ACCADEMIA DELLE SCIENZE, MOSCA, RUSSIA
18
MAGGIO 1992
Ringrazio
l’Accademia delle Scienze di Mosca, il Club “Intenzioni Umaniste”
ed i rappresentanti del mondo della cultura, qui presenti; ringrazio
gli editori dei miei scritti, l’équipe dei traduttori ed i
numerosi amici che mi hanno invitato a parlare qui oggi; ringrazio i
mezzi d’informazione per la collaborazione offerta ed infine,
naturalmente, ringrazio tutti voi per la vostra presenza.
Sicuramente
saprete perdonare alcune difficoltà dovute alla traduzione ed
altrettanto bene saprete comprendere che, essendo obbligati, sempre
per ragioni di traduzione, a stringere i tempi, dovremo
sintetizzare più di un’idea.
Il
nostro tema odierno, “La crisi della civiltà e l’Umanesimo”,
esige di prendere in esame il concetto di “civiltà” come passo
preliminare a tutto l’ulteriore sviluppo del discorso. Molto si è
scritto e discusso attorno alla parola “civiltà”. Sin dagli
inizi della Filosofia della Storia le diverse civiltà sono state
intese come delle entità storiche dotate di un proprio processo, di
una propria evoluzione e di un proprio destino. Questa entità, la
civiltà, appare come un ambito, come una regione di comportamenti
umani che permette di identificare vari popoli caratterizzati da un
determinato modo di produzione, da determinate relazioni sociali, da
una determinata concezione giuridica e da una determinata scala di
valori. In generale l’idea di “popolo” o di “nazione” non
coincide con quella di civiltà, nella quale si comprendono
piuttosto, al di là delle loro rispettive frontiere, numerosi popoli
e nazioni interni al suddetto ambito comune. Tradizionalmente ci si è
riferiti alle civiltà come a degli “spazi culturali” radicati
all’interno di certi limiti geografici, a cui è stata attribuita
la capacità di influenzare altre civiltà più o meno contigue ed
essere da esse influenzati.
Quando
si parla di civiltà egizia o di civiltà greca, ci si sta riferendo
a degli ambiti di comportamento umano secondo la definizione data
sopra e non si sta pensando che un artificio come lo Stato, con la
sua capacità più o meno forte di centralizzazione, sia il fattore
decisivo nell’articolazione di tali ambiti. Il fatto che i
macedoni o gli spartani partecipassero della cultura ellenica senza
formar parte di una lega di città-stato, anzi arrivando addirittura
a combattersi tra loro, dimostra che non è lo Stato l’aspetto
sostanziale che li definisce. Ad ogni modo, il radicamento in un
determinato spazio ha permesso di parlare di civiltà “mesopotamica”,
di civiltà “del Nilo”, di civiltà “delle isole” e così
via. Questo tipo di classificazione, evidentemente, implica una
concezione secondo la quale ogni civiltà è determinata da ragioni
geografiche; qualcosa di simile succede quando si parla delle civiltà
“del vino, del latte e del miele” o di quelle “del mais” e ci
si riferisce alle risorse alimentari; o quando si parla di civiltà
“neolitica”, usando una parola che mette in rapporto gli stadi
di evoluzione culturale con la produzione strumentale e tecnica.
Ancor
più importante di questo sforzo di classificazione, però, è stato
il lavoro, che ha avuto inizio con Vico, teso a comprendere quali
fossero le scansioni temporali di una civiltà, quale fosse il suo
divenire e quale il punto d’arrivo. Dai corsi e ricorsi1
degli avvenimenti umani che il geniale studioso napoletano cerca di
individuare (basandosi su un’idea generale della forma
dell’evoluzione storica, su un complesso di assiomi e su un metodo
filologico) fino alla storiologia di Toynbee (la cui concezione si
fonda sull’idea di “stimolo-risposta”, già anticipata da
Pavlov nei suoi studi fisiologici), è stato versato molto inchiostro
e si è cercato di fare scienza a partire da idee più o meno vaghe.
