lunedì 31 ottobre 2016

Strutture

Ogni cosa è in struttura con altre cose. Qualsiasi mio atto (che sia un atto mentale o un'azione diretta verso il mondo esterno) è frutto di un'intenzione più o meno manifesta; è frutto di un qualche insogno o di una qualche aspettativa. Questo atto si relaziona immediatamente con altri atti, con altre intenzioni (che siano intenzioni mie o intenzioni di altri esseri umani).

Si crea quindi una struttura di intenzioni, che s'influenzano l'un l'altra in un processo continuo inarrestabile, che va a formare una sorta di struttura universale che registro come “l'intenzione dell'umano”... e l'individualismo appare un'assurdità... ma anche la stessa individualità perde gran parte della sua inerzia.

Il superamento della sofferenza lo vivo quindi come un allontanamento dello sguardo dal particolare per percepire il generale. L'ampliamento della coscienza passa attraverso l'allargamento dello sguardo; allontano lo sguardo dal fenomeno per percepire la struttura di cui questo fenomeno fa parte; come interagisce con altri fenomeni, come si influenza con altri fenomeni. Si tratta di allargare il campo di compresenza?

Quel piccione zampetta in Villa Borghese, e il suo zampettare è in relazione con la terra, con i semi, con gli alberi e quindi con me che guardando quegli alberi e quel piccione sento qualcosa o qualcos'altro. Allontanando lo sguardo dal fenomeno, vedo la struttura. Quando percepisco la struttura di cui il fenomeno fa parte, chiudo la scatola, smetto di osservare i componenti della struttura e osservo la struttura che si relaziona con altre strutture.

Il lavoro diventa quindi quello di salire di livello in livello. Ogni volta che riesco a rilassare lo sguardo e a vedere i fenomeni in struttura, smetto di “osservare” i fenomeni e mi concentro sulla struttura, che diventa un oggetto della mia osservazione. Questo “oggetto” si relaziona con altri “oggetti” (li influenza e ne è influenzato), formando una struttura “di livello superiore”.

Di struttura in struttura, mi allontano sempre più dalla particolarità dei fenomeni, avvicinandomi all'essenzialità delle cose. Paradossalmente, più mi allontano, più vado a fondo. Tutto questo mi sembra in relazione su ciò che il Buddha definiva come distacco e anche con la rinuncia al controllo a favore dell'influenza (il controllo è il particolare e il determinismo, mentre l'influenza sono le strutture e la libertà).

A volte, succede che salendo di struttura in struttura, mi trovo in presenza di una struttura che comprende tutto ciò che è, ciò che può essere, ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che non può ancora essere. Questa intuizione è inconcepibile e non può essere afferrata dalla coscienza, poiché sono in presenza di qualcosa che contiene la coscienza stessa. In quei momenti di grande ispirazione, mi sembra come se la coscienza fosse uno strumento in mano ad “altro” e che questo strumento, ad oggi, non è completamente adeguato allo scopo: come se questo “altro” dovesse togliere viti con un coltello invece che con un cacciavite. Mi sembra che lo scopo di tutto il mio lavoro sia allora affinare questo strumento e renderlo il più malleabile, poliedrico e multifunzionale possibile; sento la grande necessità di lasciarmi cambiare da questo “altro” che risiede nel profondo della mia coscienza.

venerdì 28 ottobre 2016

Stare e divenire

A volte mi capita di essere soddisfatto di come sono, di avere la chiara sensazione di “aver raggiunto un ottimo punto”. Ho scoperto oggi in quale modo l'illusione s'insinui in questi momenti.

Non c'è nulla di male nel “sentirsi bene”, di pensare di “essere in una buona situazione interna e vitale”... anzi, è una cosa estremamente positiva, che è bene io accolga e ringrazi. L'illusione è quella di pensare che sia soddisfatto di una situazione statica, di essere soddisfatto “così come sono senza bisogno di cambiare altro”.

Questa illusione mi porta a pensare che potrei “fermarmi qui” e vivere così come sono per il resto della vita. Questa è l'illusione, questo è il mio fondamentale errore di calcolo, il mio fondamentale fraintendimento.

Quello di cui sono soddisfatto, la cosa che mi dà una grande fede nel futuro, non è lo “stato statico” in cui mi trovo... quella è un'illusione dell'io che vive e percepisce per fotografie, fotogrammi, privi della struttura temporale e dinamica dell'esistenza. Quello di cui sono soddisfatto, la cosa che mi fa provare quell'euforia “immotivata”, quella fede nel mio processo interno, è lo stato di evoluzione in cui mi trovo.
Sono appagato dal mio divenire e non dal mio essere. E' il mio stato di accettazione del cambiamento che provoca l'insorgere di quella sensazione di futuro aperto, quella sensazione di poter star bene in modo duraturo. Questo è apparentemente il paradosso: sto bene come sto, quando sono nel cambiamento, nell'evoluzione, quando non sono mai come ero, quando non sono come sono ma come sarò.

