giovedì 20 dicembre 2018

L'esperienza

Non esiste un modo buono e un modo sbagliato di praticare. Non esiste una seduta di meditazione che è andata bene ed una che è andata male. Esiste “essere cosciente” e “non essere coscienti”. “Fatto bene” e “fatto male” appartengono a questi “spazi” e non a quelli.

Qualsiasi “risultato” si ottenga con una seduta è una ricerca dell'Io periferico. Il successo e l'insuccesso sono concetti di questa mente incatenata. 

C'è differenza tra “idea” ed “Esperienza”.

A me interessa la seconda più che la prima. Basta non confondermi, poiché l'Esperienza non è ciò che ricordo di essa. Quello che ricordo è la traduzione di quella Esperienza. Non è un male, basta mantenere il centro. L'Esperienza la sintetizzo in questa frase: “Tutto vive e tutto sta bene. La musica e le cose non hanno nome e davvero nulla le può designare veramente”.

Gli spazi profondi sono indubitabili e indefinibili.

Cosa è reale? Questo o quello? Questa discriminazione è già opera della mente incatenata e non della Mente Lucida. La Mente Lucida non effettua distinzione tra “Uno” e “Tutto”. Non c'è discriminazione, non c'è separazione. 

La Mente Lucida vive la Vita che si esprime. La Mente Lucida vede “io”, vede “mondo” e comprende che non c'è discriminazione. La Mente Lucida non ha fine, non ha inizio. La Mente Lucida partecipa, attivamente.

Perché “io essere umano”? Perché “la coscienza”? Parafrasando altri “Perché l'essere e non piuttosto il nulla”?

Meraviglia delle meraviglie.

Cosa è questo osservare se stesso? C'è questo modo di “osservare dentro”, “osservarsi”, che è diverso dal solito. Come se esistesse un osservatore più in là. Che direzione ha questo sguardo? Se un punto è diretto a se stesso, esiste una direzione? E se non esiste una direzione esiste solo l'essere. Se invece esiste una direzione, da dove parte se il bersaglio sono io? Sono compartecipe di qualcosa. Non parte da me né da fuori di me. Sono compartecipe nell'agire ed essere oggetto. Sono contemporaneamente osservatore ed osservato. Sono compartecipe.

Le parole sono insufficienti. Cerco nuovi linguaggi.

Mi siedo e faccio silenzio. Perché senza Esperienza c'è solo la mente incatenata e tutto diventa consumo. Consumo cose, emozioni, pensieri. L'Esperienza mi dà futuro e certezza. Stabilità in movimento. 

Ogni cosa è in contatto con Tutto, né fa parte, né è espressione. Esiste solo una cosa ed essa si esprime in universi e mondi. Il mio guardare e il guardato, è l'espressione dell'Unica Cosa.

venerdì 14 dicembre 2018

Possesso e Libertà

Voglio possedere tutto.

Esperienze, sapori, vendette. Ogni cosa che passa per la mia vita l'afferro, ne voglio strappare l'essenza, la voglio possedere. 

Questa sembra essere la radice di tutte le tensioni. “La radice possessiva della sofferenza”. Contrarre, tirare, afferrare, trattenere.

Lasciarsi possedere dalla verità interiore. Lasciare che si manifesti. Non discriminare. Non separare. Non oscillare. Essere il fulcro e non il pendolo.

Osservo me stesso. Chi osserva chi? Esiste un momento preciso in cui, ponendo attenzione alla mia vita, a ciò che faccio, sento, dico, penso, prende corpo un centro inamovibile. Un centro “nonostante tutto”. Quando questo centro agisce, tutto funziona in un modo diverso. Non sembra possibile possedere qualcosa; sembra quasi puerile pensare di possedere qualcosa. Non sono più qui nel tentativo di possedere ciò che è lì. Qui e lì, io e il “mondo”, sembrano semplicemente partecipare allo stesso spettacolo. Collaboro.

Soffro quando non ho il controllo. Smetto di soffrire quando sono cosciente che non posso avere il controllo.

Presenza mentale. Essere presenti a se stessi. Coscienza di sé.

Perché l'essere umano? Perché di tutti gli esseri, siamo l'unico che genera la propria stessa sofferenza? A mio avviso non può che essere un passaggio necessario, un ostacolo lungo l'ascesa.

Io... noi, come forma più ampia di “io” è sempre io.

