il punto chiave, infatti, sta nel prendere contatto
con il proprio corpo e nel governarlo con scioltezza. Per questo lo
sport non dovrà essere considerato un’attività formativa; sarà
però importante coltivarlo se la disciplina suddetta ne costituisse
la base.
4.
Fin qui ho parlato dell’educazione, considerandola dal punto di
vista delle attività formative per l’essere umano nel suo
paesaggio umano, ma non ho parlato dell’informazione che ha a che
vedere con la conoscenza, con l’assimilazione di dati grazie allo
studio ed alla pratica intesa come forma di studio.
VII. LA STORIA
1.
Risulterà inutile spiegare il processo storico come la
manifestazione sempre più piena dell’intenzionalità umana che
lotta per vincere il dolore (fisico) e la sofferenza (mentale), se si
continuerà a pensare tale processo utilizzando uno sguardo esterno.
Su questa linea, alcuni cercheranno di svelare le leggi intime
dell’accadere umano partendo dalla materia, altri partendo dallo
spirito, altri ancora partendo dalla ragione intesa in un certo modo;
ma in tutti i casi il meccanismo interno cercato sarà sempre visto
‘“dal di fuori” dell’uomo.
2.
Di certo, si continuerà ad intendere il processo storico come lo
sviluppo di una forma che, in definitiva, non sarà altro che la
forma mentale di coloro che vedono le cose in quel determinato modo.
E non importa a quale tipo di dogma si faccia ricorso, perché, nel
fondo, saranno sempre le cose che si vogliono vedere a suggerire
l’adesione ad un tale dogma.
VIII. LE IDEOLOGIE
1.
In un determinato momento storico, le ideologie hanno avuto grande
seguito perché hanno mostrato di svolgere in modo utile il compito
di dare orientamento all’azione e di interpretare il mondo
individuale e sociale; in seguito, però, sono state sostituite da
altri modi di pensare il cui massimo successo è stato quello di
apparire come la realtà stessa, la più concreta e immediata, esente
da qualsiasi “ideologia”.
2.
Così, gli opportunisti, che in altri tempi erano tali per aver
tradito qualsiasi forma d’impegno, sono ricomparsi nell’epoca
della crisi delle ideologie definendosi “pragmatici” o
“realisti”, senza minimamente comprendere da dove derivassero
tali parole. In ogni caso, hanno esibito con totale mancanza di
pudore le loro false schematizzazioni a cui hanno attribuito il
massimo grado di “sviluppo” dell’intelligenza e della virtù.
3.
Con l’accelerarsi della trasformazione sociale, le generazioni più
recenti si sono separate le une dalle altre molto più velocemente
delle precedenti, perché il paesaggio umano nel quale dovevano agire
si era maggiormente allontanato dal paesaggio umano nel quale si
erano formate. In questo modo sono rimaste prive di qualsiasi teoria
e di qualsiasi modello di comportamento. Hanno dovuto, perciò, dare
risposte sempre più rapide ed improvvisate, che finivano per
diventare “congiunturali” e specifiche per quanto riguardava
l’applicazione dell’azione; tramontava così qualunque idea di
processo e qualunque nozione di storicità mentre parallelamente
cresceva uno sguardo analitico e frammentario.
4.
I pragmatici, con il loro cinismo, hanno dimostrato, anche se
vergognandosene, di essere i nipoti dei laboriosi costruttori di
“coscienze infelici”, ed i figli di coloro che avevano denunciato
le ideologie come “mascheramento” della realtà. Per questo, in
ogni forma di pragmatismo rimane l’impronta dell’assolutismo
tipico di una tale famiglia. Così, li abbiamo sentiti dire: “Bisogna
attenersi alla realtà, non a teorie”. Ma un tale atteggiamento ha
creato loro innumerevoli difficoltà quando sono emerse correnti
irrazionaliste che, a loro volta, hanno affermato: “Bisogna
attenersi alla nostra realtà, non alle vostre teorie”.
IX. LA VIOLENZA
1.
Quando si parla di metodologia di azione in riferimento alla lotta
politica e sociale si allude spesso al tema della violenza. Ma vi
sono questioni preliminari a cui questo tema non è estraneo.
2.