Come disse Ortega y Gasset
"Siamo ciò che essa [la vita] è e niente altro - però questo essere non è predeterminato, definito in anticipo, ma dobbiamo deciderlo noi.
[...]
Vivere è decidere costantemente cosa diventeremo. Non si percepisce il favoloso paradosso che questo contiene?
Un essere che più che essere quello che è, è quello che sarà; pertanto è ciò che non è ancora.
Questo essenziale e abissale paradosso è la nostra vita

Ogni volta che mi sento bene, il desiderio di permanere in questo stato in modo statico e immobile, è l'inganno che in breve si conclude nell'insoddisfazione di ciò che sono, perché non ero felice del mio essere ma del mio divenire.
Ogni volta che mi sento bene, se rimango presente a me stesso e comprendo che mi sento bene nel mio stato di instabilità, di evoluzione, di squilibrio verso l'alto, di mutamento e accettazione dell'inevitabilità dell'esistere proiettato sempre più su e sempre più avanti, non perdo questo “sentirmi bene”. Anche quando si presentano conflitti, mantengo il timone ben saldo.

Ecco il mio gioioso paradosso. Per continuare a “stare bene” devo smettere di essere quello che sono per essere ciò che voglio essere, istante dopo istante. Smettere di essere ciò che si è riusciti ad essere appena lo si riesce ad essere, per diventare ciò che si muove per essere ciò che non si è ancora. La vita ha un senso solo quando è in movimento, perché “senso” non è solo “significato” ma anche “direzione”. E' qualcosa che coinvolge il mondo, mondo in cui sono incluso e che includo, indissolubilmente.

mercoledì 26 ottobre 2016

Influenzare

Le cose sono come sono. Né come credo che siano, né come vorrei che fossero.

Controllare è contrarre. Influenzare è rilassare.

Controllare è violenza. Influenzare è amore.

Controllare è legato all'esito. Influenzare è legato alle possibilità.

Controllare è negare l'altro. Influenzare è affermare l'altro.

Controllare è piegare. Influenzare è aprire.

Controllare è due. Influenzare è uno.

Controllare è privare. Influenzare è accettare.

Controllare è voler cambiare. Influenzare è accettare il cambiamento.

Controllare è negare se stessi. Influenzare è crescere.

Controllare chiude il futuro. Influenzare non ha limiti.

Controllare ha una fine. Influenzare è eterno.

Controllare è miope. Influenzare va al profondo.

Controllare è illusione. Influenzare è risveglio.

Controllare è negare. Influenzare è comprendere.

Controllare è chiuso. Influenzare è aperto.

Controllare è frustrante. Influenzare è liberatorio.

Controllare è pesante. Influenzare è soave.

Controllare è “ego”. Influenzare è accettare di essere influenzato.

Controllare è illusione di perfezione. Influenzare è coscienza dell'imperfezione.

Controllare è credere di sapere. Influenzare è sapere di non sapere.

Controllare è pragmatico. Influenzare è intuitivo.

Influenzare significa agire nel mondo e verso i miei cari, proiettando nel “fuori” la parte migliore di me, accettando che quest'azione trasformerà gli altri in modi a me sconosciuti e contemporaneamente trasformerà me stesso. 
Influenzare accetta che le cose vadano come devono andare e che l'altro è altro. 
Influenzare è comprendere che agire fuori è agire dentro.
Influenzare significa affermare il mio amore per l'altro, per ciò che può diventare e a cui io posso dare il mio contributo in totale libertà; libertà per me di darlo, libertà per l'altro di farne ciò che vuole.
Influenzare è sperare il meglio per l'altro, sinceramente e apertamente.
Influenzare è comprendere che il meglio per l'altro è il meglio per l'altro e non ciò che io penso sia il meglio per l'altro.
Influenzare è naturale, lo si fa semplicemente esistendo e maggiormente agendo, è a costo zero. 
Essere coscienti della propria influenza ci sprona a diventare persone migliori, ad agire per il meglio, ad irradiare più luce.
Essere coscienti della propria influenza richiede la coscienza di non poter sapere come questa influenza agirà e quanto lontano arriverà, quindi presuppone assenza di controllo.

1. Andare contro l'evoluzione delle cose è andare contro se stessi
2. Quando forzi qualcosa per raggiungere un fine, produci il contrario
...
4. Le cose stanno bene quando vanno insieme, non quando vanno separate
...
7. Se persegui un fine, ti incateni. Se tutto ciò che fai lo fai come un fine in se, ti liberi
..
10. Quando tratti gli altri come vuoi essere trattato, ti liberi

lunedì 24 ottobre 2016

Controllo e Influenza

Continuo a pensare al lasciare andare.

Smettere di tentare di avere il controllo totale. 

Ci sono cose di cui non posso avere il controllo e ci sono situazioni che per mantenere sotto controllo richiedono di forzare, di piegare.

