giovedì 28 aprile 2016

I sensi provvisori

Se persegui un fine, ti incateni. Se tutto ciò che fai lo fai come un fine in se, ti liberi

Ogni volta che penso che ci sia un obiettivo, un traguardo finale, un punto d'arrivo, chiudo il futuro, interrompo il fluire eterno della vita. 
Sono continuamente catturato da una immagine di “illuminazione”, di quello stato in cui “finalmente mi fermo” e contemplo la pace, la fine della sofferenza. 
Questa è la mia grande resistenza. La resistenza che ho ad abbandonare questo modo di strutturare la realtà. L'attuale incapacità di eliminare “la morte”; la tendenza a mettere quindi una “fine” anche al mio processo di crescita. La mia illusoria finitudine mi “obbliga” a vedere la finitudine ovunque, anche nel percorso di crescita, diventa “imparare fino ad un certo punto” invece di “imparare senza limiti”.

Senza, limiti. Senza.
Ogni passo, ogni percorso, non può portare “sul tetto”, ma può portare al pianerottolo successivo. E se questo è il modo corretto, se il percorso è salire, salire e ancora salire, in un “ascendere di comprensione in comprensione”, allora fissare lo sguardo sul pianerottolo successivo è fuorviante. 

Il pianerottolo è un momento in cui prendo fiato, prima di salire il gradino successivo. Ma se le cose stanno così, passo molto ma molto più tempo sulle scale che sui pianerottoli.
Allora, forse, vale la pena che, mentre salgo, invece di stare con lo sguardo fisso sul pianerottolo, immaginando quanto sarà bello stare lì, quanta soddisfazione, quanto prestigio, quanta autostima vi dimorano, io goda della salita, goda del piacere di ogni gradino, della fattezza di quel gradino, di come quel gradino mi aiuta a prendere il gradino successivo, di quanto sia difficile salirlo o lasciarlo. Vale la pena che io goda del processo generale, dell'azione del salire e delle resistenze.

E così ogni scalino diventa un pianerottolo, per ogni singolo gradino “è bello stare lì”; in ogni gradino “vi dimora la soddisfazione” e perché no, anche il prestigio e l'autostima. E in ogni gradino, per salire, devi abbandonare quella soddisfazione e fortunatamente anche quel prestigio. E “ogni cosa come un fine in se” non vuol dire quindi “fai il che cazzo ti pare quando ti pare”. 

Ogni singolo gesto. Ogni singolo atto, materiale o mentale, può essere a volte un contorno, ma può essere un passo, un gradino e in quanto tale vi può dimorare l'eterno, come l'abisso.

Parliamo allora dell’unica cosa che meriti di essere trattata: l’abisso e ciò che l’oltrepassa.

martedì 26 aprile 2016

I livelli di coscienza

Quando dormo, non percepisco alcuni suoni, non percepisco alcune luci, in pratica percepisco dai sensi solamente quei dati che superano una certa soglia o che la coscienza nel livello di sonno riesce ad interpretare come necessari a svegliarmi. Anzi, mi correggo: tutti i dati mi arrivano, ma la coscienza, in livello di sonno, struttura quei dati in modo da mantenere il livello di sonno, integrandoli nella struttura fin quando un dato non perturba la struttura stessa obbligando ad un cambio di livello; questo vale per i dati dei sensi interni ed esterni, come per i dati di memoria. Quindi la coscienza prende tutti questi dati, li traduce, li trasforma, li allegorizza, li rappresenta, cercando di includerli in qualche modo nel livello di sonno (come immagini in un sogno ad esempio). In tal modo, la coscienza, mantiene il livello di sonno e continua a svolgere tranquillamente (più o meno) il suo lavoro nel livello in cui si trova. Come il Maestro ci ha spiegato, il livello tende a mantenersi.
Dal punto di vista del livello di veglia, la coscienza mentre dorme non vede e sente “correttamente” quello che sta accadendo, poiché gli impulsi sensoriali vengono “tradotti” in un modo diverso da quello usato in veglia.

E qui sorge la una comprensione che mi colma allegramente di dubbio.

E se nello stato attuale di veglia o anche coscienza di se... se in questo livello di lavoro della coscienza, stessi facendo esattamente la stessa cosa? Anzi, mi correggo: sono certo che sto facendo esattamente la stessa cosa!

In questo momento, nel livello di veglia e anche in quei brevi periodi di coscienza di se, mi arrivano dati, dati dai sensi interni ed esterni, dati dalla memoria, dati “dalla realtà”; questi dati la coscienza li struttura in modo da mantenere il livello, in modo da poterli correttamente inserire in questo livello e continuare a svolgere tranquillamente (più o meno) il suo lavoro nel livello in cui si trova. Dal punto di vista della “coscienza superiore/oggettiva”, la coscienza in veglia non vede e sente “correttamente” quello che sta accadendo. Sto quindi strutturando tutte le informazioni che ricevo, a partire dal livello di veglia in cui mi trovo e quindi la coscienza non fra altro che rappresentare questi dati in modo che siano “comprensibili”, e “accettabili” nel livello di lavoro di veglia; in modo che non “perturbino” il livello di veglia in cui mi trovo. Dal punto di vista del “risveglio” sto, in tutto e per tutto, dormendo.