Fin quando l’essere umano non avrà costruito una società
pienamente umana, cioè una società nella quale il potere sarà
detenuto dalla totalità sociale e non da una parte di questa (con
la sottomissione e la reificazione dell’insieme), qualunque
attività sociale si realizzerà sotto il segno della violenza.
Perciò, quando si parla di violenza bisogna chiamare in causa il
mondo istituito; e se a questo mondo si oppone una lotta non
violenta, si deve mettere in evidenza, in primo luogo, che un
atteggiamento non violento è tale perché non tollera la violenza.
Quindi il punto non sta nel giustificare un determinato tipo di
lotta, ma nel definire le condizioni di violenza che questo sistema
inumano impone.
3.
D’altra parte, confondere non violenza con pacifismo porta ad
innumerevoli errori. Mentre la non violenza non ha bisogno di
giustificazione in quanto metodologia d’azione, il pacifismo ha
bisogno di stabilire quali fatti possono avvicinare od allontanare
la pace, intesa come stato di non belligeranza, e di dare ad essi il
giusto peso. Per questo il pacifismo tende ad occuparsi di un tema
come quello del disarmo ed a farlo diventare la priorità essenziale
di una società, quando in realtà la corsa agli armamenti
costituisce un caso di minaccia di violenza fisica che deriva dal
potere istituito da una minoranza che manipola lo Stato. Sia chiaro,
il tema del disarmo è d’importanza capitale; ma il pacifismo, che
si appella all’urgenza di questo problema, non potrà modificare
il contesto della violenza neanche se le sue richieste venissero
accolte, e di certo, non potrà arrivare a formulare, se non
artificiosamente, alcun discorso di trasformazione della struttura
sociale. E’ anche chiaro che esistono differenti modelli di
pacifismo e differenti basi teoriche all’interno di tale corrente,
ma in tutti i casi essa non è in grado di presentare una proposta di
portata più vasta. Se disponesse di una visione del mondo di più
ampio respiro, saremmo sicuramente in presenza di una dottrina che
include il pacifismo. In tal caso dovremmo discutere i fondamenti di
tale dottrina prima di accettare o rifiutare il pacifismo che da essa
deriva.
X. LA LEGGE
1.
“Il diritto del singolo termina dove comincia il diritto degli
altri”, dunque “il diritto degli altri termina dove comincia
quello del singolo”. Ma poiché l’enfasi viene posta sulla prima
e non sulla seconda frase, tutto fa sospettare che i sostenitori di
tale affermazione interpretino se stessi come “gli altri”, ossia
come i rappresentanti degli altri, come i rappresentanti di un
sistema stabilito che si dà per giustificato.
2.
Non sono mancati coloro che hanno fatto derivare la legge da una
ipotetica “natura” umana, ma poiché di questo abbiamo già
discusso, qui non diremo niente di più.
3.
La gente pratica non si è persa in teorizzazioni ma ha dichiarato
che la legge è necessaria per la convivenza sociale. Si è anche
affermato che la legge viene fatta per difendere gli interessi di
coloro che la impongono.
4.
Sembra proprio che sia la situazione di potere già esistente ad
instaurare una determinata legge, la quale a sua volta legalizza il
potere. Pertanto il tema centrale è quello del potere inteso come
imposizione di un’intenzione, accettata o meno. Si dice che la
forza non genera diritti ma questo è un controsenso che può avere
un minimo di valore solo se si pensa alla forza in termini di
brutalità fisica; in ogni caso, poi, la forza (economica, politica
ecc.) non ha bisogno di mettersi in mostra per far sentire la sua
presenza ed imporre rispetto. D’altra parte anche la forza fisica
(per esempio quella delle armi), espressa come cruda minaccia, impone
delle situazioni che poi verranno giustificate a livello legale. E
non dobbiamo ignorare che l’uso delle armi contro qualcuno dipende
dall’intenzione umana e non da un diritto.
5.
Chi viola una legge nega una situazione imposta nel presente ed
espone la propria temporalità (il proprio futuro) alle decisioni
altrui. Ma è chiaro che il “presente” in cui la legge entra in
vigore affonda le sue radici nel passato. Il costume, la morale, la
religione od il consenso sociale sono le fonti abitualmente invocate
per giustificare l’esistenza della legge. Ciascuna di esse, a sua
volta, dipende dal potere che l’ha imposta. E tali fonti vengono
messe in discussione quando il potere che le ha originate è tanto
decaduto o si è tanto trasformato che il mantenimento del precedente
ordine giuridico si scontra con “ ciò che è ragionevole”, con
“il senso comune” ecc. Quando il legislatore cambia una legge o
quando un insieme di rappresentanti del popolo cambia la Costituzione
di un paese, non c’è violazione apparente della legge perché
costoro non risultano esposti alle decisioni altrui dato che hanno in
mano il potere od agiscono come rappresentanti di un potere;
situazioni come queste mostrano chiaramente che è il potere a
generare diritti ed obblighi e non il contrario.
