giovedì 21 luglio 2016

Incertezza e Tentativo

L'incalcolabile valore positivo dell'incertezza.

Nulla posso ottenere se non riesco ad accettare la necessità dell'incertezza. Solo attraverso il tentativo e l'incertezza posso ottenere qualcosa di nuovo, qualcosa che non conosco, qualcosa che a malapena posso immaginare.

Ogni passo evolutivo, che sia personale o per l'essere umano in generale, non è tale se non è accompagnato dall'incertezza, dal dubbio su ciò che sarà. Qualsiasi azione il cui esito è certo, scontato, sicuro, è un'azione che può anche essere positiva, buona, ma non porterà nulla di realmente nuovo. Mentre quindi porto avanti le mie buone azioni sicure, tento di connettermi con l'incalcolabile valore positivo dell'incertezza.

Quando l'incertezza si trasforma in concreto, quando l'incertezza diventa realtà e l'imprevedibile esito dell'azione viene svelato, di nuovo apro il mio cuore all'incertezza.


L'incertezza che spinge all'indagine
L'incertezza che vive nel tentativo
L'incertezza che obbliga a sperimentare
L'incertezza che apre il futuro

Senza incertezza, senza il dubbio, senza il tentativo, il futuro diviene una meccanica deterministica, un ripetersi ciclico di ciò che è stato.

Come posso imparare se leggo sempre solo ciò che già conosco?
Come posso migliorare se faccio sempre solo ciò che ho già fatto?
Come posso avanzare se cammino sempre sulle mie stesse orme?

Attraverso l'incertezza si accede al tentativo e nel tentativo c'è l'uscita dal ciclo infinito.

Quando mi connetto con l'essenza delle cose, nulla può farmi veramente male. Vedo tra le nebbie della coscienza addormentata, la gioia del tentativo, l'ebbrezza dell'incertezza, il sapore soave e spaventoso del del futuro veramente aperto, al cambiamento, all'innovazione, all'evoluzione.

Il gioco è quello di uscire dalla mia zona sicura. Accettare che il mondo è qua, tra le mie mani e che non posso controllarlo.

Più mi apro, più si apre
Più lo lascio, più ci compenetriamo

Futuro aperto è indagare dal mondo dell'incertezza nel mondo dell'incertezza.

martedì 19 luglio 2016

Preistoria della coscienza

Ci sono solo due metri di giudizio per misurare una vita.
Quanta serenità, gioia e pace hai alimentato intorno a te?
Quanta contraddizione e sofferenza hai proiettato intorno a te?
Il resto, TUTTO il resto, è fuffa.
La “realizzazione personale”, la carriera...
I soldi, gli oggetti, il prestigio.
Fuffa, tutta interminabile ed inutile fuffa.
Le persone intorno a te sono felici di averti conosciuto?
Quanti rimpiangono di essere finiti sul tuo cammino?
Questo conta, il resto è illusione dell'ego.
Quante ami veramente coloro che ami?
Quanto ti amano veramente coloro che ti amano?
Il resto lascia dietro di se il vuoto.
Per questo è un insulto alla vita che qualcuno patisca.
Che qualcuno soffra.
Che qualcuno non possa vivere perché troppo occupato a sopravvivere.
A schivare le bombe.
A piangere gli amati.
A nutrire i figli.
La vita, come ha sempre fatto, troverà il modo di superare gli ostacoli.
Quegli ostacoli una volta materiali e naturali.
Oggi sono intenzionali e sociali, mentali.
La vita troverà il modo.
E l'evoluzione seppellirà questo delirio nei libri di storia.
Libro: “Storia dell'evoluzione”
Sezione: “Archeologia e Coscienza”
Capitolo: “Coscienza prima del Risveglio”

lunedì 18 luglio 2016

Vivo nel futuro

Vivo fondamentalmente nel futuro.

Muovo la mano per prendere quel bicchiere, e la muovo perché nella mia coscienza c'è l'immagine di quando avrò il bicchiere in mano, perché prevede la distensione fisica di quando l'acqua in quel bicchiere sarà bevuta. Faccio quello perché succederà questo. Ogni atto, materiale o mentale, è frutto di una intenzione lanciata nel futuro, ha un obiettivo chiaro che non è qui ed ora, ma è in avanti, a pochi attimi da ora.