Com’è ovvio, tali sforzi sono stati premiati alcuni da maggiore,
altri da minore successo. Comte parlava di una legge valida per tutte
le civiltà: ogni civiltà presentava al suo inizio uno stadio eroico
e teologico, quindi passava per uno stadio metafisico e infine
raggiungeva un momento positivo di razionalità, abbondanza e
giustizia; Hegel ci ha parlato delle civiltà come di manifestazioni
del procedere dello Spirito Assoluto per passi dialettici successivi;
Spengler ci ha presentato le civiltà come “protoforme
biografiche”, come entità che seguono le tappe biologiche di
nascita, gioventù, maturità e morte.
Grandi
opere sono state scritte per comprendere il funzionamento ed il
destino delle civiltà; ma molti tra i ricercatori e i filosofi che
si sono dedicarti a questi compiti non sembrano aver approfondito a
sufficienza il punto primario, che sta nel riconoscere come le loro
domande e risposte nascessero dal paesaggio culturale e dal momento
storico nel quale essi stessi vivevano. E se oggi si volesse trovare
una nuova risposta per quanto riguarda il tema della civiltà, non si
potrebbero più eludere le difficoltà (o gli aspetti favorevoli)
dovute al paesaggio culturale nel quale ci siamo formati ed al
momento storico nel quale ci è dato vivere. Oggi, se volessimo
comprendere il divenire storico, dovremmo interrogarci sulle
condizioni della nostra stessa vita e così facendo umanizzeremmo
quello stesso processo storico sul quale staremmo riflettendo. Ed il
nostro modo di procedere non consisterebbe nell’interpretare
dall’esterno gli eventi prodotti dall’essere umano, come fa un
libro di storia, ma nel comprendere - a partire dalla struttura,
storica ed apportatrice di senso, della vita umana - ciò che succede
nella situazione in cui viviamo. Questa impostazione ci porta ad
avvertire le limitazioni alle quali siamo sottoposti nel formulare
certe domande e nel dare certe risposte: è infatti il momento stesso
in cui viviamo ad impedirci di infrangere il limite posto dalle
nostre credenze e dai nostri presupposti culturali; e nella rottura
delle nostre credenze, nell’apparire di fatti che credevamo
impossibili, risiede ciò che ci permetterà di avanzare verso un
momento nuovo della civiltà.
Stiamo
parlando, come avrete tutti capito, della situazione di crisi nella
quale la nostra vita si trova immersa e, di conseguenza, del momento
di rottura delle credenze e dei presupposti culturali nei quali siamo
stati formati. Per caratterizzare la crisi da questo punto di vista
possiamo prendere in esame quattro fenomeni che influiscono
direttamente sulla nostra vita, vale a dire: 1. Nel mondo è in atto
una veloce trasformazione, determinata dalla rivoluzione tecnologica,
che si scontra con le strutture stabilite e con le abitudini di vita
delle società e degli individui; 2. Lo sfasamento tra
l’accelerazione tecnologica e la lentezza con cui la società si
adatta al cambiamento sta generando crisi sempre più profonde in
tutti i campi. Niente lascia supporre che questo sfasamento si
ridurrà; sembra, al contrario, che tenderà ad aumentare di
intensità; 3. Essendo gli avvenimenti imprevedibili, ci diventa
impossibile capire quale direzione prenderanno le cose, le persone
che ci circondano e, in definitiva, la nostra stessa vita. In realtà
non è il cambiamento in sé a preoccuparci, bensì la sua crescente
imprevedibilità; 4. Molte cose che pensavamo e credevamo oramai non
ci servono più. Non possiamo attenderci soluzioni da una società,
da istituzioni o da singoli individui che soffrono dello stesso male.
Da una parte abbiamo bisogno di riferimenti, dall’altra i
riferimenti tradizionali ci risultano asfissianti ed obsoleti.