Di rado percepisco il reale in modo nuovo e allora capisco che ciò che vedo di solito assomiglia al sogno o al dormiveglia.
...
Quando ero realmente sveglio andavo ascendendo di comprensione in comprensione
...
La reale importanza della vita da sveglio si fece chiara in me.

Che esista o meno questo altro “livello di coscienza” (personalmente credo nel messaggio e che quindi esista il “vero essere sveglio”), comunque ho la certezza basata sull'esperienza, che quello che faccio è una strutturazione e che quindi la realtà non è “così” (se mai esiste un modo in cui la realtà “è”). Non è più una nozione studiata, compresa e accettata perché logica, funzionante e fornita dal Maestro. Ora ho la certezza inamovibile che la realtà in veglia è una strutturazione di dati (interni, esterni, dei sensi, della memoria, della struttura stessa), incompleti e dubbiosi, fatta dalla coscienza, utilizzando lo stesso meccanismo utilizzato durante il sonno, semplicemente ad un livello diverso. E questo innegabile fatto sento essere DETERMINANTE.

venerdì 22 aprile 2016

Io e niente

La coscienza è una struttura. Ogni fenomeno che si produce nella mia vita, influenza in qualche modo questa struttura. Per quanto lieve possa essere l'effetto di questo fenomeno sulla struttura (da “mi prude, mi gratto” fino a “è morto mio padre”), inevitabilmente la struttura ne risulterà modificata; la struttura prima del fenomeno e la struttura dopo il fenomeno, non sono uguali. Questo vuol dire che da quel momento in poi, qualsiasi fenomeno interagirà con una struttura leggermente diversa. Da cui ne deriva che “non si prova mai due volte la stessa sensazione”, semplicemente perché non è mai due volte la stessa cosa a provare una sensazione.

Non ci sono due momenti nella nostra vita in cui “siamo uguali”. “La tua vita pesa, i tuoi ricordi pesano, le tue azioni precedenti ti impediscono l'ascesa”. Ogni fenomeno psichico modifica la struttura. Ogni pensiero, ogni insogno, ogni decisione, ogni dubbio, (ogni atto mentale) modifica lo psichismo, depositando in memoria una struttura di dati articolata di percezioni, percezioni della risposta, livelli di lavoro, compresenze, stato della struttura stessa.

E tutto questo è “io”. Tutta questa collezione di registrazioni è “io”. E nonostante la struttura non sia mai uguale a se stessa, ne percepisco comunque una identità inequivocabile. E se quindi esiste questa identità inequivocabile, ma la struttura non è mai uguale a se stessa, cos'è che mi fa dire “questo è io”? Ci deve essere qualcosa di permanente, qualcosa che c'era prima del fenomeno e c'è ancora dopo il fenomeno, qualcosa che rimane, che non viene cambiato dal fenomeno, qualcosa che non fa parte della struttura o che tiene insieme la struttura senza esserne influenzato e che quindi mi fa dire che le due strutture sono “la stessa cosa”.

Ho una struttura. Poi ho un'altra struttura, diversa, molto diversa a volte. Entrambe le riconosco come “la stessa cosa”. C'è qualcosa in queste due strutture che è rimasto uguale a se stesso. Per vederlo, sposto tutta questa somma di registrazioni, questa cosa che “è io” e quando ci riesco, non mi rimane “niente”, perché se fosse “qualcosa”, si modificherebbe insieme alla struttura. Però questo niente esiste ed è ciò che non cambia. Allora dove sta l'inghippo? E' che questo niente non lo puoi localizzare, altrimenti si modificherebbe col corpo e sarebbe qualcosa. Non ne puoi parlare, altrimenti si trasformerebbe in un oggetto e quindi ne verrebbe modificato il registro nel solo “pensarlo”. Questo “niente”, che passa indenne tra i fenomeni, è “niente” per la percezione, solo perché la percezione non può percepirlo; è come dire che gli ultravioletti sono niente per la vista (e quindi per me), ma in realtà questo “niente” può modificare il corpo abbronzandolo.

Questo “niente” quindi non è un niente che “io” può percepire o di cui “io” può parlare. Io non è in grado, non ha gli strumenti per mettere in moto questi atti. “Niente” ha effetto su “io” ma “io” non può avere alcun effetto su niente. L'unica cosa che posso fare è spostare “io” perché niente si manifesti e vedere che effetto ha questo niente sulla struttura e quindi anche su “io”.

mercoledì 20 aprile 2016

La morte

L'immortalità
Lei s’immagina come si annoierebbe se fosse immortale? Le pare che con la mente condizionata che lei e noi abbiamo, le pare che sarebbe possibile un qualunque tipo di permanenza dopo la morte mantenendoci in questo stato? Se l’Inferno esiste, questo è l’Inferno.
Noi non diciamo nulla sull’esistenza ultraterrena, però diciamo che è una possibilità.
Perché no? Ed è una possibilità che può essere esplorata e che merita di essere studiata, ma abbiamo l’impressione che, comunque sia, se questa trascendenza esiste non può essere la semplice continuità della nostra struttura mentale attuale.” Silo - 1972


Ora. Questa cosa è interessantissima. Ho sempre pensato che l'immortalità dovesse essere automatica, per tutti. Perché se per essere immortale dovevo rispettare certe condizioni, superare certe contraddizioni... se ci fossero delle “regole”, dovrei interrogarmi su chi ha messo certe regole, come si sono date, chi è il giudice.