Più o meno posso paragonare questo all'atto del camminare. Camminare è un continuo sporgersi in avanti, sbilanciarsi in avanti, fino al punto che, se non metto un piede in avanti per sostenere il corpo, semplicemente cado. L'atto del camminare è un continuo sbilanciarsi, protendersi, cadere in avanti, per poi “salvarmi dalla caduta” per poi sbilanciarmi di nuovo. Intensione, tensione, rilassamento della tensione, ripetutamente, ciclicamente, ininterrottamente.

Questo fa la coscienza. Continuamente lancia atti protesi nel futuro, a pochi attimi da ora. Immagino una cosa, divago su una cosa, ma non lo faccio per caso, lo faccio perché c'è una intenzione, c'è una necessità; è un piede messo avanti per fermare una caduta, distendere una tensione.

Posso camminare ad occhi chiusi, mettendo più e più volte il piede in fallo, cadendo, facendomi male e rialzandomi. Oppure posso aprire gli occhi e cercare di capire meglio dove sto andando, se la strada è quella giusta, se il piede lo devo mettere qui o là. Non sono abituato a farlo, perché mi hanno insegnato che se pensi a quello che fai non sei spontaneo, non sei sincero, non sei “puro”. C'è differenza tra meditare sulla tua vita, su ciò che è stato fatto e ciò che c'è da fare, rispetto a rimanere paralizzato dalla paura e dalla vergogna di fronte alla scelta di fare qualcosa. Per uscire dalla paura del giudizio, ci si può anche buttare a capofitto, cercando di zittire la coscienza che ha paura con la forza, nel ciclo degli opposti. Oppure si può tentare di superare la dualità e agire cosciente di agire; cosciente che è un agire proteso, è un agire sereno anche nell'incertezza, agire anche con la paura ma senza scacciarla.

Cerco quindi di imparare a sentire come sto “qui e ora” mentre agisco per “dopo”.
Sembra che quell'apparente giochino sul fatto che “il passato non è più, il futuro non è ancora, esiste solo il presente”, per quanto affascinante, sia un po' banale. Il futuro esiste tantissimo, esiste fortissimo, io sono sempre là, proteso verso di esso: come si può dire che una cosa non esiste quando determina così fortemente il mio agire nel mondo, quando è essenzialmente ciò che fa si che io possa agire? “E' solo nella tua testa!” mi dico. “No, è nella testa di tutti!” mi rispondo. E si può dire di una cosa che è nella testa di tutti che è “solo” nella testa di tutti? Credo che non esista nulla di più reale di qualcosa che è nella testa di tutti.

martedì 12 luglio 2016

Le patate novelle

Oggi uso la dieta come allegoria del lavoro interno, utilizzando un evento reale avvenuto a me, qualche giorno fa.

Voglio perdere qualche chilo, quindi mi sono messo a dieta. Ieri sera, dopo il mio assolutamente insufficiente pasto, passando davanti alle patate novelle al forno (belle unte, succose e speziate) avanzate alla cena di moglie e figlie, ho pensato: “Beh, oggi sono stato bravo, pranzo moderato e cena frugale. Ora, una patatina novella, non può certo avere conseguenze significative sulla mia dieta; nell'economia delle calorie assorbite e consumate, non può in alcun modo una patata avere un affetto importante”. Per cui, ho mangiato un a patata novella, gustosa, saporita, appagante.
Poco dopo, mi sono alzato di nuovo, per andare a prendere una carota in frigorifero e passando di fronte alle patate ho pensato: “Beh, se ora mangio una patata novella, non cambierà certamente in modo determinante la quantità di calorie ingerite fino ad ora no? Cioè, una patata quante calorie, grassi e altro potrà mai avere?”
E ho riflettuto. Effettivamente è vero. Una patata novella, non può rovinare una dieta. E quando sei là per decidere se mangiare o no quella patata novella, il discorso è assolutamente corretto, quella patata non può avere conseguenze significative ed è assolutamente legittimo mangiarla senza alcun senso di colpa, senza alcuna paura di aver fatto chissà quale danno al mio progetto di dimagrimento. Ma una volta che la patata è mangiata, potrei ripetere questo discorso, perché oramai questa patata è stata mangiata e ora fa parte dello stato attuale delle cose, per cui posso ragionare su quanto una patata novella può influire... e ancora una volta la patata novella non può influire più di tanto. E in base a cosa questo meccanismo si dovrebbe rompere? Quante patate novelle devo mangiare prima di dire “oggi non ho fatto dieta”? 2? 5? 10? E una volta che avrò mangiato abbastanza patate novelle da “rovinare” la dieta di quel giorno, sarò contento?