Quando sono realmente sveglio vedo come tutto partecipa e come non c'è distinzione alcuna, non c'è separazione ed esiste un unico fenomeno, di cui faccio parte come il vento, il sasso e la stella.

Per agire nel mondo devo discriminare. Quando sono realmente sveglio sono cosciente della discriminazione e del fallo insito in essa. Non posso smettere di distinguere, separare e scegliere, ma posso farlo sapendo di farlo. Sono vivo nell'imperfezione, in ascesa, in espansione.

Partecipo al fenomeno dell'esistere. Qui, con questo corpo.

Vedo il potere totale della compassione. Il “campo di bontà” che comprende ogni cosa e partecipa in ogni cosa. Agire con bontà, con amorevolezza. Vibro di allegria al solo pensiero.

Ho la concreta possibilità di essere ciò che voglio, essendo partecipe.

giovedì 6 dicembre 2018

Fede

Non c’è senso nella vita se tutto finisce con la morte
E’ basicamente una questione di fede
In assenza di esperienza, uno può avere fede nella morte o fede nella trascendenza.
Per molti, dire che “non credere in una vita separata” sia un atto di fede, risulta sgradevole, irritante.
Spesso siamo andati fieri del nostro “non credere”. Svelare che è un atto di fede suscita sdegno.
In entrambi i casi è una questione di fede. Non parlo di un Dio o di una religione.
Posso dire che credo nella cosa più logica o più plausibile, ma la ragione è mutevole, può essere piegata al proprio volere, alla propria necessità interna, di rivalsa, né più e né meno della fede.
Posso dire che credo nella cosa che mi fa stare meglio
Posso dire che credo in ciò di cui sento il bisogno
Posso dire che credo nella cosa che mi consola
Posso credere per rivalsa, per rabbia o per vendetta o per paura
Come si può avere fede, senza alcuna base, senza esperienza?
Perché allora è così facile avere fede nella morte?
Perché è così facile credere che la morte chiuda il futuro e che lo chiuda sempre e inevitabilmente?
E’ così facile credere nella morte, che chi ha fede nella morte, non ammette che si tratti di fede.
E’ così facile, che coloro che credono nella morte mi rispondono stizziti quando affermo che tale credenza è un atto di fede. Si stizziscono perché hanno sempre pensato che non credere in una vita separata è un atto di ribellione all’ingenuità della fede, ribellione alla religione. E’ successo anche a me, mi sono sentito quasi insultato. Non consideravo che non credere nella trascendenza è solo un’altra fede, un’altra religione.
Come può ciò che è immortale generale l’illusione della mortalità?"
Ma la fede, senza esperienza, è mutevole, come la ragione e il sogno.
Esiste la possibilità di avere esperienze di altro tipo?
Di intuire altri stati?
Di sentire un registro interno che trascenda corpo e materia?
Ho cercato, a lungo, in vari “luoghi”. Nella mia esperienza, e in quella di una cara, carissima amica, la stessa cara carissima amica di tante altre volte, si può avere un registro della trascendenza, un vissuto interno dell’immortalità. Non si tratta di una “comprensione”, si tratta di un “sentire”.
Come risolvo il paradosso di un’esperienza che può essere trovata solo quando non è attivamente cercata? La mente non può percepire l’eterno, non può percepire il non tempo.
E’ un’esperienza che non può essere trasmessa né “spiegata" e quindi viene percepita come semplice fede.
Come posso trasmettere la certezza basata sull’esperienza, se questa non è trasmissibile?
Cedo la parola al Maestro, che lo fece meglio di quanto potrei fare io: 
Non potrai giustificare l’esistenza se ad essa porrai come fine l’assurdo della morte. Finora tu ed io siamo stati compagni di lotta. Né tu né io abbiamo voluto piegarci dinanzi ad alcun dio. Vorrei poterti ricordare sempre così. Allora perché mi abbandoni quando non accetto l’inesorabilità della morte? Una volta abbiamo detto: “Neppure gli dei sono al di sopra della vita!” Allora come mai adesso ti inginocchi davanti alla negazione della vita? Tu puoi fare quello che vuoi ma io non abbasserò la testa dinanzi a nessun idolo, anche quando la fede nella ragione sembrerà “giustificarlo””. Silo – Il paesaggio interno
E poi ancora sempre il Maestro
...
descriveremo i cinque possibili stati o modi di porsi rispetto al problema della morte e della trascendenza
...
C’è un primo stato che corrisponde a chi ha la prova indubitabile - data dall’esperienza diretta, non dall’educazione o dall’ambiente -, la prova evidente, indiscutibile, che la vita è un transito e che la morte è un incidente di poco conto.
Ci sono altri che credono che la vita umana abbia come fine una qualche forma di trascendenza; questa credenza viene loro dall’educazione, dall’ambiente, non da qualcosa di sentito, di sperimentato; non da qualcosa di evidente per loro ma da qualcosa che è stato loro insegnato e che essi accettano, senza alcuna esperienza.
C’è poi un terzo modo di porsi nei confronti del senso della vita, ed è quello di chi vorrebbe avere una fede o un’esperienza. Persone che non hanno fede, non credono nella trascendenza, ma desidererebbero avere qualcosa che desse loro coraggio e direzione nella vita.
Ci sono persone che sospettano, a livello intellettuale, che esista un futuro dopo la morte, una trascendenza. Si limitano a ritenere possibile questa ipotesi pur senza contare su alcuna esperienza di tipo trascendente o alcun tipo di fede e senza peraltro aspirare ad averle
C’è, infine, chi nega ogni possibilità di trascendenza. 
Ma con questo non abbiamo esaurito il tema delle diverse posizioni che si possono assumere di fronte al problema della trascendenza, perché sono possibili differenti gradi di profondità in ciascuna di tali posizioni
...
Quanti riescono a trovare la fede o ad avere un’esperienza trascendente, pur non potendole definire in termini precisi (così come non si può definire l’amore), riconosceranno la necessità di dare un orientamento ad altri, di indirizzarli sulla loro stessa via ma non tenteranno mai di imporre il proprio paesaggio a chi non vi si riconosca.
...
E così, coerentemente con quanto ho affermato, dichiaro innanzi a voi la mia fede e la mia certezza basata sull’esperienza nel fatto che la morte non chiude il futuro, che la morte, al contrario, modifica lo stato provvisorio della nostra esistenza per lanciarla verso la trascendenza immortale. Non impongo la mia certezza né la mia fede e vivo accanto a coloro il cui modo di porsi nei confronti del senso della vita è diverso dal mio; tuttavia mi sento obbligato ad offrire, per solidarietà, il messaggio che riconosco rende libero e felice l’essere umano. Per nessun motivo eludo la responsabilità di esprimere le mie verità, per quanto esse possano apparire discutibili a chi sperimenta la provvisorietà della vita e l’assurdità della morte.