Chi è il giudice? Chi decide se devo essere immortale o no?

Forse c'è una risposta. Lo decido io. Io sono il giudice.

Immagino di morire in un momento di grande contraddizione, con la vita invertita, piena di ritorni contorti di risentimento e frustrazione, con la sensazione di futuro chiuso. Immagino che in quel momento mi si presenta la possibilità di proiettare nell'infinito, per l'eternità, quei registri, o qualcosa che sia “la proiezione di quei registri”. Sarei io il primo a rifiutare una tale forma di trascendenza. Sarei io il primo che, se non vedessi una possibilità di superamento di quella sofferenza, rifiuterei di proiettarla in eterno, di proiettare in eterno quell'assurdo. Sarà la Vita stessa a porre fine a se stessa.

Se al momento della morte, sento che non c'è una fine, che tutto sta bene, che la Vita (l'Essere, l'Intenzione) è proiettata nella crescita costante, senza limiti... se muoio mentre, tra una difficoltà e l'altra, ho la chiara sensazione che nulla potrà mettere un fine definitivo alla mia ascesa... se muoio mentre ho la convinzione che esistono ostacoli temporanei e non definitivi... se nel momento della morte percepisco che la mia crescita è certa e inarrestabile, non avrò paura di lanciare la mia mente verso l'infinito, poiché nulla fa veramente paura fino in fondo.

E allora, quell'azione immortale che tanto vado cercando, di cui tanto vado cianciando, sta anche in queste cose. Nel registro di inarrestabilità, di certezza, di fede assoluta che potranno “succedere” mille cose e mille ancora, ma che ognuna di queste cose terminerà nella crescita, nel suo stesso superamento. L'azione immortale è nella certezza che non c'è “un soffitto”; nella consapevolezza che ogni “tetto” diventa il “pavimento” su cui costruire la scala successiva; non c'è fine, non c'è arrivo, non c'è traguardo. C'è solo un eterno percorso di crescita e allora la morte diverrà solo uno dei tanti “trampolini”.

Che cos'è realmente la morte? E' il momento in cui fai una scelta importante. Sii pronto.

Chi sono? Ciò che guarda. Ciò che sceglie.

Dove sto andando. Verso la crescita. Verso il superamento dei limiti.

lunedì 18 aprile 2016

I sensi e la "realtà"

I sensi.
Mi siedo su quella panchina e osservo gli alberi ondeggiare al vento, in un magico scorcio di Villa Borghese; zone d'ombra tra gli alberi che sembrano antichi luoghi di preghiera. I piccioni zampettano incoscienti... in qualche modo tutto sta bene.

Ma come posso dire che quello che “vedo” è “come lo vedo”? Su quali basi affermo che ciò che percepisco è come lo percepisco?
Lo affermo perché do per scontato che se ci fossero alcune persone vicino a me, confermerebbero la mia percezione; in qualche modo percepirebbero ciò che io sto percependo. Già qui c'è il primo inganno. Non è vero. Anche solo fermandoci alla percezione, gli altri non percepirebbero affatto quello che percepisco io. Uno di questi “altri” potrebbe essere miope, l'altro daltonico, il terzo con un olfatto particolarmente sviluppato, uno sordo da un orecchio (già, sono tutte persone che conosco!!!), vedrebbero alcuni dettagli da un punto di vista leggermente spostato. Queste persone non percepirebbero affatto “ciò che percepisco io”. Devo quindi correggere e dire che: percepirebbero una serie di dati che, con alcuni aggiustamenti e basandoci solamente su certe forme e strutture, potrebbero essere paragonati al modo in cui io percepisco la stessa porzione di realtà; utilizzando quindi una certa soglia di tolleranza, io e gli altri affermiamo che le nostre percezioni del paesaggio in questione “coincidono”; riassumo questo nella frase “l'altro percepisce più o meno quello che percepisco io”. Senza contare la possibile esistenza di qualcosa non percepibile con i 5 sensi.