C'è un solo modo per rompere questo schema, per non cadere nella trappola del pensiero ricorsivo, nel masochismo del farmi male un po' alla volta in modo che non me ne accorga: non mangiare nemmeno la prima patata novella. E quale giustificazione può dare la coscienza al non mangiare nemmeno la prima patata se in effetti, senza ombra di dubbio, quella patata non ha effetti significativi sulla dieta? Devo proiettare quella patata nel futuro. Immaginando di mangiare un bel corposo piattone di patate novelle e decidere se sarebbe cosa buona o meno. Perché nel piatto non c'è una patata, ce ne sono una ventina. La domanda che mi devo porre non è “una patata novella può rovinare la dieta?” ma dovrebbe essere “se adesso mi scofano tutte le patate novelle della ciotola, avrò inciso negativamente sulla dieta?”.

Questo ragionamento, è perfettamente applicabile al lavoro che faccio con me stesso, nel superamento di me stesso, nella comprensione di me stesso, nel cedere alle piccole tentazioni che mi allontanano da me stesso, quei piccoli gesti che non sono salutari per il mio processo di crescita personale e che giustifico con cose come “ma che male c'è a fare questa cosa anche solo una volta? E' un piccolo gesto, che non mi è utile e anzi mi è di danno, ma così poco, così minimamente, che me lo posso permettere”. Sia questo gesto un tiro di sigaretta, una piccola fuga in un momento di ispirazione, cedere brevemente alla paura.

Le piccole contraddizioni quotidiane sono come quelle patate novelle. Non ha alcun senso cedere alla tentazione. Ogni volta che succede non mi devo scusare con frasi come “va beh, è successo una volta, che male c'è”. Non dico tormentarmi con la colpa, ma certamente prendere atto di aver fatto un atto che non mi è salutare, non importa quanto poco, non mi è salutare e dire “questo non è stato un bene, non è stato salutare”. Immaginare le mie scelte proiettate e ripetute nel futuro è un buon sistema per ridurre le “cadute”. Il semplice sorgere della questione “questo non sarebbe un bene per me, ma essendo una piccola cosa, è davvero sbagliato farlo?” già di per se dovrebbe far sorgere in me la risposta “Non è salutare”.

lunedì 11 luglio 2016

Il mignolino e la sofferenza

Sbattere il mignolino sullo spigolo come allegoria della sofferenza.

Mi alzo, un po' rincoglionito dal sonno... SBAM! Il mignolino si devasta sullo spigolo del comodino. 

Un dolore inaudito, incommensurabile, inaccettabile; il mondo è finito, il dito è perso, per sempre... questo dolore non potrà mai terminare, è la fine di tutto, l'inferno. Come è possibile che le cose possano mai migliorare? Sarà mai possibile camminare di nuovo normalmente? Sentire altro che non sia questo dolore?

Saltello da un lato all'altro, reggendomi il piede... ma ho ripreso coscienza del mondo... ora il dolore, seppur immenso, è umano, accettabile, comprensibile. Non sono morto, ho semplicemente polverizzato il mio mignolino. So che un giorno questo tormento avrà termine. E' già successo prima.

Sparo sette otto bestemmioni di quelli fatti bene, catartici, mentre mi siedo sul divano, dandomi del coglione, massaggiando quel ditino, che fino a poco tempo prima avevo dato per finito, spacciato, perso. 

Il dolore rimane. Mi vesto e mi metto le scarpe, con attenzione, perché fa ancora un male boia.

Per qualche giorno faccio molta attenzione a quel comodino.

Passano i giorni, ricordo a malapena di aver sbattuto il ditino. 

A breve, l'oblio.

Ma se non sto attento quando cammino
Se non sposto quel comodino da quella posizione trappola
Se non ricordo quanto sono stato male
Se non ricordo come mi sono fatto male facendo attenzione a non ricreare quelle stesse condizioni
Se non faccio tutto ciò, sbatterò di nuovo il mignolo sul comodino.
E di nuovo il dolore, l'inferno, la fine del mondo, l'eterno tormento.