6.
I Diritti Umani non hanno la vigenza universale che sarebbe
desiderabile perché non dipendono dal potere universale dell’essere
umano ma dal potere di una parte sul tutto; e se le più elementari
rivendicazioni della libertà di disporre del proprio corpo sono
calpestate in tutte le latitudini, possiamo solo parlare di
aspirazioni che dovranno trasformarsi in diritti. I Diritti Umani non
appartengono al passato, stanno nel futuro attraendo
l’intenzionalità, alimentando una lotta che si ravviva ad ogni
nuova violazione del destino dell’uomo. Pertanto, qualunque
rivendicazione di tali diritti è sempre valida giacché mostra
che gli attuali poteri non sono onnipotenti e che non controllano il
futuro.
XI. LO STATO
1.
E’ stato detto che la nazione è un’entità giuridica formata
dall’insieme degli abitanti di un paese retto da uno stesso
governo. In seguito, l’idea è stata estesa al territorio del
paese. Ma in verità una nazione può esistere per millenni senza
essere retta da uno stesso governo, senza essere inclusa in uno
stesso territorio e senza essere giuridicamente riconosciuta da
alcuno Stato. Ciò che definisce una nazione è il riconoscimento
reciproco che vincola quanti si identificano in valori simili ed
aspirano ad un futuro comune e questo non ha niente a che vedere né
con la razza né con la lingua né con la storia intesa come “lungo
percorso temporale che parte da un passato mitico”. Una nazione può
formarsi oggi, crescere in futuro o scomparire domani ed anche
incorporare altri insiemi nel proprio progetto. In questo senso si
può parlare della formazione di una nazione umana che non si è
ancora consolidata come tale e che ha conosciuto innumerevoli
persecuzioni e fallimenti... e soprattutto ha subito il fallimento
del suo paesaggio futuro.
2.
Lo Stato, che ha a che vedere con determinate forme di governo
giuridicamente regolate, si attribuisce stranamente la capacità di
formare nazionalità e di essere esso stesso la nazione. Questa
recente finzione, la finzione degli Stati nazionali, si sta
scontrando con la rapida trasformazione del paesaggio umano. Per
questo i poteri che hanno dato vita allo Stato attuale affidandogli
dei semplici attributi di intermediazione si trovano nella necessità
di liberarsi di un apparato ormai superato che apparentemente
concentra in sé il potere di una nazione.
3.
I “poteri” dello Stato non sono i poteri reali che generano
diritti ed obblighi ed a cui spetta amministrare o eseguire
determinati compiti. E’ successo, piuttosto, che l’apparato
statale, aumentando il proprio carattere monopolistico e diventando
stabilmente il bottino di guerra di fazioni in lotta, è arrivato ad
ostacolare la libertà d’azione dei poteri reali e anche a frenare
l’attività del popolo, a unico vantaggio di una burocrazia sempre
meno al passo con i tempi. Per questo la forma attuale di Stato non
conviene a nessuno, tranne che agli elementi più retrogradi di una
società. Il punto è che al progressivo decentramento ed alla
progressiva diminuzione del potere statale deve corrispondere la
crescita del potere della totalità sociale. Una forma di governo
autogestita e controllata in modo solidale dal popolo, che non
sottostia al paternalismo di una fazione, sarà l’unica a garantire
che il grottesco Stato attuale non venga sostituito dal potere senza
freni di quegli stessi interessi che un tempo gli hanno dato origine
e che oggi lottano per eliminarlo.
4.
Ed un popolo in grado di aumentare il proprio potere reale (non
intermediato dallo Stato o dal potere di minoranze) si troverà nella
condizione migliore per proiettarsi nel futuro come avanguardia della
nazione umana universale.
5.