Ma... ci rendiamo conto? Ma di quale realtà stiamo parlando? E dove è decisa questa “soglia di tolleranza” che, superata la quale, ci obbliga a dire che le nostre percezioni non coincidono? E se in futuro l'essere umano sviluppasse la capacità di vedere gli infrarossi o gli ultravioletti? E se dieci persone mi vengono a dire che questa penna che vedo non solo non è blu, ma è anche di legno e non di plastica? Inizialmente penserei che mi stanno prendendo in giro. Poi penserei che sono pazzo. Quindi la certezza di ciò che percepisco è data dalla conferma data dalla percezione altrui, entro una “soglia di tolleranza”... e quando questi “altri” non ci sono, comunque credo in ciò che vedo (e credo che sia come lo vedo) perché ho fede che altri percepirebbero più o meno quello che percepisco io, dando per scontato che nel frattempo nessuno dei miei sensi abbia subito un danno, di cui non sono ancora cosciente, tale da rendere le differenze superiori alla “soglia di tolleranza”.
Mia moglie, quando era incinta, percepiva odori che nessun altro sentiva... C'erano? Erano “nella sua mente”? Il suo olfatto era più sviluppato per via di ormoni o altre alterazioni del senso? Quell'odore era quindi immaginato, o esisteva solamente per chi aveva un olfatto in grado di percepire a quei livelli? Un po' come i cani con il fischietto per cani?
E mi sono fermato ai sensi.

Cosa succede se faccio il passo successivo? Se aggiungo a questa già esistente e innegabile differenza di percezione, l'influenza dello stato d'animo, del tono generale del corpo, dell'insogno... in generale se aggiungo l'intenzione di chi percepisce?

Ho sempre pensato di avere la necessità di un nuovo linguaggio che mi permettesse di comunicare alcune cose. Mi rendo conto che prima di questo linguaggio, ho bisogno di dubitare molto di più. Così che, attraverso il dubbio, io possa porre più attenzione. Più attenzione a ciò che percepisco; più attenzione all'altro, a ciò che lui tenta di descrivere, a ciò che potrebbe sentire, volere, temere, cercare; più attenzione alla “realtà” in tutte le sue forme; più attenzione a me, a quello che penso, a come lo penso, al perché lo penso; più attenzione “dentro” mentre percepisco e faccio attenzione “fuori”.

A volte vivere mi sembra meraviglioso.

venerdì 15 aprile 2016

Frustrazione e Risentimento

Frustrazione e Risentimento.
Due parole da scrivere con la maiuscola. Due modi di rifiutare il passato, di non accettare il fallimento. 

La Frustrazione. Il desiderio di riconoscimento, il successo. La Frustrazione è la principale negazione della realtà. Di fallimento in fallimento. La Frustrazione si vince di Fallimento in Fallimento, superando le aspettative, superando l'esitismo, comprendendo il valore intrinseco dell'azione, di per se infinitamente superiore a qualsiasi esito. La Frustrazione si supera con il Tentativo.

Il Risentimento è il secondo modo di negare la realtà. Nasce dalla più radicata e fondamentale delle mie credenze: che le azioni degli altri mi facciano soffrire. Che la sofferenza esiste come una specie di magma cosmico che mi viene buttato addosso dagli eventi, dalle persone distratte o malvagie; dalla sfortuna, dall'energia cosmica, dagli dei. Utilizzare questa credenza è il più facile e dannoso dei sistemi per fuggire la contraddizione. Avvelena la mente e il corpo, introducendo un seme oscuro, che cresce rigoglioso di giorno in giorno, alimentandosi della mia paura di vedere “il peccato” e di vivere la Frustrazione. In breve non sono risentito con questo o quello, ma sono genericamente “Risentito”. E “il mondo” lo vedo attraverso il Risentimento.

Risentimento e Frustrazione sono profondamente legati. Non per niente il maestro li colloca “vicini” nel cammino della guida interna e ne “Il Paesaggio Interno” (“E nella frustrazione e nel risentimento si fa violenza al futuro per farlo curvare e spingerlo ad un ritorno pieno di sofferenza”). Servono Buona Coscienza, Fede ed Entusiasmo, per superare la Frustrazione e il Risentimento. Perché non si possono combattere, si possono solo superare; “salta al di là della tua sofferenza ed allora non crescerà l'abisso, ma la vita che c'è in te”.

Oggi ho imparato il potere di questa cosa: Entusiasmo. E' figlio della Fede e non può esistere vero Entusiasmo senza di essa. E' arma e scudo che usa la Fede. Attenzione, Fede ed Entusiasmo.

Deve esserti molto chiaro questo: tu non sei in guerra con te stesso. Comincerai a trattarti come tratteresti un amico con cui hai bisogno di riconciliarti perché la vita stessa e l’ignoranza ti hanno allontanato da lui.

mercoledì 13 aprile 2016

Libertà di scelta

Predialogo. Io do per acquisito l'innalzamento del livello di coscienza. E per “acquisito” non intendo che “ho alzato il livello di coscienza a sufficienza”, ma che la necessità di alzare il livello di coscienza è propedeutica alla libertà di scelta; al livello di vitalità diffusa, non c'è libertà di scelta, c'è solo il corpo e le necessità più grezze. Quindi è acquisito il fatto che, per parlare di libertà, è necessario partire dalla necessità di essere più svegli.