La domanda da porsi è: ne vale veramente la pena? E' una questione di economia. Per rispondere adeguatamente a questa domanda, bisogna porne molte altre ed tentare di essere veramente onesti con se stessi

Cosa voglio ottenere?
Cosa succede se non controllerò questa situazione?
A discapito di chi o di cosa va questo mio controllo?
Ci sarà un conflitto per ottenere questo controllo?
Questo conflitto, con chi o cosa è?
Quanta energia richiederà vincere questo conflitto?
Quanta energia richiederà convivere con gli effetti di questo conflitto?
Vincere o perdere sarà differente nella sua essenza?

Faccio un po' di silenzio. Inspiro profondamente. Espiro profondamente. Ancora. Ancora. Cosa si nasconde dietro questa necessità di controllo? Cosa si nasconde dietro la infondata certezza che le cose sarebbero migliori se si facessero, andassero o succedessero esattamente come dico io?

Per quanto io possa tentare di controllare tutto, le cose sono come sono e vanno come vanno. Tentare di influenzare il mondo che mi circonda ha un senso, tentare di controllarlo no. L'influenza è un'azione lieve, decisa, cosciente e possibilista perché non legata all'esito. Il tentativo di controllo è un'operazione pensante, contratta, attaccata al risultato, frustrante nel suo fallimento. Per influenzare devi connetterti con le cose e le persone, con ciò che sono e ancor più con ciò che possono essere. Per controllare devi spogliare le cose e le persone della loro essenza, e ti connetti con ciò che credi delle cose e delle persone, con ciò che vuoi che siano.

Inspiro profondamente. Espiro profondamente. Una, due, tre, dieci volte. Il controllo non può esistere nel silenzio e il desiderio di controllo non può esistere nella calma e nella pace. Nella pace esiste la propria influenza, la propria essenza e l'essenza delle cose. Nella calma, la propria influenza è paradossalmente forte quanto la propria rinuncia al controllo; nel connettermi con la parte migliore di me, intuisco che le cose sono come sono e tutto è parte di una struttura in cui sono incluso. Se tento di controllare, sono controllato, sono determinato, sono imprigionato nelle regole dell'ego e del prestigio. Se accetto di non avere il controllo, posso far si che la parte migliore di me si esprima... quella parte di me che non risponde alle regole, che sfugge alla dicotomia degli opposti, che non ha controllo perché non può essere controllata.

Divento testimone della natura più profonda dell'essere umano che illumina ciò che tocca. Divento testimone dell'incomprensibile essenza più profonda delle cose, che è tale solo quando non è concepita, concepibile, rappresentabile e quindi ne perdo l'essenza nel volerla possedere. Si tratta ancora di un lasciar andare, di un non controllare, di un vivere intensamente, con presenza di se, l'azione di ciò che non può essere controllato e quindi non può controllare.

Per un attimo ho la sensazione che tutte le cose andranno nell'unico modo possibile.

venerdì 21 ottobre 2016

Meditazione semplice

La coscienza di se non si esercita esercitando la coscienza di se.
Il semplice esercizio non ha la carica emotiva sufficiente.

Senza una motivazione profonda, una direzione evolutiva, un obiettivo chiaro (forse ha a che vedere con il proposito), esercitare la coscienza di se non produce grandi risultati.

La coscienza di se si produce solamente aumentando la disponibilità di energia psicofisica e questa disponibilità ho imparato ad aumentarla in due modi: aumentando la concentrazione (dell'energia) e diminuendo la dispersione

La concentrazione aumenta con il lavori con la forza, l'uffizio, il benessere, la richiesta.

La dispersione diminuisce risolvendo i conflitti, distruggendo le contraddizioni. Per ognuno si manifesta in modo diverso, ma come abbiamo imparato, le manifestazioni e le rappresentazioni sono transitorie, mentre la struttura e l'essenza è permanente. 
Nel mio caso si manifesta come "fuga dalla sofferenza". Grande quantità di energia è dedicata all'allontanamento della sofferenza, ma dato che allontanandola questa non sparisce, l'energia dedicata a questo lavoro è costante e si rinnova attimo dopo attimo, in un interminabile spreco di Forza che la coscienza potrebbe usare altrimenti. Nel mio caso quindi il lavoro consiste nel vivere la sofferenza, senza fuggirla. Osservarla, in modo aperto e accogliente; accettare la sua esistenza e ricordare che anch'essa è transitoria, una delle tante espressioni della struttura cose-complemento. Questo lavoro si riassume nel principio "Risolverai i tuoi conflitti quando li comprenderai nella loro radice ultima, non quando li vorrai risolvere".
Questo lavoro ha a che vedere con la meditazione semplice, è essenzialmente meditazione semplice. Osservare i conflitti e le inquietudini e avvicinarsi lentamente ("in attenta e umile ricerca") alla loro radice ultima.

In questo credo di aver capito quando Silo dice, nel materiale sulla meditazione trascendentale, "La meditazione semplice abilita la coscienza di se".

