giovedì 30 giugno 2016

Respirazione

In questo periodo sto sperimentando la meditazione sulla respirazione.
E sono sorte queste considerazioni.

Mentre medito sulla respirazione, mi rendo conto che, inizialmente, tendo ad alterarla, secondo le mie necessità; intervengo su di essa in modo insistente, cosciente. 
Con il proseguire della pratica imparo a mantenere attenzione sulla respirazione senza intervenire, senza manipolarla, e sperimento quella che ho chiamato “respirazione naturale attenta”. Lascio che siano i ritmi del corpo a decidere; il respiro si fa tranquillo e breve, corto ma non rapido, poi sorge una leggera carenza e nasce spontaneamente un respiro più lungo e profondo; il tutto si dà da se, in modo perfetto, assolutamente funzionante. 
Mi rendo conto che posso comunque intervenire, cambiare; scelgo di farlo o non farlo. Ma mi rendo anche conto che il mio intervento è limitato, all'interno di certi parametri, di certi tempi; il processo naturale della respirazione ha le sue regole all'interno delle quali muovermi e più me ne allontano più mi avvicino a certe soglie “dolorose”.  Il tutto però rimane all'interno di alcune regole ineludibili: posso inspirare o espirare o sospendere, non posso fare altro e comunque solo temporaneamente; non posso inspirare, espirare o sospendere troppo a lungo ad esempio.
Torno con la memoria a quando facevo apnea, a quando, grazie alla giusta preparazione, potevo stare un paio di minuti sott'acqua a prender cozze senza respirare e senza bisogno di respirare, senza tensione nel non respirare, senza pensare nemmeno al fatto che non stavo respirando.

E sorge quindi oggi, prorompente, una sorta di isomorfismo tra questo atto del respirare e la coscienza. Prendo lucidamente atto che il meccanismo è apparentemente lo stesso. C'è una meccanica secondo cui la coscienza funziona a prescindere da “me”. Meditando quindi sul funzionamento della coscienza mi trovo nella stessa situazione di intervenire, di interrompere aggressivamente questo meccanismo automatico. Procedendo con la meditazione imparo ad osservare senza intervenire, osservando i pensieri che vanno e vengono, gli atti che nascono, trovano pace e scompaiono; chiamo quindi questa cosa “meccanica naturale attenta” e credo somigli molto alla “coscienza di se”. Gli insogni si fanno più chiari, la divagazione si fa limpida, il funzionamento si fa più tranquillo, lineare, quieto e quindi comprensibile, ineludibile.
Sperimento quindi la mia capacità di intervenire sui processi mentali, ma come per la respirazione, questo avviene all'interno di parametri, di regole, di restrizioni ineludibili e molto limitative. La meccanica di base non può essere alterata. Posso aggiungere qualche argomento, interrompere brevemente qualche processo, ma in definitiva, ciò che apparentemente posso fare e quanto lo posso fare è estremamente limitato, circoscritto, delineato all'interno della forma mentale, della basilare meccanica della struttura atto-oggetto.

“Io non sono l'io” in realtà non ha senso perché l'unica cosa che attualmente può formulare una frase del genere è proprio l'io. E' solo l'io che si identifica in qualcosa e che quindi può dire “io sono qualcosa” o “io non sono qualcosa”. Quel qualcosa o quel qualcuno che non si identifica, che non ha problemi di identità, che non cerca pace fuori di sé, nemmeno si preoccupa di dire che non è qualcosa.

Penso che continuerò questi esperimenti con la respirazione ed i paragoni con la meccanica della coscienza. 

lunedì 27 giugno 2016

La divagazione

La divagazione ancora sul trono

Ma questa volta con merito dannazione!
Quanto c'ho messo a capire questa dannatamente semplice, evidente, indiscutibile verità? La divagazione è buona, la divagazione è un bene, la divagazione è bella.

Pratico una meditazione attenta; esperienze di forza molto ben composto; la routine con diligenza e rettitudine. E di tanto in tanto sorge una divagazione, un'immagine insistente. Ah! Terribile nefandezza, come osi oh tu, molestamente molestare la mia attenzione, la mia compostezza, la mia diligenza e la mia rettitudine? Oh tu, molestamente molesta sei!

Ma dico, ci vogliamo svegliare sul serio? Allora, ti spiego con molta calma, così che anche tu, caro Riccardo, possa capire questo meccanismo tanto semplice da essere goffamente banale. Se mentre sei molto concentrato su una cosa, ti viene in mente un'altra cosa, magari addirittura con forza e di frequente... e ci sarà un cazzo di motivo? O pensi di divagare “così”, a caso?