Un atto è veramente libero, quando ho la reale possibilità di compierlo o di non compierlo.
Quanto spesso mi capita di essere quindi libero? Quante volte, durante la giornata, ho la REALE opportunità di fare una scelta? 
Se una ipotetica scelta, pur possibile, non la prendo in considerazione perché le conseguenze sarebbero troppo fastidiose, troppo irritanti, posso dichiarare “libera” tale scelta? Posso dichiarare “libera” una scelta tra fare e non fare una cosa, se una delle due ipotesi, pur possibile, mi atterrisce per le sue ipotetiche conseguenze, tanto da essere praticamente impossibile che io faccia quella scelta?
Ma ragionando anche al contrario, se guardandoci dentro scopriamo la convinzione, la radicata credenza, che una ipotesi sia molto più vantaggiosa dell'altra, c'è libertà di scelta? Possiamo considerare “scelta” quando abbiamo una ipotesi che già nelle nostre convinzioni, è migliore dell'altra? Per dirlo dovremmo ragionare sulla radice di quelle convinzioni? Allora sarebbe l'avere o il non avere quella determinata condizione, l'atto libero, poiché una volta acquisita quella convinzione, il resto è conseguenza.
Una scelta per me è libera quando ci sono almeno due ipotesi ed entrambe possono essere seriamente prese in considerazione, e ripeto “seriamente prese in considerazione”. Ma basta questo? Non è una scelta libera se una delle due ipotesi, in fondo al nostro cuore, sappiamo che non la metteremo in pratica o se in fondo al nostro cuore siamo convinti che una delle due ipotesi sia più vantaggiosa.

E in base a cosa scelgo quindi, se entrambe le ipotesi appaiono applicabili? Se una è palesemente più vantaggiosa dell'altra, non c'è una reale scelta, si prende quella e basta. Se c'è una scelta è perché entrambe le ipotesi ci appaiono di egual valore. Si “analizza la situazione”, si “valutano i pro e i contro” di entrambe le ipotesi; ad un certo punto, una scelta ci sembra più vantaggiosa, ma rimane il dubbio, e facciamo un tentativo. Questo è un atto libero? 

Per essere un atto libero, deve esserci il dubbio? Senza dubbio, una scelta è già scritta nel nostro modo di vedere il mondo, nelle nostre credenze, nel modo in cui stiamo strutturando la realtà. E' quindi un atto libero dai condizionamenti solo un atto di cui dubitiamo? E non dico che “se dubito allora è un atto libero”, ma dico che “se è un atto libero, allora c'è dubbio”; condizione necessaria ma non sufficiente. Può essere davvero così? E allora in base a cosa ho scelto? In base ad una “sensazione”, parola però detta strusciando il pollice su indice e medio, con gli occhi leggermente all'insù, ed una faccia dubbiosa, perché sappiamo che “sensazione” in realtà non è nemmeno la parola giusta.

Questo mi porterebbe a dire che “la libertà è tentativo”. Questo richiede una certa “attenzione”, perché se non si è svegli, si può non vedere che una scelta è già insita nei nostri insogni (torniamo al predialogo quindi, ovvero senza coscienza di se non ci può essere reale libertà).

La libertà, o meglio la “liberazione”, è quindi una successione di tentativi? Il tentativo presuppone una possibilità di fallimento e dato che “coloro che portavano il fallimento nel cuore poterono cogliere la vittoria finale” mi sembra che ci siamo. E questo “tentativo” qui, nello specifico, diventa cosa? Un sasso lanciato nell'infinito, tendendo l'orecchio poi per sentire che rumore fa? Perché quando fai un tentativo di questo genere, stai decidendo in base a qualcosa di ineffabile e inafferrabile. Stai lanciando un atto da e per una zona inesplorata. Liberazione è quindi una serie di sassi lanciati nell'eterno? Lanciamo questi sassi nella speranza di sentire il suono dell'infinito.

lunedì 11 aprile 2016

Insogni e morte

Riflettevo in poco attenta e insufficientemente umile ricerca e ho divagato su un paio di cose

A cosa pensare tutto il giorno? Domanda strana. Ultimamente ho visto spesso gli insogni. A volte li vedo nascere e vedendoli nascere li vedo perdere immediatamente tutta la loro carica e assopirsi. Altre volte sono più forti e quindi continuano nonostante io li guardi; questo mi permette a volte di comprendere anche cose molto interessanti. Mi sono quindi trovato a divagare sulla divagazione, sul fatto che gran parte del mio tempo “non sono molto cosciente” di ciò a cui sto pensando e immaginavo un livello di coscienza tale da superare questo meccanismo degli insogni a raffica e mi domandavo: a che cazzo penso tutto il giorno? Se la mente non è occupata tutto il giorno a proiettare i suoi film sullo schermo, che cosa fa? Come si tiene occupata? Ero moderatamente divertito dall'inconsistenza di questa domanda, ma comunque impressionato dall'enormità dell'idea di una mente in uno stato come questo, possibile o no che sia.