A
mio parere è qui, in questa zona del pianeta più che in qualsiasi
altra, che si sta verficando la più formidabile accelerazione nelle
condizioni che determinano il cambiamento storico; accelerazione
confusa e dolorosa, nella quale è in gestazione un nuovo momento
della civiltà. Qui ed ora nessuno sa cosa succederà domani, mentre
in altre parti del mondo si presuppone, ingenuamente, che la civiltà
crescerà in modo prevedibile e all’interno di un modello economico
e sociale già stabilito. Ovviamente questa maniera di vedere le cose
somiglia più ad uno stato d’animo o ad un desiderio che ad una
posizione giustificata dai fatti, dato che è sufficiente esaminare
quanto sta accadendo per arrivare alla conclusione che il mondo,
considerato globalmente e non diviso schizofrenicamente fra Est ed
Ovest, sta andando verso una crescente instabilità. Puntare lo
sguardo esclusivamente su un tipo di Stato, un tipo di
amministrazione od un tipo di economia per interpretare il divenire
storico dimostra pochezza intellettuale, e denuncia quale sia il
fondamento delle credenze che abbiamo incorporato nella nostra
formazione culturale. Mentre da un lato avvertiamo che il paesaggio
sociale e storico nel quale stiamo vivendo è cambiato violentemente
rispetto al paesaggio nel quale vivevamo fino a pochi anni fa,
dall’altro utilizziamo ancora degli strumenti di analisi che
appartengono al vecchio paesaggio per interpretare le situazioni
nuove. Le difficoltà però sono ancora più grandi e questo perché
contiamo su di una sensibilità che si è formata in un’altra
epoca, una sensibilità che non è cambiata allo stesso ritmo degli
avvenimenti. E’ per questa ragione, sicuramente, che in ogni parte
del mondo sta crescendo il divario fra coloro che detengono il potere
(economico, politico, artistico...) e le nuove generazioni, che
percepiscono in modo differente la funzione che istituzioni e leaders
devono compiere.
Credo
sia giunto il momento di dire qualcosa che risulterà scandaloso per
la vecchia sensibilità e cioè: per le nuove generazioni, il
modello economico o sociale, che i formatori della pubblica opinione
discutono tutti i giorni, non costituisce affatto un tema centrale
d’interesse: esse, piuttosto, si attendono che istituzioni e
leaders non risultino un peso in più che gravi su un mondo già
tanto complicato. Esse, da un lato si attendono un’alternativa
nuova, dato che i modelli esistenti sembrano loro inservibili,
dall’altro non sono disposte a seguire proposte né ad accettare
leaders che non abbiano la loro stessa sensibilità. Questa, da
molti, viene considerata come una mancanza di responsabilità da
parte dei più giovani: io però non sto parlando di responsabilità,
bensì di un tipo di sensibilità che dev’essere preso seriamente
in considerazione. Non si tratta di un problema che si possa
risolvere con sondaggi d’opinione o con inchieste che permettano di
scoprire in quale nuovo modo si possa manipolare la società; si
tratta di considerare globalmente il significato dell’essere umano
concreto, che finora è stato fatto oggetto solo di dicharazioni
teoriche ma che è stato sempre tradito nella pratica.
A
quanto affermato fin qui si potrà obiettare che, in una crisi come
questa, i popoli vogliono soluzioni concrete; ma vorrei far presente
che una soluzione concreta è cosa ben diversa dalla promessa di
soluzioni concrete. Di concreto c’è che ormai non si crede più
nelle promesse e questo, come realtà psicosociale, è molto più
importante del fatto di offrire soluzioni che, come la gente ben
intuisce, non verranno mai messe in pratica. La crisi di credibilità
è anch’essa pericolosa, poiché ci getta indifesi nelle braccia
della demagogia e del carisma del primo leader che compaia sulla
scena facendo appello a sentimenti profondi e proponga soluzioni
immediate. Tutto questo, però, nonostante io lo ripeta spesso, è
difficile da ammettere, perché si scontra con l’ostacolo
rappresentato dal nostro paesaggio di formazione, nel quale i fatti
si confondono ancora con le parole che li nominano.