Mi scopro quindi sempre più spesso a praticare questa meditazione semplice non solamente la sera prima di "chiudere la giornata", ma anche mentre parlo con le persone, mentre faccio cose, mentre piego i panni, mentre carico la lavastoviglie e mi rendo conto che questa è la coscienza di se. Non uno stato di luce e miracoli, ma brevi momenti di lucidità che si ripetono ogni giorno con più frequenza e durante i quali una strana sensazione di "andando all'essenza più profonda delle cose e all'eternità del tempo, nulla può farmi veramente male" mi riempie di una serena allegria che pare non potersi mai esaurire.

Le contraddizioni altrui acquisiscono una dimensione più compassionevole, poiché vedo in quella il mio stesso incatenamento e il mio stesso determinismo. Io e te litighiamo e quando raccontiamo il nostro litigio, entrambi siamo perfettamente convinti di avere ragione... solo che avere ragione è incredibilmente sopravvalutato

mercoledì 19 ottobre 2016

Immagine di me

L'assurda perdita di energia nel difendere la propria posizione.

Che incredibile perdita di energia. Espongo un mio punto di vista e ovviamente, come succede quotidianamente, qualcuno mette in dubbio questo punto di vista contrapponendo il suo.

Quale futile esercizio inizia molto spesso in quel momento? Quanta energia perdo nel affermare con grande forza il mio punto di vista, che per me è la verità più vera? Per quale incredibile motivo ha per me cotanta importanza che il mio punto di vista sia riconosciuto come sostanzialmente corretto? E da chi poi?

Mi fermo, faccio un po' di silenzio e medito. Quanto spesso vale veramente la pena dedicare tanta e tanta energia nel difendere il proprio punto di vista? Faccio un po' di silenzio e medito. La risposta è: “Raramente. Molto raramente”.

Mi fermo. Faccio un po' di silenzio. Inspiro lungamente. Espiro lungamente. Mi connetto con la parte migliore di me. Mi connetto con il mio Campo di Bontà, con la mia Guida. In questo Campo e con la mia Guida vedo con più chiarezza tutta questa energia diretta e concentrata sulla difesa del mio punto di vista; sulla difesa dell'immagine che ho di me; sulla difesa dell'immagine che vorrei l'altro avesse di me; sulla difesa dell'immagine che mi sono convinto di mostrare e che sono convinto gli altri abbiano o debbano avere di me.

Inspiro lungamente. Espiro lungamente. E' questo che in definitiva faccio. Difendo un'immagine che ho di me. Quando mi connetto con la parte migliore di me e quindi dell'altro, quest'immagine non ha più reale importanza; si vergogna di se stessa e si defila in attesa che il mio sguardo torni a dormire. E ancora una volta vedo quanto “avere ragione” è veramente sopravvalutato. Scopro che il prestigio è sopravvalutato. Vedo con chiarezza che l'immagine che l'altro ha di me è un argomento che riguarda l'altro e che l'immagine che ho di me è frutto dell'illusione. Sono ciò che essenzialmente sono, ma come dice Ortega y Gasset, sono ancor di più ciò che posso diventare e quindi sono fondamentalmente ciò che ancora non sono e non l'immagine che ho di me.

Questo futile esercizio di convincere l'altro può quindi essere abbandonato. Questa energia dedicata a difendere il mio punto di vista può quindi essere diretta su altro. Se qualcuno mi chiede il mio punto di vista, lo espongo. Se qualcuno mi chiede altre informazioni, chiarisco. Se qualcuno contesta il mio punto di vista con il suo, cerco di comprendere a fondo il suo punto di vista. Tutto il resto non serve. Avere ragione non serve. Difendere il punto di vista non serve. Il riconoscimento non serve. Il prestigio non serve.


Avere ragione è sempre più sopravvalutato

lunedì 17 ottobre 2016

Coscienza di Sé

La coscienza di se è un esercizio quotidiano, che può essere mantenuto e portato avanti solamente se esiste una motivazione profonda, un centro dal quale si viene e verso il quale si va.

Mi fermo. Mi ricordo di esistere, qui e ora. Esisto. Non importa per ora cosa sia questo “io” che afferma la propria esistenza. Ciò che importa è che mentre affermo la mia esistenza, sia contemporaneamente cosciente di questa affermazione. Lo faccio e lo rifaccio, 10, 20, 100 volte al giorno. Mi distraggo, divago, torno a ricordare che esisto.

Perché continuo a farlo? Che senso ha questo esercizio?
Perché grazie a questo esercizio, a volte, mi rendo conto di alcune cose. Mi rendo conto del perché quella volta ho fatto quello che ho fatto, o perché ho risposto nel modo in cui ho risposto. Perché in questo stato non solo posso osservare quello che sto facendo e sapere che lo sto facendo, ma riesco in qualche modo a riflettere su quello che ho fatto e sulla radice incognita (della legge [s]conosciuta) secondo la quale tutto si muove.

Esercitare la meditazione semplice, tutte le sere, osservando ciò che si è fatto durante il giorno, i conflitti incontrati, gli insogni e le divagazioni che mi hanno influenzato, le scelte fatte e le scelte subite, acquisisce un nuovo valore se durante il giorno ho praticato con costanza la coscienza di se. 