La seconda meditazione era sulla frase “Non c'è senso nella vita se tutto finisce con la morte”.
Questa meditazione, ha portato a tutta a due riflessioni.
La prima è quella intorno a cui giro solitamente: se ad un certo momento io scomparirò, i miei figli scompariranno e anche i loro eventuali figli scompariranno, senza lasciare alcuna traccia, qualsiasi cosa io faccia è una divagazione, non può essere altrimenti, termina in un nulla di fatto, in niente, non esiste che per un fugace momento e quindi non esiste.
La seconda è un po' nuova, di oggi: se sto per mettere in moto un'azione, posso pormi due domande. E' una necessità? Se la risposta è si (e si può discutere di quanto lo sia veramente, ma la risposta congiunturale all'azione stessa e allo stato d'animo in cui sono), allora l'azione non può che essere portata a termine al meglio, prima o dopo (dovrò imparare a distinguere quando un'azione è veramente la risposta ad una necessità, ma questo è un altro argomento). Se la risposta è no, la domanda successiva è: se io morissi domani, portare avanti questa azione è di una qualche utilità? Avrebbe avuto senso? Ecco, questo mi pare parecchio importante. Rientra in quella ricerca dell'azione immortale su cui giravo tempo fa. Dare senso alla vita ha quindi a che vedere con la ricerca di qualcosa di eterno; qualcosa che possa includere anche tutti i sensi provvisori come parte di essa, come passi, tappe, distensioni o “divagazioni sul tema”. Includere la propria esistenza in un processo. Come disse un tipo in gamba, un'azione che possa considerarsi valida di fronte a qualsiasi incidente, sia esso anche la morte. Credo che questo abbia molto a che fare con una cosa detta dal Maestro

La Fuerza
Podemos ablar de la fuerza como una experiencia que se tiene como resultado de aplicar una técnica, come resultado de condiciones especiales y seria una forma de verla. Pero tambien puede ser un registro que empieza a aparecer con cierta frecuencia hasta que se vuelve constante y creciente.

Eso depende de la fe y la fe depende de mantener tu linea de accion en una direccion a pesar que te deprimas, de que te sientas debil o que te sientas sin energia, etc.

Si tu eliges un camino che te parece el adecuado y lo mantienes, el dia che amaneces deprimido lo mantienes, y el dia que tu novio te abandona, te engana y tienes un conflicto amoroso, lo mantienes y te la juegas todo en esa direccion, entonces irrumpe un fenomeno que se conoce come fe interna. Y ese fenomeno se manifesta como fuerza. Pero basicamente todo depende de que elijas una direccion y la mantengas lo que pase.

Ecco, credo che questa cosa che chiamai “azione immortale” sia proprio questo cammino, questa intenzione lanciata che mi fa dire “io vado là”, qualsiasi cosa “succeda”. Ultimamente mi sento molto vicino a questa cosa, come se, come dissero i Pink Floyd, fosse continuamente “out of the cornere of my eyes”, “but I cannot put my finger on it now”. E' sempre quel “un due tre stella” con me stesso.

venerdì 8 aprile 2016

Divagazione/Insogno sul trono

Il trono dell'insogno. L'insogno e la divagazione sul gradino più alto del podio attenzionale

Questo ho visto oggi. Ho visto che quello che percepisco, solitamente è marginale, secondario, contorno al mio stato d'animo, ai miei insogni, alle mie divagazioni. In pratica, percepisco cose, divago su di esse, intorno ad esse, oppure ancor più spesso aggiungo le percezioni a divagazioni e insogni già in atto. Ciò che percepisco, molto spesso, non è affatto nel fuoco attenzionale, non è “al centro”; ciò che percepisco viene semplicemente aggiunto (quando possibile, altrimento può essere anche ignorato o modificato per renderlo adeguato) a ciò che già sto facendo di mio, con il mio stato d'animo, con i miei insogni. Sembrerebbe quasi che molto spesso, ciò che percepisco è compresente, mentre l'insogno è l'unica cosa sempre al centro. Paradossalmente la divagazione è al centro, mentre “la realtà” è compresente.

Per questo, quando, per qualche secondo, vedo la realtà in modo diverso, il registro è tanto differente. Perché per due o tre secondi, sul podio sale qualcosa di diverso; a volte è il percepito, quando faccio esercizi di meditazione semplice; altre volte è l'atto mentale su cui medito, quando cerco di ricapitolare quello che mi è successo o che mi sta succedendo. In tutti questi casi la vera e unica differenza è però il motore, la spinta. In questi casi, ciò che spinge, è l'intenzione; ciò che è al centro del fuoco è qualcosa che ho scelto invece che qualcosa che “è successo”, che “si è imposto”. E' un registro molto raro, ma molto prezioso, perché mi rendo conto che spesso, anche quando ho l'impressione di “scegliere” il tema, non sto altro che aggiungendo un contenuto ad un insogno che già stava lavorando... per cui, quando succede questa cosa della scelta, mi sento per un istante euforico e spesso tutto ciò è accompagnato con la sensazione di “comprensione”, che a volte lascia anche una comprensione “terrena”, ricordata, applicabile immediatamente a qualcosa della vita densa, altre volte rimane come registro, come “sospetto del senso”