Ecco, chiacchierando con una cara, carissima amica, ho capito quanto sia importante mettere una certa attenzione alla divagazione. Quando individuiamo un tema di divagazione, specialmente se insistente e forte, può essere sommamente importante meditare in profondità su di esso. Se penso continuamente a quella litigata, immaginando che vada in un modo, poi in un altro, rivivendola per dritto e per rovescio, ci sarà un atto lanciato dalla coscienza che viene temporaneamente “risolto” con questa divagazione? Ci sarà una tensione che cerca riposo in quel rivivere ciclico il ricordo? Allora, invece di scacciare quel doloroso pensiero come peste rossa, magari mi ci metto a meditare sopra. No? Così magari, invece di rivivere o rivedere il ricordo, trovo la radice di quella tensione e trovo qualcosa di più interessante da farci. Se ogni oggetto mentale è il bersaglio di un atto e se questo oggetto tende a riproporsi ciclicamente, c'è forse la vaga possibilità che non sia l'oggetto mentale adatto a risolvere la questione. Forse vale la pena provare altre idee, altre riflessioni, altri approcci a quella tensione. Per cui, osserviamo questa divagazione, risaliamo lentamente alla sua radice, alla tensione generatrice.

Beh, ci ho provato... e indovina? Sorpresa sorpresa... le cose vanno meglio! Alcune tensioni vanno via sul serio, si risolvono cose! Imprevedibile no?

Se penso spesso a cosa mangerò, forse sto mangiando male.

Come dicono i maestri Zen:
Se stai camminando, cammina.
Se stai mangiando, mangia.

E io aggiungo, se stai divagando, divaga.
Parafrasando Rosa, come mi ricorda la mia cara, carissima amica, basta che stai su quello in cui stai. Sia ciò anche la divagazione aggiungo io.


Santa sia la divagazione. Santo è il suo scopo. Santo il suo senso. Santo il suo messaggio. Onorate anche voi la divagazione, infedeli!  

venerdì 24 giugno 2016

Illusione e "io"

E' sempre l'io che vuole diventare immortale. E' subdolo questo io, perché è sua anche questa grande ricerca. Io vuole che faccio bene la disciplina mentale (è lui che la fa), perché spera che se la faccio bene anche lui ne beneficerà, e pensa che possa renderlo immortale. E' suo anche il voler contemplare l'agire della mente, il voler registrare l'attività della mente.

Ma io è quello che fa praticamente tutto. Scopro che è sempre io che guarda le cose, che le giudica, che distingue. Anche quando “mi guardo” è io che guarda una cosa che poi chiama me, ma sembra non essere altro che un ennesimo inganno dell'io, un'altra illusione dell'illusione, l'ombra di un ombra.

L'illusione. L'identificazione. Qualsiasi cosa guardo, è io. Per questo m'identifico così tanto in tutto... come se io cercasse un posto in cui stare per stare bene, per sempre... ma non lo trova mai, perché io, alla fine, in fondo in fondo, lo sa che non potrà permanere, in alcun modo. E' io che desidera, è io che prova piacere, è io che prova dolore, è io che contempla l'abbandono dell'io. E' io che vuole essere immortale ma è proprio io che muore, proprio tutto ciò a cui mi riferisco quando dico “io sono”, “io faccio”, “io penso”, “io spero”, “io odio”, “io amo”, “io accetto”, “io rifiuto” è ciò che muore, che un giorno smetterà di essere, inevitabilmente.

Alla fine, è sempre io. Ma la coscienza esiste prima dell'io. Questa struttura continua di atti, di intenzioni, di protensioni, esisteva prima dell'io. Nasciamo con una tendenza al futuro... siamo sempre un attimo nel futuro, con queste intenzioni lanciate a quegli oggetti che stanno lì, a pochi istanti da ora... e ogni volta che questa intenzione raggiunge il traguardo, altri atti sono di nuovo lanciati verso qualcosa che a breve sarà raggiunto. E così si va formando io. Comincio a credere di essere quello che m'è successo, le mie tensioni, le mie aspirazioni, le mie aspettative... tutte cose che cesseranno. Che senso ha questa costruzione?

E così ogni pensiero è falso. Ogni considerazione è una considerazione dell'io... e ricorsivamente torno indietro a guardare chi guarda e sempre mi scopro a guardare l'io. Tutto sembra essere permeato da questo io. Qualsiasi cosa osservo, qualsiasi cosa considero, è io che osserva e considera io. Qualsiasi cosa abbandono, è io che l'abbandona, e si attacca a questa nobile arte dell'abbandono. E' l'io che può essere ferito, che può soffrire, non altro.

Non questo, non questo. 
Il rifiuto totale di ogni considerazione e di ogni considerante. Come dice Krishna ad Arjuna, contemplare la natura che agisce, poiché il Sé non è l'agente. Non c'è un agente, ma una natura che si esprime, che agisce e interagisce. Agire per l'agire e non per il frutto, perché se agisci per agire non agisci. Faccio Zazen per fare Zazen. Stai su ciò in cui stai. Medita con l'unico scopo di meditare.
E' come qualcosa che bussa, che prende a spallate una porta e qualcuno che davanti alla porta tossisce per coprire e nascondere il rumore: “niente niente, un po' di tosse”. Bum! Bum! “Cof, cof! Scusate, sapete, un po' di tosse, non vi preoccupate, continuate a bere, continuate a ballare, continuate per sempre!”.

