ACCADEMIA DELLE SCIENZE, MOSCA, RUSSIA
6
OTTOBRE 1993
Signor
Vicepresidente dell’Accademia delle Scienze di Russia, Vladimir
Kudriatsev, illustri professori ed amici.
Il
riconoscimento che mi è stato conferito dall’Accademia delle
Scienze di Russia nella sessione del Consiglio Scientifico
dell’Istituto per l’America Latina, tenutasi il 21 settembre
scorso, è stato di enorme importanza per me. Pochi giorni dopo aver
ricevuto la notizia, mi trovo qui per ringraziarvi di questo
riconoscimento e per fare alcune riflessioni intorno al dialogo da me
svolto nel corso di vari anni con gli accademici di diversi istituti
del vostro Paese. Si è trattato di un rapporto di reciproco
arricchimento portato avanti attraverso il contatto personale, la
corrispondenza ed i libri. Esso ha dimostrato come fosse
effettivamente possibile individuare alcune idee di fondo che
fossero condivise da entrambe le parti, cosa questa che si dà solo
quando il dialogo è, come nel nostro caso, rigoroso e scevro da
pregiudizi. Per contrasto, vorrei affrontare qui il problema degli
ostacoli che intralciano la fluidità del dialogo in generale e che,
molto frequentemente, lo portano in una strada senza uscita.
Intendo
la parola “dialogo” quasi nell’accezione del termine greco
dialogos e di quello latino dialogus, che riprende la
medesima idea, accezione che implica sempre l’alternarsi, nel
discorso, di persone che manifestano le proprie idee o sentimenti.
Ma quand’anche adempia a tutti i requisiti formali, a volte il
dialogo fallisce e di conseguenza non si arriva a comprendere
adeguatamente ciò che era oggetto di esame. La forma filosofica e
scientifica del pensare, a differenza di quella dogmatica, è
essenzialmente dialogica; essa si trova in stretto rapporto con
quella struttura dialettica che già Platone ci aveva presentato
come uno strumento di approssimazione alla verità. Studiosi
contemporanei sono tornati a riflettere sulla natura del dialogo,
prendendo le mosse soprattutto dalla Fenomenologia e dalla
formulazione del “problema dell’Altro”, che ha in Martin Buber
il suo esponente più importante. Già Collingwood aveva messo in
chiaro che un problema non si risolve se non lo si capisce e che non
lo si capisce se non si sa che tipo di questione ponga. Nel dialogo
ermeneutico domanda e risposta si alternano; ma non c’è risposta
che chiuda il cerchio, anzi, esso si apre a nuovi interrogativi che,
a loro volta, esigono nuove formulazioni.
La
tesi che difenderò oggi può essere esposta in questi termini: non
può esistere dialogo completo se non si prendono in considerazione
gli elementi predialogici sui quali si basa la necessità del dialogo
stesso. Per spiegare quanto enunciato mi prenderò la libertà di
fare riferimento ad alcuni esempi tratti dalla mia esperienza
personale.
Quando
mi si chiede di spiegare il mio pensiero in una conferenza, in un
testo scritto od in una dichiarazione alla stampa, ho la sensazione
che tanto le parole che uso quanto il filo del discorso che sviluppo
possano essere seguiti senza difficoltà ma che, ciononostante, il
discorso stesso non riesca a “connettersi” con gran parte
dell’uditorio, oppure dei lettori o dei giornalisti. Si tratta di
persone la cui capacità di comprensione, in termini generali, non
è peggiore di quella di molte altre con le quali invece il mio
discorso “si connette”. Naturalmente non mi sto riferendo al
disaccordo che l’altra parte può manifestare, con una serie di
obiezioni, alle proposte da me avanzate; in questa situazione mi
sembra che vi sia anzi una “connessione” perfetta: connessione
che ritrovo anche in un’accesa disputa. No, si tratta di qualcosa
di più generale, di qualcosa che ha a che vedere con le condizioni
del dialogo stesso (intendendo la mia esposizione come un dialogo
con l’altra parte, che accetta, rifiuta o mette in dubbio le mie
asserzioni). La sensazione di non connessione si fa sentire con forza
quando mi rendo conto che, pur essendo stato compreso quanto ho
spiegato, ecco che si tornano a chiedere le stesse cose o si continua
ad insistere su punti che non discendono da quanto è stato detto. E’
come se una certa vaghezza, un certo disinteresse andasse di pari
passo con la comprensione di quanto esposto; come se l’interesse si
radicasse più in là (o più in qua) di ciò che viene enunciato.