A
questo punto salta all’occhio la necessità di domandarsi, una
volta per tutte, se lo sguardo di cui ci siamo serviti per
comprendere questi problemi sia adeguato. Quel che dico non è poi
così strano visto che gli scienziati che operano in altri campi
hanno smesso di credere, già da alcuni anni, di osservare la realtà
in se stessa, e si sono dedicati a capire in che modo la loro stessa
osservazione interferisca sul fenomeno studiato. Questo, espresso nei
termini a noi più abituali, significa che l’osservatore introduce
nel fenomeno studiato elementi del suo proprio paesaggio, elementi
che nel fenomeno studiato non esistono e che persino lo sguardo che
si lancia verso un campo di studio è già indirizzato a una
determinata regione di quel campo, per cui può succedere che le
questioni di cui ci si sta occupando non siano affatto rilevanti.
Questo problema si fa molto più grave al momento di giustificare
delle posizioni politiche: si afferma che tutto ciò che si fa lo si
fa tenendo sempre conto dell’essere umano, quando è evidente che
si tratta di un’affermazione falsa, dato che il punto di partenza
non è mai la preoccupazione per le persone bensì altri fattori che
attribuiscono ad esse una posizione accessoria.
Non
si considera minimamente che gli avvenimenti ed il destino della
civiltà si possono spiegare esaurientemente soltanto comprendendo la
struttura della vita umana; ciò ci porta a comprendere come il tema
della vita umana sia solo oggetto di proclami ma mai sia preso in
seria considerazione e questo perché si presuppone che la vita delle
persone non sia un fattore determinante dello svolgersi degli
avvenimenti, bensì solo il ricettore passivo di forze
macroeconomiche, etniche, religiose o geografiche; perché si
presuppone che ai popoli si debba chiedere, oggettivamente, lavoro e
disciplina sociale e, soggettivamente, credulità ed obbedienza.
Ma
sarà bene, dopo aver preso in esame un modo di considerare i
fenomeni della civiltà che tenga conto del nostro paesaggio di
formazione, delle nostre credenze, dei nostri giudizi di valore,
tornare a concentrarci sul tema centrale.
La
nostra attuale situazione di crisi non si riferisce a civiltà
separate, come succedeva in altri tempi allorché le diverse civiltà
potevano scegliere di interagire o meno lasciando giocare o regolando
determinanti fattori. Per il processo di crescente mondializzazione
che stiamo dolorosamente vivendo, siamo obbligati ad interpretare lo
svolgersi degli avvenimenti secondo una dinamica globale e
strutturale. Ciononostante, vediamo come tutto si destrutturi, come
lo Stato nazionale venga ferito, in basso, dai colpi infertigli dalle
rivendicazioni locali ed in alto dalla regionalizzazione e dalla
mondializzazione; come le persone, i codici culturali, le lingue e le
merci si mescolino quasi si trattasse di una fantastica torre di
Babele; come le imprese centralizzate entrino in crisi per
l’incapacità di diventare più flessibili; come il divario tra le
generazioni diventi abissale, quasi che in uno stesso momento ed in
uno stesso luogo esistessero subculture separate per quanto riguarda
il passato ed i progetti futuri; come i membri della famiglia, i
colleghi di lavoro, le organizzazioni politiche, lavorative e sociali
subiscano l’effetto di forze centrifughe disintegratrici; come le
ideologie, prese in questo vortice, non siano in grado né di
proporre delle risposte valide né di ispirare un modo di agire
coerente per le collettività umane; come la solidarietà di un
tempo scompaia da un tessuto sociale sempre più lacerato; e, infine,
come l’individuo di oggi, che nel proprio paesaggio quotidiano può
contare sul maggior numero di persone nonché sulla maggiore varietà
di mezzi di comunicazione che in qualunque altra epoca, si trovi
isolato ed impossibilitato a comunicare. Quanto detto mostra come
anche questi fatti, per quanto destrutturati e paradossali,
rispondano ad uno stesso processo che è globale e strutturale; se
poi le vecchie ideologie non sono in grado di dar risposta a tali
fenomeni è perché esse fanno parte del mondo che scompare.
Tuttavia, molti ritengono che questi fatti segnino la fine delle
idee, la fine della Storia, del conflitto e del progresso umano. A
tutto ciò noi diamo il nome di “crisi”, tenendoci però ben
lontani dal considerare questa crisi come un crollo definitivo; e
questo perché vediamo che, in realtà, il dissolvimento delle
vecchie forme è come la rottura di un abito che all’essere umano
va ormai stretto.