D’altra parte non chiedo mai agli altri quali siano le loro credenze personali ed in ogni caso, pur definendo con assoluta chiarezza la mia posizione su questo punto, proclamo per ogni essere umano la libertà di credere o non credere in Dio e la libertà di credere o non credere nell’immortalità.

Tra le migliaia e migliaia di donne e di uomini che, fianco a fianco, lavorano con noi in modo solidale, si contano atei e credenti, persone con dubbi e certezze; ma a nessuno viene chiesto quale sia la sua fede; e tutto ciò che viene dato, viene dato come un orientamento, affinché ciascuno decida per proprio conto quale sia la via che meglio chiarisca il senso della sua vita.

Evitare di proclamare le proprie certezze non è coraggioso, ma tentare di imporle non è degno della vera solidarietà.” Silo – Città del Messico – 10 ottobre 1980

martedì 27 novembre 2018

Sono un fallito

Sono un fallito. E un disadattato
E cosa significa essere un fallito? E’ forse uno degli insulti più pesanti che si può fare oggi ad una persona… “fallito”… in America usano “loser” (perdente)… e il problema personale peggiore che puoi avere è “essere un disadattato”, un “misfit”
Ebbene si, io sono un fallito. Sono un fallito perché non ho raggiunto il successo in ciò che conta, nella carriera, nella famiglia tradizionale, nel prestigio, nella coppia. Sono un fallito perché le persone non parlano di me, non sono interessate a me… e se parlano di me non dicono “eh, quello è uno di successo”
Sono un fallito. Sono un fallito perché secondo i valori che oggi sono al centro (beh, non più tanto al centro se guardiamo con più attenzione), io non ho raggiunto gli obiettivi che andavano raggiunti
E sono un disadattato. Sono un disadattato perché essere un fallito non mi fa sentire male, non mi fa sentire in imbarazzo, non mi fa sentire meno degno. Sono un disadattato perché ho compreso che dicendo “sono un fallito” in realtà sto dicendo che “ciò che conta” è fallito in me. La carriera, il prestigio, hanno fallito; non riescono più a nutrirmi, non riescono più a farmi sentire bene. Ciò che ha veramente fallito è questo sistema di valori… non sono normale, non dovrebbe essere normale sentire che essere un fallito non è un problema, quindi non sono adeguatamente integrato.
Ma non sono uno di quelli che parla del “sistema”, come se fosse una creatura geniale, subdola, che intenzionalmente e malignamente cerca di creare la società del male. Il sistema… inteso come insieme di valori e credenze: l’insieme di ciò che si deve fare per essere felici. Questo sistema si crea e si distrugge, generazione dopo generazione, epoca dopo epoca. I potenti del sistema sembrano geni del male, fin quando sono al potere, ma sono semplicemente persone disturbate e in perenne terrore di perdere ciò che hanno. Ciò che ieri si credeva rendesse piena e felice la vita di un essere umano, oggi viene rigettato e giudicato banale e ciò che oggi si crede dia la felicità, domani non lo si crederà più, non lo si cercherà più… e ogni “promessa” fatta da qualcuno che ti promette “quello” perderà fascino. Ogni minaccia che ti prometterà di toglierti “quello”, non farà più paura… questo cambierà tutto.