Qui possiamo intendere il dialogo come un rapporto di riflessione o
discussione tra persone, tra parti. Senza concedere troppo al
rigorismo, converrà individuare certe condizioni necessarie affinché
questo rapporto possa esistere od affinché un’esposizione possa
essere seguita ragionevolmente. In questa prospettiva possiamo dire
che affinché un dialogo sia coerente è necessario che le parti: 1.
stabiliscano di comune accordo il tema da discutere; 2. attribuiscano
al tema affrontato un analogo livello d’importanza; e 3. possiedano
un vocabolario comune relativamente ai termini decisivi che verranno
usati.
Quando
diciamo che le parti devono essere d’accordo sulla scelta del tema
da prendere in esame, stiamo facendo allusione ad un rapporto nel
quale ciascuno ritiene il discorso dell’altro degno di nota.
Fissare un tema, per altro, non significa che il tema stesso non
ammetta trasformazioni o cambiamenti via via che lo si sviluppi; in
ogni caso, però, ciascuna delle parti deve sapere, anche se
minimamente, di cosa stia parlando l’altra.
Quando
diciamo, prendendo in esame la condizione successiva, che i livelli
di importanza attribuiti al tema dalle due parti debbano essere
analoghi, non stiamo affermando la necessità di una coincidenza
totale su questo punto, bensì di una vicinanza quantitativamente
accettabile tra le due valutazioni; poiché, se il tema risultasse
della massima importanza per una della parti mentre per l’altra
fosse irrilevante, si potrebbe anche arrivare ad un accordo
sull’oggetto della discussione ma non sull’interesse o sulla
funzione svolta dall’insieme del discorso.
Per
ultimo, se ai termini decisivi corrispondessero definizioni diverse,
le parti potrebbero arrivare ad alterare l’oggetto del dialogo e di
conseguenza il tema trattato.
Solo
se le tre condizioni sopraddette vengono soddisfatte si potrà
portare avanti il dialogo e giungere così ad un ragionevole accordo
o disaccordo con la serie di argomenti esposti. Esistono però
numerosi fattori che impediscono di soddisfare le condizioni del
dialogo. Qui mi limiterò a prendere in considerazione alcuni
fattori predialogici che influiscono sulla valutazione del livello
d’importanza da attribuire ad un tema dato.
Perché
esista un enunciato è necessario che ci sia un’intenzione
preliminare che permetta di scegliere i termini ed il rapporto tra di
essi. Non basta che io enunci: “Nessun uomo è immortale” o
“Tutti i conigli sono erbivori” per far capire di quale argomento
stia parlando. L’intenzione preliminare al discorso delimita
l’ambito, delimita l’universo nel quale si inscrivono le
proposizioni. Tale universo non è geneticamente logico ma ha a che
vedere con strutture prelogiche, predialogiche. Altrettanto vale per
colui cui l’enunciato è rivolto. E’ necessario che l’universo
del discorso sia lo stesso per chi enuncia e per chi riceve
l’enunciato: in caso contrario si parlerà di non coincidenza del
discorso.