Chi è che bussa? Chi è che sta in quegli spazi sacri. Cos'è quella commozione profonda, intensa, dolce e interminabile come il cielo stellato, silenzioso e delicato? Cosa sono quelle lacrime benedette che sorgono quando scrivo certe cose, quando leggo certe cose, quando vedo certe cose?

Più che il piacere in se o il dolore in se... è l'attaccamento.
E il primo a cadere, è sempre l'orgoglio, che cade sempre per ultimo, il furbino.

lunedì 20 giugno 2016

Uno, Tutto, Nulla

Leggevo alcune considerazioni di alcuni praticanti (più o meno riconosciuti) il buddhismo e il buddhismo zen.

Le posizioni buddhiste, o anche quelle taoiste, vanno sempre, più o meno a parare là: tutto è uno, oppure tutto è niente, sei già illuminato solo che non lo sai, abbandona desiderio e attaccamento.

Ma se tutto è Uno, allora anche la mia dualità, la mia mania, il mio conflitto e il mio conflitto nei confronti della dualità e del conflitto sono l'Uno
Se tutto è Nulla, allora anche questa mia comprensione è Nulla, e anche il mio desiderio di comprendere questo è Nulla, anche il superamento della dualità è Nulla.
Se sono già illuminato, se le cose stanno bene come stanno, anche il mio desiderio di interferire e cambiare le cose da come stanno sta bene come sta, anche il mio desiderio di illuminazione è illuminazione e anche la mia frustrazione per la mancanza di illuminazione è tale.
Se bisogna superare il desiderio, bisogna anche superare il desiderio di superare il desiderio.

C'è qualcosa che unisce tutti questi pensieri. Il paradosso, la ricorsività, il ritorno su se stesso.

C'è un grande segreto che si nasconde dietro questi millenari insegnamenti, dietro le strane parole di saggi antichi e moderni, di mistici seduti o girovaghi. C'è il tentativo di spezzare uno schema di pensiero. Come se mi stessero dicendo che devo smettere di pensare come ho sempre fatto. Che si tratta di rompere una forma. Mi stanno dicendo che il pensiero è mondano, terreno, instabile, inadeguato, impermanente, insufficiente. Questi maestri stanno tentando di produrre in me quello shock, quella destabilizzazione, quella coscienza indiscutibile dell'inadeguatezza del pensiero.

Sento quindi la necessità di abbandonare la necessità impellente di rappresentare sempre ciò che sperimento. C'è quella forza traente verso il basso, che nel suo fare sembra dire: “Se non puoi formalizzare questa cosa, se non puoi concretizzare un vantaggio evidente nella tua vita quotidiana secondo alcuni schemi di vantaggio e svantaggio, se non puoi dargli un nome, descriverlo in modo soddisfacente alla mente mondana, allora non è reale, è illusorio, è suggestione; in definitiva non vale.”
Questo mi sembra il grande inganno e la grande resistenza. La difficoltà ad accettare ciò che viene durante la pratica, la meditazione, l'azione e il vivere in generale; accettarlo e osservarlo come viene e non volerlo possedere né non-possedere. Anche perché fondamentalmente se è in me, se nasce in me, è già mio ma, essendo diretto verso la morte, in definitiva, nulla è realmente mio.

Poi rifletto sul “far fare a se stessi” qualcosa, creando una dualità non solo tra sé e il mondo, ma tra un ipotetico sé che decide e un ipotetico sé stesso che agisce. Tutto è Uno quindi mi aiuta ad accettare che io sono Uno e non due, e che non posso “scegliere di fare qualcosa” né “impormi di fare qualcosa”, posso semplicemente fare qualcosa o non farla; mettere in moto un pensiero, oppure non metterlo in moto; essere unito o essere diviso.

Lo zen sembra tradurre questa cosa più o meno in questo modo
“Quando agisci, limitati ad agire. Quando pensi, limitati a pensare. Sopratutto, non restare nell'incertezza”

Colgo quindi la differenza tra “evolvere” e “migliorare”. L'albero non è un “seme migliorato”. Innaffio il seme perché un giorno diventi albero, ma non perché il seme è sbagliato.

venerdì 17 giugno 2016

Pensiero ricorsivo

Il rischio del pensiero ciclico

Nel tentativo di non perdere quell'attimo, di accertarmi che sto assaporando per bene ogni dettaglio, rischio di cadere nella trappola del pensiero ricorsivo.

E mentre gusto una buona pietanza, una parte di me vuole sentire con più attenzione quello splendido sapore e si concentra sul sapore. Ma una parte di me vuole sentire bene quella sensazione di piacere che si ha quando si sente un buon sapore e si concentra sulla sensazione di sentire il piacere, sul godimento del gustare. Ma una parte di me vuole essere certo di afferrare bene questo registro e si concentra sul sentire il sentire il piacere. Ma una parte di me vuole fissare bene in memoria questo registro di sentire il sentire il sapore, e si concentra sulla memorizzazione del sentire il sentire il sapore.

E nel rincorrere me stesso, mi dimentico il sapore, perseguo il piacere e mi incateno alla sofferenza.

