In questo periodo sto sperimentando la meditazione sulla respirazione.
E sono sorte queste considerazioni.
Mentre medito sulla respirazione, mi rendo conto che, inizialmente, tendo ad alterarla, secondo le mie necessità; intervengo su di essa in modo insistente, cosciente.
Con il proseguire della pratica imparo a mantenere attenzione sulla respirazione senza intervenire, senza manipolarla, e sperimento quella che ho chiamato “respirazione naturale attenta”. Lascio che siano i ritmi del corpo a decidere; il respiro si fa tranquillo e breve, corto ma non rapido, poi sorge una leggera carenza e nasce spontaneamente un respiro più lungo e profondo; il tutto si dà da se, in modo perfetto, assolutamente funzionante.
Mi rendo conto che posso comunque intervenire, cambiare; scelgo di farlo o non farlo. Ma mi rendo anche conto che il mio intervento è limitato, all'interno di certi parametri, di certi tempi; il processo naturale della respirazione ha le sue regole all'interno delle quali muovermi e più me ne allontano più mi avvicino a certe soglie “dolorose”. Il tutto però rimane all'interno di alcune regole ineludibili: posso inspirare o espirare o sospendere, non posso fare altro e comunque solo temporaneamente; non posso inspirare, espirare o sospendere troppo a lungo ad esempio.
Torno con la memoria a quando facevo apnea, a quando, grazie alla giusta preparazione, potevo stare un paio di minuti sott'acqua a prender cozze senza respirare e senza bisogno di respirare, senza tensione nel non respirare, senza pensare nemmeno al fatto che non stavo respirando.
E sorge quindi oggi, prorompente, una sorta di isomorfismo tra questo atto del respirare e la coscienza. Prendo lucidamente atto che il meccanismo è apparentemente lo stesso. C'è una meccanica secondo cui la coscienza funziona a prescindere da “me”. Meditando quindi sul funzionamento della coscienza mi trovo nella stessa situazione di intervenire, di interrompere aggressivamente questo meccanismo automatico. Procedendo con la meditazione imparo ad osservare senza intervenire, osservando i pensieri che vanno e vengono, gli atti che nascono, trovano pace e scompaiono; chiamo quindi questa cosa “meccanica naturale attenta” e credo somigli molto alla “coscienza di se”. Gli insogni si fanno più chiari, la divagazione si fa limpida, il funzionamento si fa più tranquillo, lineare, quieto e quindi comprensibile, ineludibile.
Sperimento quindi la mia capacità di intervenire sui processi mentali, ma come per la respirazione, questo avviene all'interno di parametri, di regole, di restrizioni ineludibili e molto limitative. La meccanica di base non può essere alterata. Posso aggiungere qualche argomento, interrompere brevemente qualche processo, ma in definitiva, ciò che apparentemente posso fare e quanto lo posso fare è estremamente limitato, circoscritto, delineato all'interno della forma mentale, della basilare meccanica della struttura atto-oggetto.
“Io non sono l'io” in realtà non ha senso perché l'unica cosa che attualmente può formulare una frase del genere è proprio l'io. E' solo l'io che si identifica in qualcosa e che quindi può dire “io sono qualcosa” o “io non sono qualcosa”. Quel qualcosa o quel qualcuno che non si identifica, che non ha problemi di identità, che non cerca pace fuori di sé, nemmeno si preoccupa di dire che non è qualcosa.
Penso che continuerò questi esperimenti con la respirazione ed i paragoni con la meccanica della coscienza.