Avvenimenti
di questo tipo, che hanno cominciato ad accadere a maggiore velocità
in alcune zone, non tarderanno ad estendersi a tutto il pianeta;
allora, nei paesi in cui ancora oggi ci si lascia andare ad un
trionfalismo ingiustificato, vedremo apparire fenomeni che il
linguaggio quotidiano qualificherà come “incredibili”. Stiamo
avanzando verso una civiltà planetaria che si darà una nuova
organizzazione ed una nuova scala di valori e che, inevitabilmente,
lo farà partendo dal tema più importante del nostro tempo: sapere
se vogliamo vivere e in quali condizioni vogliamo farlo. Di sicuro,
quei circoli minoritari avidi e per ora potenti che dominano il mondo
non terranno conto nei loro progetti di questo tema che è valido per
ogni essere umano, piccolo, isolato ed impotente e considereranno
invece decisivi i fattori macrosociali. Ma proprio per non aver
compreso i bisogni dell’essere umano concreto ed attuale, essi
rimarranno sorpresi sia dallo scoraggiamento che pervaderà la
società, sia dalle manifestazioni di violenza che la scuoteranno e,
più in generale, dalla fuga quotidiana della gente attraverso ogni
tipo di droga, la nevrosi ed il suicidio. In definitiva, tali
progetti disumanizzati crolleranno miseramente all’atto stesso
della messa in pratica, perché un venti per cento della popolazione
mondiale non potrà mantenere a lungo la distanza sempre più grande
che la separa da quell’ottanta per cento di esseri umani che è al
limite della sopravvivenza. Come tutti sappiamo, questa è una
sindrome che non scomparirà grazie all’intervento combinato degli
psicologi, dei farmaci, dello sport e dei suggerimenti dei formatori
di opinione. E né i mezzi di comunicazione sociale sempre più
potenti né il gigantismo dello spettacolo pubblico riusciranno a
convincerci che siamo formiche o puri numeri statistici; al
contrario, otterranno il risultato di rendere sempre più forte la
sensazione che la vita è assurda e priva di senso.
Io
credo che nella crisi della civiltà che stiamo soffrendo esistano
numerosi fattori positivi dai quali dobbiamo trarre profitto, proprio
come traiamo profitto dalla tecnologia quando migliora la salute,
l’educazione e le condizioni di vita (tecnologia che rifiutiamo
quando è applicata alla distruzione, cioè con una finalità
distorta rispetto a quella originaria). Gli avvenimenti ci stanno
dando un grosso aiuto perché ci spingono ad effettuare una
revisione globale di tutto ciò in cui abbiamo creduto fino ad oggi,
a guardare alla storia umana da un altro punto di vista, a
costruire i nostri progetti sulla base di un’altra immagine del
futuro, ad arricchire lo sguardo che rivolgiamo l’uno all’altro
di una pietà e di una tolleranza nuove. Grazie a ciò, un nuovo
Umanesimo si aprirà la strada in questo labirinto della Storia in
cui l’essere umano, come in tante altre occasioni, ha creduto di
perdersi.
La
crisi attuale si propaga in ogni direzione del pianeta e le sue
radici non affondano solamente nella Comunità di Stati Indipendenti
o a Mosca, che in altri momenti ne sono stati i punti di maggior
risonanza. La civiltà mondiale, che è oggi in cammino, non può
prescindere dalle iniziative di questo grande popolo, perché dalle
soluzioni che esso troverà ai propri problemi dipende il futuro di
noi tutti, in quanto partecipi della stessa civiltà mondiale.