Senza un centro di gravità, senza un progetto significativo, senza una direzione, esercitare la coscienza di se può trasformarsi in noia e frustrazione. Praticare la coscienza di se può essere solamente parte di una grande fede nel futuro, di una direzione certa, quella direzione che è lì, qualsiasi cosa succeda; il mio amico mi tradisce? Io vado là. Ho problemi con la mia compagna? Io vado là. Mio figlio non fa ciò che voglio o mi aspetto? Io vado là. Perdo il lavoro? Io vado là.

Questa direzione rompe l'illusione. Quando questa direzione si ripete, giorno dopo giorno, nonostante l'incredibile varietà degli eventi, la spettacolarità dei fenomeni, esterni e di coscienza, la microscopica particolarità dell'esistere, mi connetto con quella sensazione di transitorietà e di permanenza. Tutto è transitorio nella sua particolarità, nella sua espressione, nella rappresentazione che faccio delle cose; contemporaneamente tutto è permanente e immutabile dal punto di vista essenziale, strutturale. 

Colgo allora momenti di grande ispirazione, in cui tutto ciò che mi trascina come una giacchetta su una spalla a primavera, perde il suo potere illusorio e non mi fa più del male, le cose non sono più il mio nemico e a volte ne colgo la totale inutilità o essenzialità. Tutto mostra una nuova parte di se, come se il vetro opaco attraverso il quale guardo tutto, per qualche attimo fosse un tantinello più pulito.

Comprendo con verità interna, che la vita è un processo lanciato verso il futuro e che suo significato esiste solamente nel cambiamento che porta al risveglio. Che la vita ha un senso, inteso come significato, solamente se ha una direzione chiara, una direzione che nessun incidente, sia esso anche la morte, può cambiare. Quando, di fronte all'assurdo della morte, sento che la direzione che ho scelto non ne è sminuita, una forza poderosa sgorga dal profondo e una gioia incontenibile mi travolge... nel cercare di afferrarla, come il Tao, la perdo, e rimane una commozione profonda... e come sostengo da sempre, nella commozione c'è Dio.

venerdì 14 ottobre 2016

L'umanità e Dio

Ciao cari amici. E' con un certo pudore e un po' di vergogna che vi racconto di aver percepito un'intenzione “altra”, un'intenzione che esisteva prima di me ed esisterà dopo di me. 
Mi rendo conto che ammettere questa cosa mi è sommamente difficile, perché ho grande difficoltà ad immaginare qualche tipo di intenzione che non sia propriamente “umana” senza sentire il modo in cui per decenni mi è stato insegnato che questa cosa va sentita; senza immaginare quel dio, fatto in quel modo, con quelle leggi, con quelle caratteristiche, con quelle imposizioni, quella chiesa. Ho anche difficoltà a mettere la parola dio in maiuscolo, come se facendolo rendessi omaggio a quella chiesa che tanto disprezzo.

L'intenzione che ho percepito in realtà somiglia molto più al Tao di Lao Tze che a qualsiasi divinità “concreta” delle varie religioni, passatemi il termine, “-teistiche” di mia conoscenza. Ho sentito con irresistibile chiarezza questa intenzione, che posso paragonare al mare o al vento. Questa intenzione che, come il mare e il vento, non si cura delle singole barche; al mare e al vento non puoi chiedere di cambiare, di soffiare diversamente, di calmarsi; puoi opporti, vanamente, alla loro forza immensa, magari vincendo qualche battaglia, superando qualche onda, essere infine travolto da quella potenza, per poi ricominciare la battaglia; oppure puoi cercare di capirne il senso, la direzione, il funzionamento, e accompagnare quelle onde, quel vento, quel fluire immenso e possente, sentendoti finalmente libero vento in poppa e schizzi sulla faccia. Puoi opporti alle onde o usarle per muoverti velocemente più meno nella direzione di quella intenzione.

E' inutile pregare il vento e il mare di cambiare direzione. Puoi prendere energia dal mare e dal vento, puoi usarli se li senti, ma non li puoi “comprendere”... forse è un esercizio futile “parlarne” (di Dio non si può parlare, lo si può sperimentare). Questa intenzione è la forza stessa della storia, che ha sempre travolto qualsiasi epoca, ognuna delle quali si è sempre considerata “quella giusta, quella naturale, lo stato delle cose”. Ogni civiltà, ogni momento storico, si è sempre illuso di essere stabile, che le cose sono in un certo modo perché è naturale che siano in quel modo, ci saranno cambiamenti minori, ma “questo è Dio, questo è l'uomo, questa è la società, questa è la natura”... inevitabilmente la storia ha travolto questa granitica certezza e Dio, l'uomo, la società e la natura sono diventati altro. Inevitabilmente i pazzi di un epoca sono stati chiamati precursori illuminati dagli uomini dell'epoca successiva. 