Se stai mangiando, mangia. Non importa se lo fai mentre cammini.
Se stai meditando, medita. Non importa se lo fai mentre mangi.

Devo ricordare che ci sono due livelli, non di più. Il Sé e ciò che sto facendo. Tutto il resto è divagazione, accessorio. C'è il Sé e il sapore. C'è il Sé e il sentire. C'è il Sé e il non-Sé.

Allora faccio esperimenti. Tolgo cose. Cerco di prendere atto di tutto ciò che faccio per “non annoiarmi” e mi rendo conto che ogni cosa che tolgo, mi annoio meno.

Ecco il grande paradosso. Se tolgo tutto ciò che faccio per non annoiarmi, mi trovo completamente atterrito di fronte a ciò che c'è da fare. Non esiste più la noia, non mi annoio più, ma manco per niente... E' che togliendo tutto ciò che facevo per “non annoiarmi”, rimane ciò che c'era da fare e che in realtà stavo nascondendo.

Che la noia sia in realtà l'intuizione che non sto facendo ciò che so che dovrei fare? Che sia semplicemente un segnale che mi dice non che “non sto facendo niente e mi annoio” ma che “sto facendo qualcosa e non è la cosa giusta”? Interessante... estremamente interessante. Quindi quando, annoiandomi, comincio a fare qualcosa, sto semplicemente fuggendo da ciò di cui ho realmente bisogno. 

Ma tante di queste cose mi sono così care...

“Fai attenzione ai tuoi pensieri Anakin!” disse Obi Wan Kenobi al suo giovane padawan.

mercoledì 15 giugno 2016

Sconforto

Oggi ho sperimentato uno sconforto sconfinato. Ero cosciente, e facevo attenzione a ciò che facevo, ma dovevo toccare questa cosa e la dovevo toccare per bene, dovevo capire. Beh, non ci sono proprio riuscito (né a toccare né a capire), ma comunque ho fatto qualcosa.
E' iniziato tutto ieri sera. Prima di andare a dormire, come sempre, mi sono guidato la guida del cammino interno (Il Messaggio di Silo). Poi, non avendo ancora molto sonno, ho deciso di fare un gioco... andare a pescare a caso immagini del mio passato e lanciarle, magari in sogno ci facevo qualcosa; pescarle “un po' a caso”, sentire il registro, guardare il registro, cercare di seguire un po' il filo dei miei atti mentali con questo ricordo/immagine/registro, fin quando un'altra immagine non si faceva “pressante” (essendo quasi in dormiveglia non sempre avevo il controllo della situazione) e passavo a quella, stesso gioco, stessi passi.
E' stato molto interessante, anzi, moltissimo. Alcune immagini sono accompagnate da una profonda nostalgia, un registro di “serena innocenza perduta” di cui sentivo la mancanza. Eppure, intellettualmente, ricordo perfettamente che quando ero là, in alcuni di quei momenti, mi sentivo tutt'altro che “innocentemente sereno”, ma “profondamente incasinato”. Eppure, il registro, oggi, non è quello che “ricordo con la testa”.
Oggi, da sveglio, dopo l'esperienza di forza, ho scelto un paesaggio calmo, un prato piovoso di Villa Borghese... e con una lenta aria di Bach nelle cuffie ho guardato fuori e dentro.
E ho incontrato questo sconforto. Certo, il paesaggio piovoso, la lenta aria di Bach, molti direbbero che non è che mi potevo aspettare di essere allegramente colmato di senso... ma non cercavo allegria, cercavo appunto quel registro di ieri sera, quella nostalgia della serena innocenza, da lucido, più o meno. Ma ho incontrato lo sconforto... ero moderatamente attento, quindi ho potuto seguire la mia mente mentre si “sconfortava”. In pratica, ho paura di non potermi superare... e se non mi posso superare, questa inquietudine, questa ansia da prestazione, non sparirà mai... allora non voglio “la serena innocenza perduta”, voglio proprio l'oblio. Ho nostalgia di quel nonsenso, di quella casa bruciata da tempo, perché in quel non senso, non c'era dolore, non c'era ansia, non c'era niente.
E finalmente ho capito, più o meno. “Fuggire verso regioni basse e oscure”, “Cieli e inferni” e “linea divisoria tra i due stati mentali”. Stare con la testa in un modo o in un altro, può fare tutta la differenza del mondo. Il che ha a che vedere con ciò che scrivevo ieri... io sono in tutte le cose. Se dispero di riuscire, sono disperato, e il passato diventa innocenza perduta. Se sono arrabbiato, il passato diventa risentimento. Se mi sento sbagliato, il passato diventa colpa.
Perché si deve soffrire? Perché tutto così dannatamente complicato? E se non sapessi già che con l'oblio non sarei affatto felice, continuerei questo percorso? Continuerei a giocare a “un-due-tre-stella” con me stesso?
Ho nostalgia di tutto, di qualsiasi cosa non sia oggi. E questo è, senza dubbio, esilarante nella sua semplicità. Sono intrecciato in una rete di “se avessi” (se avessi fatto, se avessi detto, se avessi capito, se avessi rifiutato, se avessi accettato) che si manifestano a sorpresa durante l' “un-due-tre”, per poi nascondersi durante “stella”. O forse è il contrario? Cosa è che si nasconde e cosa è che nasconde?
Quale fascino ha il mondo interno, dotato di questa vita propria che ci sembra quasi “fuori di noi”, indipendente, autosufficiente. La logica, allo stato attuale, è inflessibile, non c'è una via facile, non c'è una scorciatoia. C'è l'oblio o l'impegno, le regioni basse e oscure o la direzione luminosa, i cieli e gli inferni, il Tentativo o la Degradazione.
Cazzo che fatica a volte...