mercoledì 6 aprile 2016

Libero arbitrio

Il libero arbitrio non è altro che allegoria di un fatto:
L'essere umano è in grado di trasgredire le leggi “imposte” dalla natura. Non discuto su quanto sia giusto o sbagliato infrangere queste “leggi” (alcuni casi, come curare la febbre con le medicine è per me giusto, altri casi come far esplodere una bomba è per me sbagliato).
Evidenzio semplicemente il fatto che che l'essere umano può trasgredire quasi qualsiasi legge della natura. Alcune con semplicità, altre con difficoltà, ma alla fine, l'essere umano non è sottomesso a tutte le leggi naturali.
Ad alcune, attualmente, pare non potersi sottrarre (ogni corpo cesserà di muoversi), ma quello che è evidente è che l'essere umano non ha una natura immutabile, neanche in una singola vita.

Non esiste questa fantomatica "natura umana". 

L'unico modo per definire una "natura umana", è "la capacità dell'essere umano di cambiare la propria stessa natura".

Ogni volta che qualcuno ci dice che dobbiamo fare qualcosa o peggio "accettare una situazione" (personale o sociale) perché "è nella natura dell'uomo", sta semplicemente imponendo il suo punto di vista cercando di utilizzare un sistema superiore a cui non ci si può ribellare (la natura). L'uomo è naturalmente cattivo, naturalmente aggressivo, naturalmente questo e naturalmente quello. L'uomo è tutto questo e il suo contrario. L'uomo forgia la propria natura con l'intenzione e si piega o ci piega imponendo questa intenzionalità e chiamandola “natura”, tentando in questo modo di negare la nostra intenzionalità e quindi facendoci violenza.

Bene, gli stati, la società, l'economia, non sono leggi naturali e anche se lo fossero potrei ribellarmi ad esse, perché sarebbero comunque leggi create dall'uomo nel suo atto di "cambiare la propria stessa natura".
Si tratta di un confronto tra intenzioni, tra aspirazioni, tra credenze. La società, l'organizzazione in stati, l'economia, non sono “naturali” e quindi “immutabili” e quindi “conseguenze di inaffrontabili leggi dell'universo”.

Nella scienza (in fisica per esempio) è chiaro quando si fa un “modello” della realtà, e tramite esso ci cerca di spiegare la realtà stessa. Quando la realtà contraddice il modello, si dice che il modello rappresenta un sottoinsieme della realtà oppure si cerca di modificare il modello per renderlo più “realistico” possibile.

Con l'essere umano questo non viene fatto. Si decide che la sociologia e l'economia sono “realtà” scientifiche e non “modelli” e quando qualcosa non si adatta, è “disadattata”. Se non ti adatti alla società, sei un disadattato.
No! E' il modello ad essere sbagliato! Non rappresenta adeguatamente le necessità né le peculiarità dell'essere umano. Se l'essere umano soffre, il modello è sbagliato. Questo deve essere chiaro. Se anche un solo essere umano soffre, il modello di società è sbagliato, il modello economico è sbagliato e qualsiasi studio, sociale o psicosociale, che non lo riconosce, è sbagliato oppure è uno strumento di incarcerazione.
L'unica cosa “vera” è che l'essere umano soffre. 

Se crei sofferenza in coloro che ti circondano, stai sbagliando qualcosa. Questo sono tutti pronti a sostenerlo. Se fai del male a qualcuno, sbagli qualcosa. Evidente.
Ma se un sistema sociale crea sofferenza in qualcuno, ci si arrende ad una fantomatica “naturalità”, ad una non si sa come immutabile “società” che è quella che è perché è quella che è, in una sorta di autoreferenziale o ricorsiva definizione priva di qualsiasi fondamento. Siamo così convinti che l'essere umano debba soffrire, che esiste la “natura umana” e che questa sia “soffrire fino a morire”, che accettiamo una società che crea sofferenza, un sistema economico e sociale basato sulla violenza perché “è naturale”

Beh, io dico solo una cosa. Un par di palle.

lunedì 4 aprile 2016

Le credenze

“Tanto potente il fascino di ciò che credi che tu ne affermi la realtà anche se essa esiste solo nella tua testa”.

Una credenza, quella vera, quella in cui credi davvero, non è una cosa che descrivo come “Io credo che...”. No, quella non è una credenza, quella è un'ipotesi, poiché già dichiarando “io credo che”, ammetto che possa non essere in quel modo, che potrei sbagliarmi. E' un'ipotesi, o un futuribile.

Le credenze sono “verità assolute”. Sono quelle cose in cui credo appunto così tanto, da considerarle “realtà”. In un normale livello di coscienza è impossibile individuare una credenza. In un normale livello di coscienza, chiunque metta in dubbio una mia credenza, sta mettendo in dubbio la realtà o la mia capacità di percepirla; ha dei problemi di percezione o non comprende correttamente ciò di cui stiamo parlando. Il massimo che concedo ad un interlocutore del genere è che un giorno anche lui vedrà le cose come stanno. In un normale livello di coscienza, il fatto che “l'occhio infierisce più di quanto percepisce” non è tenuto in considerazione. Le cose sono come sono, e sono come io affermo che siano. Non considero che sulla credenza esista un punto di vista diverso.