Abbiamo
parlato del concetto di civiltà e di quel che oggi pensiamo sia la
civiltà che si mondializza; abbiamo toccato anche il tema della
crisi e quello delle credenze sulle quali ci basiamo per interpretare
il momento in cui viviamo. Per quanto riguarda il concetto di
“Umanesimo” che appare nel titolo di questa conferenza, voglio
solo toccarne alcuni aspetti. In primo luogo non ci stiamo riferendo
all’Umanesimo storico, quello della letteratura e delle arti, che
ha costituito il motore del Rinascimento e che ha spezzato le catene
dell’oscurantismo della lunga notte medioevale. L’Umanesimo
storico ha una sua precisa caratterizzazione e di esso ci sentiamo
continuatori nonostante esistano attualmente certe correnti
confessionali che falsamente si autodefiniscono “umaniste”... non
ci può essere umanesimo là dove si ponga un valore, qualunque esso
sia, al di sopra dell’essere umano. Devo sottolineare, inoltre, che
l’Umanesimo fa derivare le sue spiegazioni riguardo al mondo, i
valori, la società, la politica, l’Arte e la Storia, dalla sua
concezione fondante: l’essere umano. E’ la comprensione della
struttura della vita umana a chiarire il suo modo di vedere le cose.
Non si può procedere in altro modo, non si può arrivare all’essere
umano da un altro punto di partenza che non sia l’essere umano
stesso. Per l’Umanesimo contemporaneo non si può partire da teorie
sulla materia, sullo spirito o su Dio... è necessario partire dalla
struttura della vita umana, dalla libertà e dall’intenzionalità
che la caratterizzano e, logicamente, non esiste determinismo o
naturalismo che possa trasformarsi in umanesimo, perché i
presupposti stessi del determinismo e del naturalismo pongono
l’essere umano al livello di un fenomeno accessorio.
L’Umanesimo
odierno definisce l’essere umano come “... un essere storico che
trasforma la propria natura attraverso l’attività sociale.” In
questa definizione troviamo gli elementi che, se debitamente
sviluppati, possono giustificare una teoria ed una prassi in grado di
dare risposta alla situazione di emergenza attuale. Dilungarci in
considerazioni attorno alla definizione data ci porterebbe troppo
lontano e non abbiamo il tempo per farlo.
A
nessuno sfugge come la rapida descrizione che abbiamo dato della
civiltà e della crisi attuale abbia come punto di partenza la
struttura dell’esistenza umana e come tale descrizione costituisca
l’applicazione ad un tema specifico della concezione dell’Umanesimo
contemporaneo. I termini di “Crisi della Civiltà” e “Umanesimo”
risultano connessi allorché proponiamo una visione che può
contribuire ad evitare alcune delle difficoltà attuali. Pur non
dilungandoci oltre sulla sua caratterizzazione, è chiaro che stiamo
considerando l’Umanesimo come un insieme di idee, come una prassi,
come una corrente di opinione e come un’organizzazione che possa
portare avanti obiettivi di trasformazione sociale e personale,
accogliendo nel suo seno peculiarità politiche e culturali concrete
senza che queste scompaiano, in quanto forze di cambiamento
differenti ma convergenti nel loro intento finale. Pessimo servizio
farebbe a questo momento di cambiamento chi si sentisse destinato ad
omogeneizzare ed universalizzare una determinata tendenza proprio
quando si va verso il decentramento e si chiede a gran voce che
vengano riconosciute le peculiarità reali.
Vorrei
terminare con una considerazione molto personale. In questi giorni ho
avuto la possibilità di partecipare ad incontri e seminari con
personalità della cultura, scienziati ed accademici. In più di un
caso, mentre ci scambiavamo le nostre idee sul futuro che ci
toccherà, mi è sembrato di avvertire un clima di pessimismo. In
tali occasioni non ho avuto la tentazione di lasciarmi andare a delle
ingenue espressioni di entusiasmo né di dichiarare la mia fede in un
futuro positivo. Credo, tuttavia, che in questo momento dobbiamo
fare lo sforzo di superare questo scoraggiamento, ricordando altri
momenti di grave crisi che la specie umana ha attraversato e
superato. A questo scopo vorrei ricordare queste parole che condivido
pienamente, parole la cui eco ci giunge dalle origini della tragedia
greca: “...di ogni cammino, apparentemente sbarrato, l’essere
umano ha sempre trovato l’uscita”2 .
Nient’altro,
molte grazie.
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