lunedì 13 giugno 2016

Morirò

Morirò. Inevitabilmente ed inesorabilmente, questo corpo cesserà di muoversi, questo cuore smetterà di battere.

La presa di coscienza di questo dato di fatto, cambia la mia vita totalmente, anche se per pochi attimi, poiché immediatamente iniziano a lavorare “gli anticorpi dell'io”.

Ma se ignoro questo fatto, se non lo tengo presente, se questo argomento non entra mai nelle decisioni che prendo, tutto quello che faccio non ha alcun senso. Nessuna azione in questa realtà materiale e tangibile ha senso, se non prevede una conseguenza trascendente la morte o se non fa parte di un progetto trascendente la morte e non è nemmeno necessaria alla sussistenza o la stabilità di un sistema trascendente la morte, se in definitiva non tiene in considerazione in qualche modo la morte.

La coscienza della finitudine della parte materiale è importante. Essendo questa finitudine forse l'elemento da cui più fuggo e quindi più di tutti causa dell'abbassamento del livello di coscienza, esercitare la “coscienza della finitudine”, meditare sulla finitudine, sulla morte, sulla trascendenza, sull'attaccamento, sull'eternità e l'infinito, sono azioni di assoluta utilità.

Quando sono cosciente della mia finitudine, diventa sciocco mentire, fare una cosa senza voglia, sentirsi in colpa, sentirsi in dovere, curarsi del giudizio altrui. Quando sono cosciente della morte, non mi interessa essere riconosciuto o fare brutta figura. Quando sono cosciente che potrei morire domani come tra 50 anni, il mio unico interesse è fare felice me e coloro nelle mie immediate vicinanze... è come un imperativo, una necessità irrimandabile.

Parlando con una mia cara, carissima amica, la stessa della volta prima, ho pensato che lasciare questo corpo, se saprò prepararmi bene, sarà anche un sollievo, l'ultima liberazione, un momento esaltante.

Se sono cosciente della finitudine della materia, le mie azioni si concentrano sull'essere pronti per quel momento, sul preparare se stessi, a quel momento, “facendo” qui e ora. Allora osservo me stesso che agisce, come si osservano con grande curiosità dei piccioni che mangiano... e mettendo una mollica qui e una lì, posso portare quel piccione fin dove veramente mi serve.

In quegli inafferrabili momenti in cui sento con chiarezza la finitudine della materia, sono colto da un'incontenibile necessità di chiarezza, di luce, di lucidità, di unità. In quei volatili istanti, non mi interessa ciò che stanno pensando gli altri di me, totalmente. Sono centrato, sicuro, inamovibile, sereno, cosciente.

In quegli attimi, ultimamente ho preso delle decisioni e molte di queste decisioni hanno avuto a che vedere con “togliere”, fin quando il vuoto che si è creato non era abbastanza grande per contenere altro, che poi a volte è rientrato di nuovo nel ciclo del togliere. Basta con la Roma, basta con quelle serie TV, basta con quel gioco al PC o alla Play... Lentamente vado togliendo cose che mi sembra di usare per non annoiarmi. 

Quando la morte è chiaramente presente, non voglio perdere tempo, voglio arrivare all'essenziale, al determinante, all'unico, all'universale. Non ha senso rimandare, temporeggiare, aspettare il momento propizio. E la prima cosa a cadere, è l'orgoglio.

venerdì 10 giugno 2016

Assenza di giudizio

Oggi ho scoperto questo.
La meditazione è innanzi tutto, assenza di giudizio.

Essere presenti a se stessi, coscienti della sofferenza, della contraddizione, diviene realmente meditazione, quando sono in grado di osservare i miei atti mentali senza giudicarli, senza creare, attraverso il senso di colpa o la mortificazione, sofferenza dalla stessa pratica meditativa.

Durante la meditazione, sono cosciente della violenza che è in me e fuori di me, ne percepisco il nascere, lo svilupparsi e il morire. Non è in questo momento che mi è utile “giudicare” la violenza, né è in questa sede che “sconfiggo” la violenza in me e fuori di me.

Stessa cosa avviene per il risentimento, per l'attaccamento ai ricordi, per l'incertezza nel presente, per la paura del futuro. Non è in questa sede che “sconfiggo” le tre vie della sofferenza. In questa sede mi elevo, prendo coscienza dell'illusione, delle dittature.