Non si deve credere che l’unione artificiale di paesi all’interno
di entità sovranazionali aumenterà il potere di decisione dei loro
rispettivi popoli, proprio come non lo hanno aumentato gli imperi
quando hanno annesso territori e nazioni sotto un dominio omogeneo
nell’interesse di una parte.
6.
Anche se l’unità regionale, con la messa in comune di ricchezze (o
povertà), fosse un’aspettativa dei popoli in dialettica con poteri
extraregionali ed anche se da tali unioni derivassero
provvisoriamente dei benefici, non per questo verrebbe a soluzione il
problema fondamentale, quello di una società pienamente umana. E
qualunque tipo di società che non sia pienamente umana si troverà
esposto alle trappole (ed alle catastrofi) derivanti dalla
subordinazione delle proprie decisioni agli interessi di parte.
7.
Se, come risultato di un’unione regionale, emergesse un mostruoso
Superstato od il dominio senza freni dei vecchi interessi (ora
totalmente omogeneizzati) che imponesse con strumenti sofisticati il
proprio potere alla totalità sociale, scoppierebbero innumerevoli
conflitti che metterebbero in pericolo la base stessa di tali unioni,
per cui le forze centrifughe acquisterebbero una forza devastante.
Se, al contrario, il potere di decisione del popolo crescesse,
l’integrazione tra le diverse comunità verrebbe a costituire
l’avanguardia del processo di formazione della nazione umana.
XII. LA RELIGIONE
1.
Ciò che si dice delle cose e dei fatti non sono né le cose né i
fatti ma “raffigurazioni” di questi, le quali hanno in comune con
questi una certa struttura. E’ grazie a tale struttura comune che
si può parlare delle cose e dei fatti. Ma non si può parlare di
tale struttura nel modo in cui si parla delle cose, perché si tratta
della struttura di ciò che si dice (così come della struttura delle
cose e dei fatti). Seguendo la stessa logica, il linguaggio può
mostrare ma non dire quando si riferisce a ciò che “include”
tutto (anche il linguaggio stesso). Questo è il caso di “Dio”.
2.
Di Dio si sono dette cose differenti, che però risultano del tutto
insensate appena ci si rende conto di ciò che si dice, di ciò che
si pretende di dire.
3.
Di Dio non si può dire niente. Si può solo parlare di ciò che è
stato detto di Dio. Sono molte le cose dette su di lui e molto ciò
che si può dire su di esse, senza per questo approfondire il tema di
Dio per ciò che concerne Dio stesso.
4.
Lasciando da parte questi scioglilingua, diciamo che le religioni
possono essere di profondo interesse solo se intendono mostrare Dio e
non parlare di lui.
5.
Ma le religioni mostrano ciò che esiste nei loro rispettivi
paesaggi. Quindi una religione non è né vera né falsa, dato che
il suo valore non è logico. Il suo valore sta nel tipo di
esperienza interna che suscita, nell’accordo, a livello di
paesaggi, fra ciò che vuole mostrare e ciò che effettivamente viene
mostrato.
6.
La letteratura religiosa è abitualmente legata a paesaggi esterni
ed umani, ed a questo non sfuggono le caratteristiche e gli attributi
degli dèi. Ciononostante, la letteratura religiosa può sopravvivere
alla trasformazione dei propri paesaggi esterni ed umani e passare ad
altre culture. Questo non deve stupire, giacché anche altre forme
letterarie (non religiose) possono suscitare interesse e viva
emozione in altre epoche, molto distanti dalla propria. Neanche la
sua permanenza nel tempo ci dice molto sulla “verità” di un
culto, giacché formalità legali e cerimonie sociali passano di
cultura in cultura e continuano ad essere osservate anche quando il
loro significato originario non è più compreso.
7.
Poiché le religioni irrompono in un paesaggio umano ed in un tempo
storico, si suole dire che Dio si “rivela” all’uomo. Ma
qualcosa deve essere accaduto nel paesaggio interno dell’essere
umano perché tale rivelazione potesse essere accettata in quel dato
momento storico. Una simile trasformazione è stata generalmente
interpretata “ fuori” dell’uomo, cioè la sua radice è stata
collocata nel mondo esterno o nel mondo sociale. Per certi aspetti
questa interpretazione è stata fruttifera ma, per quanto riguarda la
comprensione del fenomeno religioso dal punto di vista
dell’esperienza interna, essa ha prodotto un arretramento.