Quando gli eventi (interni o esterni) ci mettono di fronte un fatto che mette in dubbio una credenza, che mette in dubbio “la realtà”, scatta una forma di autoconservazione che fa di tutto per alterare la percezione e l'interpretazione dell'evento, arrivando a preferire “l'errore di percezione” all'ammissione che la realtà non era tale. Quando poi, finalmente, gli eventi ci rendono impossibile negare ulteriormente, succede un disastro. Come si dice solitamente, “mi crolla il mondo addosso”. Ciò che avevo dato per assodato, per acquisito, per immutabile, si rivela non essere così. E inizio a chiedermi di tutto: “come ho fatto a non accorgermene prima?”, “ma sono sempre stato cieco?”, “era così ovvio!”. Non ero cieco e non era ovvio. Semplicemente ci credevo, avevo una credenza, vivevo con le mie rappresentazioni, convinto che fossero la REALTA'. 

In un livello di coscienza normale, non siamo in grado di vedere le credenze. Una volta acquisite, sono la base sulla quale tutto si forma, non c'è via d'uscita, non c'è possibilità di vederle, così come gli insogni e le motivazioni più occulte. In un livello di coscienza normale non esistono credenze, esiste solo la realtà.

E' per questo che mi riesce tanto difficile immaginare qualcosa di nuovo, fin quando non smetto di credere nel vecchio. Fin quando credo nel vecchio, il nuovo è solamente negazione della realtà.

Fin quando credo che a farmi soffrire sono gli altri, le situazioni, il caso, gli eventi, la sfortuna... fin quando credo queste cose, non posso superare la sofferenza. Se per superare la sofferenza devo fare qualcosa con la mia testa, significa che fino ad ora la sofferenza che ho provato l'ho provata perché ho fatto “qualcos'altro” con la mia testa. Per farlo, devo smettere di credere che gli altri possono farmi soffrire. Devo ammettere che gli altri possono fare azioni nobili o riprovevoli, ma che la sofferenza è l'effetto di un mio atto mentale, di una mia azione, di una mia interpretazione, di una mia rappresentazione. Per farlo devo smettere di credere che la sofferenza è causata dagli eventi, è la normale conseguenza di ciò che mi succede, e questo non è ammissibile.

In un livello di coscienza normale, “trattare l'altro come vorrei essere trattato” diventa “trattare l'altro come credo voglia essere trattato”.


“La reale importanza della vita da sveglio si fece chiara in me”

Svegliarmi è quindi imperativo. Meditare in profondità sulla realtà, da uno stato di coscienza più alto è determinante. Solo così, posso ogni tanto intuire l'insogno. Solo meditando in attenta ed umile ricerca posso di tanto in tanto “infrangere i miei sogni e vedere la realtà in modo nuovo”. “Meditare in profondità e senza fretta”. E non posso suggerirmi cose come “metti sempre in dubbio ciò in cui credi”. Per due motivi. Il primo è che rischierei la paralisi. Il secondo è che da un livello di coscienza normale non mi verrà mai di mettere in dubbio una credenza e non metterei mai tra le cose da “mettere in dubbio”, le mie credenze. E' come dubitare di avere le mani. Ce l'ho, sono qui, sono la realtà. La stessa cosa è per una credenza; non è tale, è la realtà. Nella mia mente, le credenze sono vere come le mie mani.
In attenta ed umile ricerca. 
Attenta, vuol dire con un livello di coscienza più alto, in coscienza di se. Sono principalmente nel non-senso e ho bisogno di svegliarmi.
Umile vuol dire sapendo di venire da uno stato di non-senso. Che fondamentalmente non so nulla.
“Qui si racconta come il non-senso della vita si trasforma in senso e pienezza.”
Quindi la vita ha un senso e il non-senso si può trasformare in senso. Le credenze possono essere infrante. Gli insogni possono essere visti. Ciò che faccio non è indifferente. Posso rimanere come sono o iniziare a meditare, in attenta e umile ricerca.

Come si fa?
Continuare a lanciare atti nel profondo tramite i nostri lavori, le cerimonie, la Forza. Con fede.
Continuare con la richiesta, quotidiana e ripetuta. Con fede.
Continuare a lanciare atti di unità interna, trattando l'altro come vorrei essere trattato. Con fede.
Meditando in attenta e umile ricerca sul messaggio. Con fede.
Cercando il sacro, in me e fuori di me. Con fede.
Ricordandomi che tutto ciò che faccio, lo faccio a me stesso. Qualsiasi atto lancio, lo lancio in me stesso.

Con fede interna. Senza negare ciò che a volte si è percepito. Lasciando che agisca, senza metterlo in lotta contro le credenze (tutto perde contro una credenza fin quando non s'indebolisce). Mettere senza fretta, altri pesi sull'altro piatto della bilancia, quello dell'unità. Con fede

Mi piace 'sta frase. Tutto ciò che faccio, lo faccio a me stesso.