La sede in cui cambio me stesso e il mondo per allontanare ciò che è sofferenza e contraddizione, per creare unità e continuità, è l'azione. Agendo su ciò che contemplo, tra successi e fallimenti, perfeziono la meditazione, nutro la meditazione, aggiungo nuovi elementi su cui meditare; in definitiva, medito.

La meditazione diventa duplice. C'è la meditazione in contemplazione e la meditazione in azione. Come uno scienziato che studia e formula una ipotesi che poi sottopone al vaglio della sperimentazione, tenendo sempre a mente l'ipotesi... e, quale che sia il risultato dell'esperimento, impara qualcosa di nuovo, sia anche la totale inadeguatezza dell'ipotesi stessa e questo “risultato” entra a far parte di una nuova ipotesi, di una nuova “meditazione”.

E la meditazione è quindi, essenzialmente, assenza di giudizio. E' comprensione, crescita, comprensione e superamento di se stessi e dei propri limiti. E per quanto sia una forzatura separare le due meditazioni come fossero distinte, questa separazione è didatticamente utile per comprendere i due modi in cui si cresce: contemplando e agendo su ciò che si è contemplato. Questa dicotomia si annulla poi definitivamente quando mi rendo conto che lentamente imparo a contemplare l'azione stessa, in questo ciclo di alimentazione continua della meditazione, che diviene quindi un unico atto: vivere, il nastro Moebius.

mercoledì 8 giugno 2016

Chimica e libertà

Scopro la mia mancanza di libertà. Scopro che i miei pensieri sono condizionati, i miei sensi sono condizionati, la mia memoria è condizionata. “Tutto ciò che faccio, sento e penso non dipende da me
Dato tutto questo condizionamento, quale motivazione posso dare all'attaccamento? Quale motivazione può mai avere la bramosia di ottenere? Che senso ha provare cotanto piacere di fronte al successo e tal dolore nel fallimento, visto che tale successo e tale fallimento sono il risultato del condizionamento? Non sono né mio merito né mia colpa? E' quindi questo piacere, questo dolore, esso stesso condizionamento?

E di più. Se io sono così condizionato, anche l'altro è altrettanto condizionato. Che senso ha l'astio, il fastidio? Che senso ha risentirsi per l'azione altrui? Per l'intenzione altrui? Per l'opinione altrui? Per il disprezzo altrui? Per la calunnia altrui? Sono anche questi dei semplici prodotti della meccanica della coscienza e nulla più?

Fin quando non riesco a trovare, a coltivare e ad esprimere coscientemente la libertà e l'intenzionalità, tutta questa ruota di piacere/dolore è solo biologia, chimica. “Per ora lei non mi capisce, poiché non possiede la capacità di pensare come vuole. Il suo apparente stato di libertà non è che un prodotto della chimica”.

Il giudizio, il pregiudizio, il disprezzo, la stima, l'autostima.

Chiudo gli occhi, abbasso il rumore e osservo la mia mente. I processi mentali si susseguono rapidi, quasi impossibili da seguire. Ma hanno una logica inflessibile, immodificabile, apparentemente ingestibile; le stesse “decisioni” che prendo per dare una direzione diversa ad un determinato pensiero, sembra provenire da una stessa logica ferrea precedente. Vista così, da questo punto di vista ingenuo, ogni atto è conseguenza di un evento precedente e nulla più. Ogni atto quindi non è un atto ma un evento che si verifica?

Se è vero come è vero che la realtà che percepisco è una proiezione del mio mondo interno, che interpreta, giudica, riempie di significato qualsiasi dato sensoriale in arrivo... se tutto ciò è vero come io sono convinto che sia, io sono tutto ciò che vedo, quando guardo vedo me stesso. Ma se tutto è condizionato, se non c'è libertà se “io” non riesco realmente ad intervenire su ciò che vedo e penso ma tutto si dà come una meccanica inflessibile... io non sono quello che vedo, vedo semplicemente la biologia e la chimica in azione.

Difficile trovare le parole per esprimere ciò che vorrei esprimere. Percepisco la capacità di percepire. Sento in qualche modo di rendermi conto dell'esistenza di qualcosa che sente di rendersi conto... un qualcosa che chiamo per comodità “Io” (in neretto e con la “I” maiuscola per diversificarla da quell'io illusorio e impermanente). Bene, Io ho la sensazione che tutto ciò che vedo, io lo metto lì dove lo vedo con uno scopo, ma contemporaneamente ho la sensazione di essere totalmente determinato, guidato, incapace di prendere reali decisioni.

Cosa è la libertà? Cosa è l'intenzionalità? Come nasce la vita? Oggi, durante l'esperienza, questa domanda ha aleggiato costantemente su ogni immagine, su ogni emozione, su ogni sensazione. Dove nasce la vita? In quale momento prende corpo Io? Esiste da prima di questa vita? Esisteva prima di questo corpo? E quanto prima? Esistendo senza corpo, quindi senza tempo e spazio, ha senso di parlare di “prima”? Di quando e dove?