8.
Ma le stesse religioni si sono presentate come “esternità” ed
in questo modo hanno preparato il campo al quel genere di
interpretazioni.
9.
Quando parlo di “religione esterna” non mi sto riferendo alla
proiezione di immagini psicologiche su icone, pitture, statue,
costruzioni, reliquie (proprie della percezione visiva). Non sto
neppure parlando di proiezioni su cantici ed orazioni (proprie della
percezione uditiva) o su gesti, posizioni ed orientamenti del corpo
in determinate direzioni (propri della percezione cinestetica e
cenestesica). Ed infine non definisco esterna una religione perché
possiede libri sacri o sacramenti, o perché ad una liturgia somma
una chiesa, un’organizzazione, delle date per il culto, o perché
richiede ai credenti un certo stato fisico od una certa età per
svolgere determinate pratiche. No, la battaglia mondana che i seguaci
dell’una o dell’altra religione combattono tra loro, lanciandosi
reciprocamente accuse di idolatria - di diversa gravità a seconda
del tipo di immagine preferenziale che utilizzano -, non costituisce
la sostanza del problema (mostra soltanto la totale ignoranza
psicologica dei contendenti).
10.
Chiamo “religione esterna” qualunque religione che pretenda di
parlare di Dio e della volontà di Dio invece di parlare della
religiosità e dell’esperienza intima dell’essere umano. E anche
l’utilizzo di un culto esteriore avrebbe senso se con le sue
pratiche i credenti svegliassero in sé (mostrassero) la presenza di
Dio.
11.
Ma il fatto che le religioni siano state fino a oggi religioni
esterne è legato al paesaggio umano nel quale sono sorte e si sono
sviluppate. La nascita di una religione interna è possibile come è
possibile la conversione delle religioni (ammesso che sopravvivano)
alla religiosità interna. Ma ciò potrà accadere nella misura in
cui il paesaggio interno risulterà in grado di accettare una nuova
rivelazione. Cosa, questa, che si incomincia a cogliere in quelle
società il cui paesaggio umano sta subendo trasformazioni tanto
profonde che la necessità di riferimenti interni si fa ogni giorno
più imperiosa.
12.
Niente di quanto è stato detto sulle religioni può oggi ritenersi
valido, perché tanto coloro che le hanno appoggiate quanto coloro
che le hanno criticate hanno perduto da tempo la percezione della
trasformazione interna dell’essere umano. Quanti pensavano che le
religioni addormentassero l’attività politica o sociale, si
scontrano oggi con il potente impulso che esse danno in questi campi.
Quanti immaginavano che tendessero ad imporre il loro messaggio, oggi
trovano che tale messaggio è cambiato. Quanti le ritenevano
immortali oggi dubitano della loro eternità e quanti ipotizzavano
la loro scomparsa a breve termine assistono con sorpresa
all’irruzione di forme mistiche manifeste o larvate.
13.
Ed in questo campo sono davvero pochi quelli che intuiscono ciò che
prepara il futuro, perché sono davvero pochi quelli che si dedicano
al compito di comprendere in che direzione avanza l’intenzionalità
umana che necessariamente trascende l’individuo. Se l’uomo vuole
che qualcosa di nuovo si “mostri” è perché ciò che tende a
“mostrarsi” sta già operando nel suo paesaggio interno. Ma non è
pretendendo di essere il rappresentante di un dio che l’uomo
diventa, nel suo vissuto interno, la dimora od il paesaggio di uno
sguardo (di un’intenzione) trascendente.
XIII. I CAMMINI APERTI
1.
Ed il lavoro, il denaro, l’amore, la morte e tanti altri aspetti
del paesaggio umano appena toccati in queste riflessioni? Che dire di
essi? Chiunque può dare una risposta, purché utilizzi questo modo
di affrontare i temi, purché colleghi, cioè, sguardi e paesaggi e
comprenda che i paesaggi cambiano gli sguardi.
2.
Da quanto detto, risulta che non è necessario parlare di nuove cose
se c’è qualcuno che può affrontarle nel modo fin qui usato da
noi, perché quel qualcuno potrebbe parlarne proprio come lo faremmo
noi. Se poi parlassimo di cose che non interessano nessuno od
utilizzassimo una forma di espressione che non permettesse di
svelarle, sarebbe insensato continuare a parlare agli altri.
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