Ma la storia, l'intenzione, non si è curata di questo. La storia ha travolto anche queste diatribe. Perché la storia non si cura più di tanto di Riccardo Coletta. E' Riccardo che può curarsi o meno della storia, contribuire o lasciarsi trasportare, anche opporsi, anche ritardando (se ha sufficiente influenza) per qualche misero secolo o anche millennio, l'arrivo del vento a destinazione. Ma quella forza primordiale, lanciata in qualche momento partendo da una qualche parte e diretta verso qualche altra parte, ha una direzione e nessuno potrà mai spostare quella spinta.

Questa forza storica, questa travolgente energia spirituale, ha fatto una cosa che mai mai avrei ritenuto possibile... e un po' mi vergogno a dirlo. Ieri, mi sono inginocchiato, poggiando la fronte in terra, e ho ringraziato. E non mi sono inginocchiato come ho sempre creduto che ci si inginocchiasse, ovvero per timore, per obbedienza, per reverenza. Mi sono inginocchiato perché ero commosso. Mi sono inginocchiato come si inginocchiano gli Zen, prima di fronte al seggio sul quale hanno meditato e solo dopo alla statua del Buddha, ringraziando per ciò che ha lasciato noi, per l'opportunità che la sua compassione ci ha concesso. Mi sono inginocchiato alla vita, a Riccardo, al Tao, a Dio, alla Morte, a tutti voi che contribuite giorno per giorno, ognuno a modo suo, alla forza storica che cerca la luce. Ho pregato come non ho mai pregato prima. E per un attimo, un'allegria immensa e incontenibile. Per un attimo, tutto era giusto e io ero giusto. Per un attimo, il sospetto del senso.

Vorrei ringraziare uno per uno tutti voi, che in un modo o nell'altro avete contribuito a che io fossi qui, ora, in questa situazione, a fare quello che sto facendo.

Ringrazio mio fratello, presenza indubitabile, colonna inamovibile
Ringrazio papà, che straordinario uomo
Ringrazio Raffa, più di15 anni insieme, ci vuole una lettera tutta per te, ma non esistono parole
Ringrazio mamma, follia di incomprensibile amore
Ringrazio Filippo, preoccupata compassione e tenerezza
Ringrazio Alberto, con lo sguardo altero/canzonatorio. Tanta robba.
Ringrazio lo Zio Eracle, improbabile amico dalle risate smodate, mai banali né inutili
Ringrazio Chiara, per “E mo basta!”, il De Lollis, eravamo piccolini, che potenza che sei
Ringrazio Emiliano, asceta sereno cosciente, che appare da lontano chiamato dal Senso
Ringrazio il Dibbi, impensabile e trasparente
Ringrazio Ruggero, concentrato delle virtù che vorrei manifestare
Ringrazio Sara, stella brillante
Ringrazio Alice, piccola piccola, grande grande
Ringrazio Cecilia, una spremuta d'amore forte, senza ghiaccio grazie, da bere piano
Ringrazio Roberto, delicato con tutto
Ringrazio Andrea, che te possino, che non ho mai visto vacillare nella tua fede leggera
Ringrazio Viviana, giunta da chissà dove per accompagnarmi in questo viaggio
Ringrazio Rita, custode di una grande emozione, sorprendente nella sua puntualità
Ringrazio Bruno, e il caffè ristretto, che a pensarti mi viene sempre tanta allegria con una lacrima
Rosa, Luis, il Maestro. 
Li dovrei nominare uno per uno, tutti. I nomi m'ingolfano la gola, le lacrime gli occhi. Camillo, Agostino, Paolo, Marco, Fulvi vari, Sandro, Alessandro, le Berarde e le Crocche, Chiara e Manuela Moncada bellissime da togliere il fiato, Emanuela, Stefania, le Federiche, Michele e Michele, Nenna, Alicia da cui ho dato il nome a mia figlia, Dario Ergas, Salvatore, GiovannaMiriam, Gianni, Betta, Kate, Lollo, Dario, Enza, Federico, Lorenzo, Marietto, Saed, Monica, Gianluca, qualche Claudio, Maria, Fernando, Laura, Loredana... voi e le vostre famiglie, i vostri amici, coloro che vi hanno reso ciò che siete per poi incontrare me... siete tantissimi... non c'è file né cuore abbastanza grande a tenervi tutti, a tenere tutto, a tenerne uno. Quanti nomi ho dimenticato. Quanti nomi non conosco nemmeno ma mi sono dentro comunque.
Vorrei che ognuno potesse sentire quanto sono grato, leggere quanto scrivo, che questo testo facesse il giro del mondo passando nelle mani di ogni essere umano che mi ha sfiorato. Quanto siete importanti dentro di me. Tutti e ognuno. Tutti i giorni.

Per ognuno di voi c'è un “quella volta lì” che non dimenticherò mai e che ha fatto di me ciò che sono.

mercoledì 12 ottobre 2016

Il Silenzio

Imparare l'arte del Silenzio è un esercizio quotidiano che richiede alcune precauzioni. 

La prima è un grande affetto nei confronti di se stessi, una grande cura. Accogliere se stessi con un grande abbraccio, pieno di gratitudine per il Sacro che si manifesta nella semplice attesa del Silenzio. Perché innanzitutto il Silenzio non si cerca, ma si aspetta.