E cosa è morto quindi oggi in me? In cosa ho fallito? Perché sono un disadattato? Sono un disadattato perché questo sistema non funziona più in me. Non sono adatto, e non mi voglio adattare. Non mi interessa la promessa di una posizione di prestigio. Non mi intimorisce la minaccia dell’umiliazione professionale. Se perderò il lavoro mi sentirò male perché avrò difficoltà a far vivere una vita degna alle mie figlie, non perché “essere un disoccupato” è una cosa umiliante che mi rende meno degno. Sono un disadattato perché non misuro il mio valore dal numero di sguardi ammirati e commenti rispettosi degli sconosciuti. Non mi sento meno degno perché ho fallito nel compito di centrare i successi del sistema. Sono un disadattato perché non aderisco ai valori comunemente accettati come “ciò che rende la tua vita degna e felice”.
Ma non succede solo in me. Succede a molti. Molte persone non si sentono più appagate ottenendo ciò che si dice si debba ottenere. Le persone non sono felici pura avendo “ciò che rende felici”. Avere l’ultimo modello di cellulare non basta più. Molti continuano a farlo, a cercare spasmodicamente un simbolo di successo, di adattamento… semplicemente perché non hanno altro in cui credere, hanno vissuto così a lungo in una realtà in cui “essere all’ultima moda e prestigioso” ti rende felice, che continuano a cercare in ogni modo di “essere all’ultima moda”, ma non ne traggono più alcun sollievo… è diventata inerzia, ma il sistema ha fallito anche in loro. Siamo tantissimi. Se solo accettassimo tutti il fallimento di tutte le nostre aspettative, di tutti i nostri valori, di tutto ciò che credevamo ci avrebbe reso felici… saremmo liberi da false promesse e vuote minacce. Saremmo finalmente vuoti, e quindi pronti a riempirci di nuove idee, nuovi valori, nuove credenze.
E succederà. Perché i falliti e i disadattati sono sempre di più… perché nessun senso e valore che rimane mondano e non trascende la vita e l’io, può primeggiare nella coscienza collettiva troppo a lungo. E come in ogni momento in cui un sistema di valori e credenza crolla, gli ultimi “tradizionalisti” diventano isterici e difendono terrorizzati e violentemente la decadenza; quanto è difficile dire “non so più cosa fare per essere felice”. E’ più facile aumentare istericamente la propria “adesione” fingendo che funzioni, anche se dentro il vuoto è sempre più grande. Prima o poi la vacuità e la transitorietà di cui sono intrisi “i sensi e i valori non trascendenti” vengono sempre fuori, il loro valore energetico si esaurisce e la ricerca di sempre, quella che va avanti dagli albori dell’umanità, la ricerca dell’immortalità, intesa come superamento della paura della morte, come ribellione interna all’assurdo della morte, riprende il suo cammino, apparentemente come in un cerchio che si ripete, ma in realtà come in una scala a chiocciola circolare, che vista da sopra è un cerchio, ma ad ogni giro si sale un piano.
Devi scegliere. Vuoi continuare a cercare il successo, cercando di diventare ciò il sistema dice sia “una persona felice”? Oppure sei convinto che, anche se raggiungessi gli obiettivi “che vanno raggiunti” rimarrebbe il tuo vuoto esistenziale? Cosa potrà mai riempire quel vuoto?
Mettiti davanti allo specchio e per dirti con fede una di queste due cose
“Cercherò con tutto me stesso di essere una persona di successo”
Oppure
“Sono un fallito e un disadattato”
Da qui, partirà il resto della tua vita. Questo traccerà la direzione delle tue azioni.
La prima cosa da fare è dare agli altri ciò di cui sentiamo più bisogno, ciò che vorremmo venisse dato a noi.
Ricordiamoci che ogni mattina inizia il resto della nostra vita.