Fino
a poco tempo fa si pensava che in un discorso la conclusione
derivasse dal gioco delle premesse. Si riteneva, ad esempio, che al
dire: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; quindi
Socrate è mortale”, la conclusione derivasse dalle affermazioni
iniziali, quando in realtà succedeva che chi aveva organizzato gli
enunciati avesse già in mente la conclusione. Esisteva infatti
l’intenzione di ottenere un certo risultato e proprio questo
permetteva di scegliere enunciati e termini. Nel linguaggio
quotidiano accade lo stesso ed anche nella Scienza il discorrere va
nella direzione di un obiettivo precedentemente formulato sotto forma
di ipotesi. Ebbene, quando si stabilisce un dialogo, ciascuna delle
parti può avere intenzioni diverse e puntare ad obiettivi distinti
e, soprattutto, ciascuna può dare una propria valutazione globale
dell’importanza di un medesimo tema. Ma questa “importanza” non
è data dal tema, bensì da un insieme di credenze, da una scala di
valori e da interessi che sono precedenti al tema. In termini
astratti, due persone potrebbero mettersi d’accordo nello
stabilire che il tema “il senso della vita” sia della massima
importanza e tuttavia una delle due parti potrebbe essere convinta
che affrontare tale materia sia di scarsa praticità, che non risolva
niente e che, infine, non rivesta un carattere d’urgenza per quanto
riguarda la vita quotidiana. Che l’interlocutore scettico segua
semplicemente lo svilupparsi delle argomentazioni dell’altra parte
o che partecipi attivamente al dialogo, ciò può essere spiegato da
altri fattori ma non dal tema, la cui sostanzialità tale
interlocutore ha squalificato a priori. In questo senso gli elementi
predialogici non solo delimitano l’universo che conferisce al tema
un determinato livello di importanza ma individuano anche le
intenzioni, che vanno ben al di là (o al di qua) del tema stesso. E’
evidente che gli elementi predialogici sono prelogici ed agiscono
all’interno dell’orizzonte epocale, sociale, orizzonte che gli
individui confondono spesso con il prodotto delle proprie personali
esperienze ed osservazioni. E questa è una barriera che non si può
superare facilmente, perlomeno fintanto che non si modifichi la
sensibilità dell’epoca, del momento storico nel quale si vive. E’
precisamente per questo che numerosi risultati raggiunti nella
Scienza od in altri campi dell’attività umana sono stati accettati
con totale evidenza solo in momenti successivi; ma prima di arrivare
a tale accettazione, chi si batté per le nuove idee e per le
attività ad esse connesse incontrò il vuoto dialogico e molto
spesso dovette scontrarsi con una barriera di ostilità eretta
davanti alla sola possibilità di discutere pubblicamente i nuovi
punti di vista. Passata la turbolenza iniziale ed essendosi
affacciate sulla scena della storia una o più generazioni nuove,
l’importanza di quei risultati che precorrevano i tempi diventa
patrimonio comune e tutti indistintamente si stupiscono del fatto che
i risultati in questione siano stati precedentemente negati o
minimizzati.
Allora,
dato che il mio pensiero non risulta affatto in linea con
determinate credenze, valori e interessi interni all’universo
epocale, mi diventa comprensibile la “sconnessione” che si crea
con molti dei miei interlocutori, con i quali in astratto sembrerebbe
esserci il più grande accordo. Nel mio compito di diffondere
l’Umanesimo mi trovo frequentemente di fronte alle difficoltà che
ho menzionato in precedenza: se si spiega la concezione
dell’Umanesimo contemporaneo e la si spiega chiaramente, non
necessariamente si otterrà come risultato una connessione adeguata
con molti interlocutori e questo perché sussistono remore e
credenze caratteristiche di precedenti momenti storici che
attribuiscono ad altri temi un’importanza superiore a quella
attribuita alla problematica che ha come centro l’essere umano.