La seconda è la pazienza. Un vero Silenzio non sempre si produce dall'oggi al domani e non sempre si manifesta. E' un percorso che richiede sempre una sincera necessità e un profondo rispetto per il proprio percorso interno. E' non duale, non dicotomico, non compensatorio. Ogni volta che cerco il Silenzio, esso è come il Tao e mi sfugge. Con pazienza, torno all'essenziale e accetto che non ogni giorno è quello giusto per il Silenzio e solo quando accetto che possa non esserci Silenzio, esso ha campo per manifestarsi... perché non si può riempire ciò che è pieno.

La terza precauzione è quella della benevolenza. Non sarà facile, riempirò continuamente questo Silenzio con contenuti più o meno casuali. La benevolenza è l'unico modo per avvicinarmi a quel Silenzio. Sorridere alla divagazione, ai rumori, agli insogni, a tutte quelle immagini e a quella voce che pare eterna, inesauribile, che sembra descrivere a me stesso continuamente ogni singolo pensiero.

Il Sé più profondo non è quella voce incessante che parla di tutto, che mi descrive ogni percezione, come una interminabile telecronaca del vivere. Il Sé più profondo è l'ascoltatore. Ogni volta che mi racconto qualcosa, è l'io che racconta e il Sé che ascolta in paziente attesa di un po' di Silenzio. L'io racconta perché ha paura e deve controllare, formalizzare, schematizzare, perché non è in grado di arrivare all'essenziale.

Con affetto, pazienza e benevolenza, occasionalmente, si può dare riposo alla telecronaca e si produce il Silenzio. Simile allo spazio interstellare, in esso vive una calma e una tranquillità di una dimensione così aliena, che più volte sono fuggito atterrito di fronte all'immensità dell'infinito.

In quel Silenzio ho sentito il rumore del tuono sotto le coperte, lo scrosciare della pioggia in una commovente giornata autunnale, lo scorrere delicato del ruscello.
Il Silenzio non si può afferrare perché ogni gesto è rumore.
Il Silenzio non si può capire, perché ogni pensiero è rumore.
Il Silenzio è un'esperienza che non esiste, eppure ogni volta ne esco turbato.
Non posso sentire il Silenzio né ricordarlo, ma sono certo di esserci stato, non chiedermi perché.
Sento che ha a che vedere con la Resa, con la maiuscola. Con la naturalità che si esprime. Con l'essenza. 
Lo stato di serenità è lo stato naturale del Sé, l'inquietudine è un disturbo. Come la salute e la febbre sono rispettivamente lo stato naturale e un disturbo per il corpo.

Vale davvero la pena mettersi un po' di tempo ogni giorno in uno stato di attesa del Silenzio, come se se avessi fatto una domanda importante e stessi aspettando una risposta, che giungerà in un sussurro appena udibile, sapendo che la risposta arriverà, ma non avendo idea di quando questo avverrà, solo che invece di arrivare una risposta, arriverà una domanda.

lunedì 10 ottobre 2016

Il centro di gravità

Ultimamente ho avuto la chiara sensazione di aver fatto una cosa importante, che ho chiamato “configurare il mio punto di ripristino”. Si tratta di un luogo dell'essere a cui tornare ogni volta che mi perdo, un monolite da cui lanciarmi di volta in volta verso l'infinito e a cui tornare ogni volta che ho necessità di riposo, un centro di gravità che mi permette in qualsiasi momento di sapere dove sono. Un porto sicuro in cui riposarmi dopo lunghi e perigliosi viaggi.

Quando incontri una grande forza, allegria e bontà nel tuo cuore, e quando ti senti libero e senza contraddizioni, ringrazia immediatamente dentro di te. Se ti succede il contrario, chiedi con fede, e il ringraziamento che hai accumulato tornerà amplificato e trasformato in beneficio.” - Silo

E' grazie a queste parole del Maestro che ho potuto trovare questo luogo interno, quest'ancora della coscienza. Non dimenticando mai di ringraziare ogni volta che ho la sensazione di aver fatto un buon passo, o un buon pasto, di aver compreso una cosa, vado fortificando questo centro luminoso.

"In qualche momento del giorno o della notte, aspira una boccata d'aria e immagina che arrivi al tuo cuore,
Allora, chiedi con forza per te e i tuoi cari.
Chiedi con forza per allontanarti da tutto ciò che è contraddizione; chiedi perché la tua vita abbia unità.
Non dedicare molto tempo a questa breve orazione, a questa breve richiesta, perché basterà che tu interrompa un istante ciò che sta accadendo nella tua vita perché nel contatto con la tua interiorità si sveglino i tuoi sentimenti e le tue idee.
Allontanare la contraddizione è lo stesso che superare l'odio, il risentimento, il desiderio di vendetta.
Allontanare la contraddizione è coltivare il desiderio di riconciliazione con gli altri e con se stessi.
Allontanare la contraddizione è perdonare e riparare due volta ogni male che è stato fatto ad altri"
Silo.