mercoledì 21 novembre 2018

Anestesia

Sperimento in modo paradossalmente vivida una sorta di anestesia.
Le cose mi arrivano, le sento, ma come se se fossero smorzate, attutite, come attraverso i doppi vetri. Le persone intorno a me parlano tra loro… capisco e non capisco cosa dicono… l’assurdità del vivere, del loro sforzarsi da formichina nel formicaio, cercando di non sentire la vacuità.
Anche cose che cerco di sentire con forza. Ho “persone tra le mani” che richiedono che io viva e senta la loro presenza, ne hanno bisogno. Mi sforzo, allungo le braccia della mia coscienza nel tentativo di sentire ciò che sento… l’amore, il sorriso…
Tutto arriva come da lontano. Come una specie di enorme livellamento verso il basso dell’intensità di tutto il percepito esterno ed interno.
Forse tutto era troppo forte… forse ad un certo punto sono scattati i livelli di sicurezza, il “circuito antincendio” della coscienza.
Non c’è nulla di sbagliato in sé in questa forma di autoconservazione.
Meditare in attenta ed umile ricerca anche su questo. Solo perché non diventi “ciò che sono” e continui ad essere ciò che correttamente è, un momento di pausa, come fermarsi di lato e fare qualche lungo e affannoso respiro per non svenire dalla fatica, senza perdere di vista la meta, il Proposito
Il Proposito.
E’ sempre la chiave di tutto. Un Proposito, con la “P” maiuscola, che possa dare senso non alla mia esistenza ma che dia senso all’Esistenza… che sia un senso non provvisorio, che possa sopravvivere a tutto… anche a “io”. Una direzione vitale che sia lanciata in modo che possa essere alimentata di giorno in giorno e contemporaneamente mai fermata da qualsivoglia incidente, sia esso anche la morte. Una direzione vitale che sia oltre il corpo, oltre il “qui”, oltre “io”. Un centro di gravità che sia però di movimento… che non mi faccia “stare” ma mi faccia “andare”. Una direzione che non sia solo una “azione lanciata”, ma che sia un “Processo”, potente, inarrestabile.

Il Maestro diceva: 
Si tú eliges un camino que te parece el adecuado y lo mantienes, el día que amaneces deprimido lo mantienes, y el día que tu novio te abandona, te engaña y tienes un conflicto amoroso, lo mantienes y te la juegas todo en esa dirección, entonces irrumpe un fenómeno que se conoce como fe interna. Y ese fenómeno se manifiesta como fuerza. Pero básicamente todo depende de que elijas una dirección y la mantengas pase lo que pase.
Y que no digas: la condición para que yo mantenga la dirección es que aparezca la fuerza. NO. Es totalmente lo contrario. La condición para que aparezca la fuerza es que mantengas la dirección.
La dirección es algo que sea positivo para tí y para otros.
Ecco. Si sceglie un cammino, lo si mantiene qualsiasi cosa accada, di fronte a qualsiasi difficoltà, e si manifesta la fede interna come forza. Un cammino che sia qualcosa di positivo per te e per gli altri. Un cammino che io mantenga “pase lo que pase”.
E ci sarà dolore, ci sarà anestesia, “e ci sarà azione e reazione ed anche riflesso e incidente; ma se avrai aperto il tuo futuro, niente potrà fermarti.
Il Proposito apre il futuro, perché i Proposito è tale quando trascende il tempo e l’io… non ha fine poiché non ha inizio, poiché non ha colore, è esso stesso, per sua natura, apertura… è un registro, una sensazione, una intuizione, è ciò che è, che mi permette d’intuire ciò che non è.