Naturalmente molti si diranno “umanisti”, dato che la parola
“umanesimo” può abbellire il discorso ma è chiaro che non è
ancora maturato un interesse genuino per intendere le ragioni o le
proposte di questa corrente di pensiero e di questa prassi in campo
sociale. Se, mentre la moda detta la fine delle ideologie, si
presuppone che organizzare le idee in forma sistematica significhi
costruire un’ideologia, si tenderà - evidentemente - a non
prendere in considerazione le formulazioni sistematiche
dell’Umanesimo. In modo del tutto contraddittorio si preferiranno
risposte congiunturali a problemi che sono globali ed ogni risposta
sistematica apparirà come una generalizzazione eccessiva. In questo
modo, però, risulterà impossibile cogliere i problemi fondamentali
che si presentano e che, in un’epoca di mondializzazione, sono
appunto strutturali e globali; si ricorrerà necessariamente, invece,
ad un insieme di risposte destrutturate, che per la loro stessa
natura finiranno per complicare ancora di più le cose, creando una
reazione a catena incontrollabile. E’ evidente che si sta seguendo
questa strada perché il mondo è governato da circoli economici
ristretti che impongono i loro interessi. Ma la visione di questa
minoranza privilegiata ha fatto presa perfino sugli strati più
disagiati della società: è davvero patetico ritrovare nei discorsi
del cittadino medio gli stessi toni che prima percepivamo nei
discorsi dei rappresentanti delle minoranze dominanti riportati dai
mezzi di comunicazione di massa. Le cose continueranno in questo modo
- ed un dialogo profondo od un’azione concertata globalmente non
risulteranno possibili - fino a quando non saranno falliti i vari
tentativi settoriali di risolvere la crisi sempre più grave che si è
scatenata nel mondo. Nel momento attuale si crede che il sistema
economico e politico vigente non debba essere posto in discussione
nella sua globalità poiché lo si ritiene perfettibile. Al
contrario, secondo noi, questo sistema non è perfettibile e non può
essere riformato gradualmente e non saranno soluzioni congiunturali
destrutturate a permetterne a poco a poco la ricomposizione. Queste
due posizioni, messe a confronto, potrebbero in teoria intrecciare
un dialogo: ma gli elementi predialogici che agiscono nell’uno e
nell’altro caso sono inconciliabili quanto a sistemi di credenze e
sensibilità. Sarà solo grazie al fallimento sempre più evidente
delle soluzioni settoriali che si arriverà ad un altro orizzonte
dell’interrogare ed ad una condizione adeguata al dialogo. Allora
le nuove idee verranno gradualmente accettate e al contempo vasti
settori della società, sempre più privi di speranza, passeranno a
mobilitarsi. Già oggi, quand’anche si affermi che alcuni aspetti
del sistema attuale possano e debbano essere migliorati, la
sensazione che si va diffondendo in frange sempre più vaste della
popolazione è che nel futuro le cose non potranno che peggiorare; e
questa sensazione non è semplicemente il segno di una tendenza
apocalittica di fine secolo ma rivela un malessere pervasivo e
generalizzato che, nato nelle viscere delle maggioranze senza voce,
tende a toccare tutti gli strati sociali. Intanto si continua,
contraddittoriamente, ad affermare che il sistema è
congiunturalmente perfettibile.
Il
dialogo, fattore decisivo nella costruzione umana, non si riduce ai
rigori della logica o della linguistica. Il dialogo è qualcosa di
vivo: in esso lo scambio di idee, sentimenti ed esperienze è
intessuto all’irrazionalità dell’esistenza. E’ la vita umana,
con le credenze, i timori, le speranze, gli odi, le ambizioni e gli
ideali propri di ciascuna epoca, che costituisce il terreno di ogni
dialogo. Quando abbiamo detto: “Non può esistere dialogo completo
se non si prendono in considerazione gli elementi predialogici sui
quali si basa la necessità del dialogo stesso” stavamo puntando lo
sguardo alle conseguenze pratiche della nostra affermazione. Non ci
sarà dialogo completo sulle questioni di fondo della civiltà
attuale sino a che la società non cesserà di aver fiducia nelle
tante illusioni alimentate dal sistema attuale. Nel frattempo il
dialogo continuerà ad essere privo di sostanza e di connessione con
le motivazioni profonde della società.
Quando
mi è giunto il riconoscimento dell’Accademia, ho intuito che in
alcune parti del mondo qualcosa di nuovo stava accadendo; quel
qualcosa, che all’inizio era solo un dialogo tra specialisti, un
giorno arriverà ad occupare la pubblica piazza.
Il
mio ringraziamento va a questa prestigiosa istituzione ed a voi
tutti, insieme al mio più vivo desiderio che un dialogo fruttifero
si approfondisca e si estenda al di là delle aule accademiche.
Nessun commento:
Posta un commento