Io mi manifesto nella vita in questo corpo e inizio a lottare per liberarmi dai condizionamenti del corpo, della coscienza, dell'io, della biologia e della chimica. “La vita è il mezzo che la mente usa per rompere la rete delle ombre?”.

Per la verità, io ho la sensazione che la libertà esista e che solamente Io la può esercitare, ma non riesco a capire Io, a vedere Io, e quindi non riesco ad esercitare la libertà, l'intenzionalità. Perché se non c'è libertà, nulla ha importanza e tutto è uguale. E' come se la libertà fosse “ciò che l'oltrepassa” quando si dice “l'abisso e ciò che l'oltrepassa”... l'unica cosa di cui vale la pena parlare.

lunedì 6 giugno 2016

Non ho concluso nulla

Giudichiamo noi stessi. Spesso siamo anche molto impietosi
E fin qui, va beh, lo sappiamo
Ma il metro di giudizio? Beh, qui andiamo proprio nel torbido. E' discutendo con una cara, carissima amica, che mi viene in mente il metro di giudizio.
“Non ho concluso gran che”. Ecco... quanta menzogna ci può stare dentro questa frase, apparentemente “solo un po' severa”.
Perché spesso, questa frase, è figlia madre e sorella di questo sistema. Non ho “concluso”? Perché magari non ho messo su famiglia? O perché sono donna e non sono madre? O perché non ho avuto quella promozione, non guadagno abbastanza, non sono servito e riverito? Ho una macchina piccola quando potevo essere un dirigente? Non posso comprare l'aifon a mia figlia?
E questa cara, carissima amica, ha cari, carissimi amici. Ed io ho cari, carissimi amici. Rapporti profondi, significativi, costruiti con impegno, errori e successi; coltivati a volte con sapienza a volte con istinto o disincantata ingenuità... pensando ai quali mi viene da piangere di commozione.
Ho cari, carissimi amici. “Si, anche questo varrà pur qualcosa”. Anche questa frase è figlia sorella e madre di questo “sistema al contrario”. Non è che “vale pur qualcosa”. No, questo è molto, tanto, altro che “pur qualcosa”. 

Ho coltivato, costruito, corretto dei rapporti importanti, profondi. Rapporti che hanno superato difficoltà, errori, imprecisioni. Sono riuscito a guardare oltre quell'insopportabile supponenza, quella noiosa accondiscendenza o quell'inguaribile tristezza o quell'onnipresente ironia, quell'imbarazzo, quel complesso. Sono passato sopra ostacoli e resistenze. Ho fatto grandi cose. Ho cercato di mostrarmi, timoroso, austero ed egocentrico; rabbioso, risentito; sempre in guerra; e non mi sono arreso, e non ci siamo arresi, io e i miei cari, carissimi amici.
Ho concluso un sacco di cose. Ho superato resistenze, combattuto contraddizioni, aiutato cari, carissimi amici. Ho condiviso la paura, la rabbia e il disgusto. Ho anche errato e mentito, ma mi sono anche spogliato di ogni veste cangiante agli occhi dei cari amici, di fronte ai quali non ho esitato di mostrare il desiderio di prestigio, l'odio, la vendetta, l'estraneità, il possesso, la frustrazione e risentimento. Ho mostrato le mie debolezze, accettato di malavoglia i consigli, elargito con gusto i miei. Ho lottato e ho pensato di arrendermi; ho camminato, più o meno a lungo, e mi sono riposato, più o meno a lungo. Mi sono mostrato forte, nascondendomi dietro uno sguardo solenne. Ho fallito, ho vinto, ho perso... 

Ma in fondo al cuore non mi sono mai veramente arreso. E anche grazie alla mia cara, carissima amica, mi sono ricordato di non essermi arreso a questo sistema che mi vorrebbe far dire “non ho concluso gran che” perché non sono “di successo”. 

Questo è forse il migliore dei nostri successi, mio e dei miei cari, carissimi amici. L'esserci continuamente ricordati l'un l'altro che, a volte credendoci molto, a volte credendoci poco, quello che facciamo vale, vale veramente; ha un valore immenso, incalcolabile; ha a che vedere con il destino dell'uomo; è un atto di ribellione nei confronti dell'abisso e di questo sistema che lo alimenta.

Massima disobbedienza all'apparente destino!