E’ appunto una direzione senza un luogo, è un atto senza oggetto, è affermare senza negare.

domenica 18 novembre 2018

Solo nella mia mente

Mi sovviene una chiacchierata fatta tempo fa con mio fratello. Si discuteva di meditazione, riflessione su se stessi, della Forza e argomenti correlati. Lui mi disse questa frase: “Riccardo, lo sai che tutto questo avviene solo nella tua testa vero?”
“Solo”.
Ma la sofferenza che ho provato quando è morto mio nipote, non era anch’essa esclusivamente nella mia testa? Il dolore, l’amore, la gioia, la passione, la speranza, la felicità, la serenità, l’angoscia, l’ansia, la preoccupazione, la rabbia… non sono tutte cose che esistono “solo nella mia testa”? E le considero per questo meno “reali”?
Andiamo ancora più a fondo. La realtà, quella che penso di toccare, dove esiste? Interagisco con “la realtà”? O forse interagisco solamente con l’interpretazione che la mia coscienza fa di dati filtrati in modo approssimativo dai miei sensi? Della realtà, se mai esiste in modo distinto da me che la “guardo”, non posso avere alcuna esperienza; ho una sensazione parziale, filtrata e reinterpretata, di dati energetici/chimici (luce/calore) percepiti dai sensi… per quanto mi riguarda la realtà “fuori dalla mia testa” non esiste nemmeno. Per ciò che mi riguarda io posso interagire solamente con ciò che è nella mia testa.
Quindi si, è vero, la meditazione, le comprensioni, gli stati elevati di coscienza, la Forza, l’ispirazione, il Senso, il Silenzio… sono tutte cose che avvengono nella mia testa… Dire “solo” nella mia testa non ha un gran senso, poiché tutto avviene là.
Per questo sono cose di incredibile importanza. Se tutto ciò che sento, penso e in generale sperimento, avviene in me, qualsiasi strumento che mi permette di “aggiungere in me” qualcosa che migliora il funzionamento del tutto, è incredibilmente prezioso. 
In questo sta la magnificenza dell’essere umano (e apparentemente, per ora, solo dell’essere umano). All’interno di una serie di meccanismi biochimici che ci portano a pensare, sentire e agire in modo assolutamente meccanico (come diceva Gurdjieff, l’uomo-macchina), esiste una scintilla che, in modo assolutamente incomprensibile (dal punto di vista dell’uomo-macchina) e quindi apparentemente casuale, permette di aggiungere a questi processi qualcosa di “diverso”, che Silo definirebbe qualcosa di “intenzionale”. La natura umana (e apparentemente, per ora, solo umana) è proprio quella di mutare la propria stessa natura, di aggiungere elementi modificanti alla propria natura che la propria natura, in quello stato, non prevederebbe. E’ il grande paradosso della natura che crea qualcosa che agisce fuori delle leggi della natura e che quindi ci obbliga ogni volta a rivedere totalmente il concetto di “leggi della natura”.
Quando sento “questo è solo nella tua testa”, ascolto quindi semplicemente un’ovvietà, che non sminuisce minimamente ciò di cui si sta parlando.
Qualsiasi esercizio, pratica, preghiera, riflessione o altro, che mi permetta di aggiungere elementi non meccanici all’uomo-macchina, qualsiasi esercizio alteri il mio stato interno diminuendo le tensioni, le ansie e le frustrazioni, aumentando l’unità interna e la mia capacità di affrontare “la realtà”, è un dono di questa zona “casuale” che è in me, o in cui forse io sono; questo campo, che mi viene da dire “mi contiene”, in cui esisto e contemporaneamente non esisto, è la fonte di ogni ispirazione, è la fonte di tutto ciò che non sarebbe possibile, la fonte di tutto ciò che non sarebbe pensabile, la fonte di tutte le azioni “non naturali” (o ancora più soavemente non-meccaniche), compiute nella storia da innumerevoli esseri umani: a partire dal primo (e fino ad oggi, apparentemente unico) animale che, contro ogni legge naturale fino a quel momento esistente, si è avvicinato al fuoco invece di fuggirlo, lo ha preso, lo ha manipolato (impensabile), lo ha conservato, trasportato e infine creato (sbalorditivo), fino ad arrivare ai grandi della storia come Gandhi o Martin Luther King, passando per quelle persone che solo coloro che hanno avuto la grande fortuna di conoscere definiscono “Grandi”, mentre gli altri non ne conoscono nemmeno il nome.
E’ da questo campo, dal Profondo, dal Silenzio, che scaturisce “il bello, il buono, il giusto” dell’esistenza umana. E’ dall’oscuramento di questo campo, dalla contraddizione interna, dall’incoerenza, che nasce tutto ciò che “ha portato rovina e morte all’umanità”.
Essere “umani” è una grande responsabilità e vivere con attenzione, da svegli, in coscienza di Sé, con amore e compassione, è un dono che si fa all’esistente, è un grazie cantato alla vita.