Questi due semplici atti, il ringraziare e la richiesta, ripetuti con fede, hanno prodotto in me un centro di gravità. Quando durante il giorno, mi rendo conto di dormire, mi sveglio e torno a questo centro, a questo punto di ripristino; da lì riprendo il cammino e ho come la sensazione di non poter più tornare indietro oltre questo punto, fin quando continuerò a nutrire questo centro.

La vita diventa quindi una ricerca del centro, la costruzione del centro, l'evoluzione del centro, l'innalzamento del centro, sempre più su, sempre più avanti. La brama perde lentamente il suo potere ipnotico, poiché allontana dal centro addormentando lo sguardo.

Mi perdo nei miei insogni, svegliandomi dopo ore senza sapere come sono giunto dove sono, e torno al punto di ripristino, al rifugio sicuro, e non ho più paura. Non ho più paura di lasciare il rifugio perché so che c'è il rifugio, che c'è il centro. Divento esploratore di me stesso, spinto dal centro, sicuro nel centro.

“Così, oggi vola verso le stelle l'eroe di quest'età. Vola attraverso regioni prima ignorate. Vola verso l'esterno del suo mondo e, senza saperlo, è spinto verso il centro interno e luminoso.”

martedì 4 ottobre 2016

La Coerenza

La coerenza. Pensare, sentire e agire in un'unica direzione.
A dirlo sembra chiarissimo. Il concetto sembra semplice e lampante.

Ma come fare quando voglio una cosa che non voglio? Quale che sia la mia azione, sarà in contraddizione con una parte di me.

Comprendo allora che la coerenza non è semplicemente la coincidenza di queste tre cose, ma il frutto di un nuovo livello di coscienza, un nuovo atteggiamento nei confronti della vita, dell'essere e del Divino.

La coerenza sorge come percezione del Divino, del Profondo, del Sacro. Quando mi connetto con gli “spazi” più profondi, quando per alcuni momenti l'ego smisurato non riesce a fermare tutto, qualcosa filtra da quegli “spazi” senza tempo e senza spazio. Quando quel qualcosa filtra, non ho più dubbi. Come disse mia figlia: “l'anima sa cosa fare, ma la mente si confonde”. Quando la coscienza è toccata da quella forza primordiale, quel processo storico inarrestabile, il Divino non rappresentabile, so esattamente cosa fare, come farlo.

In queste occasioni speciali posso lanciare la coerenza nella vita, come compresenza, come segnale occulto che si manifesta in forma di direzione, di tendenza.

Non rimangono che vaghi ricordi di quel segnale di Dio. Non rimane che una inafferrabile sensazione di chiarezza, di certezza. Mi rimane però inequivocabile un registro di coerenza; un registro chiaro che da qualche parte so esattamente cosa posso fare, dove posso andare, che esiste un senso in tutto questo, che esiste una direzione evolutiva e che essa è reale, indubitabile. La ragione non può capire questa cosa; la coscienza non può rappresentarla; imparo a lasciarla così come è perché la ragione, per parlarne, la deve degradare, abbassare fino a renderla rappresentabile.

Gli zen dicono: “Rendi il tuo spirito simile al vento, che passa su tutte le cose senza attaccarsi a nessuna di esse”. Questa cosa mi piace, perché il vento non ignora le cose su cui passa. Il vento le accarezza, le muove, producendo dolci melodie di foglie o terribile frastuoni di tempesta. Il vento non è indifferente, ma non si attacca alle cose, arriva, gioca con le cose, poi va via. Ma senza senza volerlo o non-volerlo, si porta dietro un profumo, che poi lascia altrove, così, “naturalmente”.

Percepisco un pensiero lontano. 
Una sottile linea divisoria separa il “lasciarsi vivere” dal “lasciare che la Vita si esprima”. La Vita, quella con la “V” maiuscola, il Senso, l'Essere, la Luce, il Tao, Dio, l'Intenzione. Quando sono in presenza di quella luce, lascio che si esprima; quando ci riesco ho un vissuto indubitabile sulla giustezza delle nostre scelte; quella è la Coerenza.

Asimov, in “Fondazione e Terra”, esprimeva questa comunione con l'essenza stessa dell'universalità, attraverso il pianeta vivo Gaia, fatto di tutta materia cosciente e cosciente di se, dalla pietra delle montagne all'essere umano, a differenti livelli ovviamente, ma tutti connessi; gli esseri umani di questo pianeta usavano un pronome diverso quando si riferivano a loro stessi in quanto membri di Gaia invece che a loro stessi in quanto individui: “Io-Noi-Gaia”, declinato nei verbi in prima persona plurale asessuato (asessuato che, ahi noi, in italiano poco si può rendere). Se si estendesse quel concetto a tutto l'esistente invece che ad un singolo pianeta, avremmo “Io/Noi/Tutto”, il Tao. In cui non perdo la mia particolarità (“Io”), ne rendo compartecipe l'umanità (“Noi”), prendendo atto che esiste solamente come parte di un tutto.