venerdì 3 giugno 2016

Meditare

Meditare è bellissimo
Credo che potrei passare delle ore a meditare
Osservare i pensieri, dando piccoli input qua e là
Indirizzandoli delicatamente, verso i vari tempi e i vari spazi, mondani o meno
Verso il passato, che riappare in mille guise
Verso quel passato visto finalmente come i goffi tentativi della mente di rompere la rete delle ombre
Vengono fuori eventi a cui non pensavo da ere.
Credo che potrei passare delle ore a meditare.
Con gli occhi chiusi, osservando i pensieri, indirizzandoli delicatamente e scoprendo come si passa da uno all'altro. Delicatamente. Perché sono come l'acqua torbida, che solo senza corrente è limpida e mi permette di vedere l'acqua e il fondale che prima era il torbido, mentre ora che si deposita è il paesaggio.
Credo che potrei passare delle ore a contemplare la mente, portandola verso ieri e verso domani
E' molto più divertente della TV e di facebook e di tutte quelle cose che si fanno quando ci si annoia
Che spassosissima assurdità che è la noia. Quando ce la siamo inventata? E perché poi?
E poi... a volte... mi sembra pure di vedere altro... succedono cose strane... formicola tutto, mi sento i capelli ritti in testa, come svegliandomi di soprassalto. Un po' mi spavento a dirla tutta. Mi sembra di vedere la storia da quando è cominciata (la mia o “la storia” in generale?); mi sembra di vedere le cose e l'attaccamento alle cose, come se fossero due cose ben distinte ed entrambe “le cose” a loro volte distinte da me; “questo non sono io”, “e manco questo”, “tanto meno questo”... e cosa rimane? Ecco, è qua che si rizzano un po' i capelli in testa, quando non so cos'altro togliere e ancora non capisco “cosa rimane”. Quando dico “io” e penso a “me”, a cosa diamine mi riferisco?
L'altro giorno torno dal ristorante e non trovo più il telefono. Per quasi un'ora sono stato malissimo. Poi sono andato a dormire, pensando “Diamine, guarda quanto sto male per questa cosa, è assurdo. E' ora di considerarla una bella opportunità per meditare sulla radice della sofferenza, sugli atti mentali”. Ho dormito... anche bene, mia moglie dice che ho parlato nel sonno riguardo qualcosa sul cellulare di mia figlia. Quando mi sono svegliato, ci pensavo e non ci pensavo al telefono. Qualche tensione e la certezza che oggi, domani o il giorno dopo non mi avrebbe fatto né caldo né freddo. Salgo sul bus, vado a lavoro, e passo tutto il viaggio fino a termini occhi chiusi a meditare su tante cose, tra cui come tutta questa storia del telefono non avrebbe in alcun modo potuto in realtà influire su ciò che conta  davvero: l'abisso e ciò che l'oltrepassa. Poi chiama mia moglie che ha ritrovato il telefono che era caduto sotto un mobile... contento? Moderatamente , ma ovviamente si.
Credo che potrei passare delle ore a meditare. E' meglio della TV. E' più fico della TV anche perché, meditando solo una mezz'oretta, c'è materiale fatto e completo, girato montato e revisionato, per 12 puntate di Big Bang Theory, con tanto di stacco pubblicitario.
Che mondo sarebbe senza Sheldon Cooper?

mercoledì 1 giugno 2016

L'azione eterna

Chiamo sensi provvisori, gli obiettivi che mi pongo sulla strada, quando li utilizzo per tenermi occupato mentre mi avvicino più o meno velocemente alla morte. “Prendere una laurea”, “Mettere su famiglia”, “Ottenere quella promozione a lavoro”, non sono cose sbagliate, né stupidaggini. Possono anzi essere degli ottimi strumenti per rendere migliore la mia vita. Sono io che, a volte, utilizzo questi obiettivi per distrarmi, per tenermi occupato nel mio cammino e non pensare all'abisso.
Nessun obiettivo può dare un senso definitivo alla mia esistenza, se è destinato a compiersi o fallire (quindi a terminare) in vita. Quando il suo termine arriverà, che sia un successo o un fallimento, mi lascerà con ciò che avevo prima di pormi quell'obiettivo. Se prima c'era un senso, ci sarà un senso, e il raggiungimento dell'obiettivo mi darà forza nell'ascesa, mentre il suo fallimento mi darà insegnamenti anch'essi utili per l'ascesa. Se prima non c'era un senso, ci sarà l'abisso, il vuoto. Che questi obiettivi siano quindi uno strumento che collabora con quella che ora definisco “L'azione eterna”, che altre volte ho definito “Senso”.
Definisco dentro di me l'azione eterna, come un obiettivo che non termina in vita, che non si compie né fallisce mai, ma che si sviluppa ed eventualmente si trasforma all'atto della morte. Intellettualmente posso formulare tanti di questi obiettivi: portare senso all'esistente, dare allegria e gioia al prossimo, imparare senza limiti, crescere senza mai fermarmi, fare quotidianamente qualcosa che renda migliore del giorno precedente me o un mio caro. Con la testa ne posso pensare tanti, alcuni che mi “affascinano” di più, altri meno. Un imperativo diviene per me quindi trovare un Senso, un'azione eterna, che dia un significato più profondo alle mie azioni e trasformi tutti i sensi provvisori in “strumenti del Senso”, elevandoli, purificandoli. Un Senso dell'esistere che io possa sentire profondamente, con tutto me stesso, con “testa, cuore e stomaco”.
Queste “azioni eterne”, possono incontrare singoli successi e fallimenti, ma se sentite profondamente, se accettate con fede, non incontreranno mai “il successo” né “il fallimento”. Posso vacillare o permanere, ma mi daranno sempre un centro di gravità, un percorso su cui tornare quando il resto è preda della tormenta, quando mi perderò lungo la via.