mercoledì 24 ottobre 2018

Ringrazio

Ho imparato molto. Si, sono evidentemente cresciuto
Ultimamente mi capita di dover affrontare una situazione complicata, che non dipende solo da me. Che apparentemente espone il mio stato interno, la mia serenità, a scelte di altri.
Mi rendo conto di aver visto molto spesso la tentazione di arrabbiarmi con gli altri, di pensare e rapidamente rifiutare cose come “così mi fai male”.
Mi rendo conto che sono più sveglio di prima. Vedo queste trappole e le rifiuto, le allontano, cerco il centro e il contatto con l’altro, con il suo mondo, le sue decisioni, il suo percorso e le sue necessità. Vedo l’interazione e l’interdipendenza. Guardo la buona fede e l’impossibilità di essere altro da ciò che si è qui e ora. Concedo all’altro il diritto di fare le sue scelte al meglio delle sue possibilità, che dipendono da tante cose che non posso conoscere, ma che intimamente posso sentire, non come dettaglio, ma come registro, come movimento-forma che tutti ci accomuna. L’altro porta fardelli come io porto fardelli. Una frase di cui non ricordo la fonte sale dolcemente: “L’altro sta combattendo una guerra di cui non hai idea. Sii gentile”
Certo, con le persone che ami e che ti amano è più facile, ma il cambiamento lo vedo chiaramente. Magari sono invadente, o do troppe cose per scontate, cerco distrattamente di forzare la situazione per risolvere personalmente i problemi altrui, faccio casino. Ma sento l’altro, lo sento vivo, lo sento umano.

Quando incontri una grande forza, allegria e bontà nel tuo cuore, e quando ti senti libero e senza contraddizioni, ringrazia immediatamente dentro di te. Se ti succede il contrario, chiedi con fede, ed il ringraziamento che hai accumulato tornerà amplificato e trasformato in beneficio.

Ringrazio profondamente. In un situazione di grande difficoltà interna, ringrazio profondamente di ricordare che “trattare l’altro come vorrei essere trattato” è una chiave che apre la soluzione per ogni conflitto interno.

Trattare l’altro come vorrei essere trattato. Non significa “fare e dire all’altro ciò che vuole”, troppo facile se ciò che è giusto per me, è ciò che vuole l’altro… fosse così, sarebbe una passeggiata. L’attenzione va alzata proprio quando dobbiamo fare qualcosa (e lo dobbiamo fare perché è la cosa che intimamente sentiamo come giusta) che all’altro non piacerà. E lì mi devo porre la domanda in modo più profondo, più articolato: “Se qualcuno dovesse fare questa cosa a me, come vorrei che la facesse?”; “se qualcuno dovesse dirmi che questo che faccio non gli piace, come vorrei che me lo dicesse?”; “se qualcuno mi dovesse dire che ciò che ho fatto gli ha provocato dolore, come vorrei che lo facesse?”; “se dovessi far soffrire qualcuno, cosa vorrei che l’altro facesse? Come vorrei che reagisse?”… ecco, questa ultima la sento come la più intensa. Trattare l’altro come vorrei essere trattato non ha nulla a che vedere con l’accontentare l’altro, con il dargli ciò che vuole. Ha a che vedere con avere cura dell’altro, del suo stato interno, della sua vita, del suo cuore e del suo corpo, anche quando apparentemente “mi fa soffrire”, illusione massima. Ha a che vedere con il perdonare e perdonarsi. Trattare l’altro come vorrei essere trattato è sentire che tengo alla sua unità interna così come tengo alla mia. Perché siamo Uno. E’ riconciliazione

Ciò non mi impedisce di fare errori, di trattare male l’altro. E’ un percorso, con ostacoli e distrazioni, resistenze e fallimenti. E’ una direzione, non uno stato.