Se periodicamente su quel comodino 
sbatto con forza il mio mignolino,
è meglio che smetto di fare il cretino
e cerco di stare un poco attentino 
a quello che faccio quando cammino.

La sofferenza è come un dolore al piede. E' transitoria, o usando quel termine caro a Krishna e al Buddha, impermanente.

Questa intuizione, mi atterrisce, poiché implica che io debba abbandonare una serie di convinzioni che non solo non sono affatto pronto ad abbandonare, ma non ero nemmeno pronto a guardare, figuriamoci anche solo ipotizzare di metterle in discussione.

giovedì 7 luglio 2016

Ancora sul corpo

Riflessioni che seguono quelle di questo altro post

Il sorgere di una sensazione sofferente, è caratterizzato da un precisa collocazione nel corpo e anzi, possiamo dire che si percepisce proprio in qualche zona del corpo. E' dolorosa là, fa male là, è fastidiosa là.

Quello che però fa veramente male è l'identificazione con quella sensazione dolorosa. La sensazione dolorosa in se, non è veramente “sofferenza”: la posso osservare, soppesare, cercarne la radice, meditare su di essa. E questo è bene fare; vivere la sofferenza non come identificazione, non come “io sono questo”, ma viverla per comprenderla e non per risolverla, perché se cerco di risolverla, entro nel circolo degli opposti, della compensazione... ho paura e mi dico “affronta la paura, sii coraggioso” e fuggo quindi da quella paura, nascondendomi nel coraggio... invece se ho paura posso fermarmi, guardare la paura, sentire la paura, comprendere la paura, stare con la paura, senza essere la paura, senza dire “io sono questo”, ma dicendo “sto osservando questo”. In questo modo la sofferenza diventa qualcosa che mi riguarda, ma che non mi distrugge, non mi paralizza, non mi atterrisce. Improvvisamente ne percepisco la transitorietà.

Se invece penso di essere quel dolore, quella sensazione dolorosa... quando credo veramente che “io soffro”, allora quella sensazione sofferente inizia a permeare lo sguardo e attraverso lo sguardo permea tutto, e il dolore diventa insopportabile, eterno, angoscia, ansia, rabbia e violenza. A quel punto cosa non farei per uscire da lì? Qualsiasi bugia mi posso dire me la dirò. Creo quindi illusioni, menzogne, insogni, con l'unico scopo di allontanarmi dalla sofferenza, non vederla, non sentire  più quel dolore.

Osservo quindi la sofferenza nel corpo, osservando il corpo lì dove soffro, osservando il punto medio dove tutto si manifesta, senza pensare “io sono questo”, poiché correttamente penso “lì si manifesta” e non “lì sono”. E' l'io che tende ad essere quel dolore, perché è sempre l'io che vive identificandosi nelle cose ed è sempre l'io che pensa di essere il corpo, nel corpo. Ma l'io è transitorio, illusorio. Io sperimento, l'io soffre.

La lingua batte dove il dente duole.

lunedì 4 luglio 2016

Il corpo e le tensioni

Questo post nasce come mail inviata ad un amico, per questo il linguaggio è un po' atipico.

Pensavo al corpo. Pensavo che qualsiasi pensiero, clima, idea, contraddizione, allegria... qualsiasi atto mentale (unitivo o contraddittorio), qualsiasi processo mentale io metta in moto, si manifesta o lo registro in qualche parte del corpo. Che si parli di una tensione addominale, una distensione delle spalle, un senso di oppressione al petto, una leggerezza totale del corpo... qualsiasi cosa, si manifesta o lo registro come una sensazione fisica nel corpo. 
Il tutto "ha nel mio corpo il suo punto medio" dell'esperienza "La morte", lo interpretavo come "strumento di azione", ma "tutto" significa appunto "tutto", non solo ciò che va fuori, non solo "strumento dell'intenzione", ma anche ciò che va dentro, ciò che è dentro, ciò che va da dentro a dentro, da dentro a fuori, da fuori a dentro.

Non ho però capito una cosa. Perché? Ti esprimo le mie considerazioni, in modo che tu possa apprezzarne la profondità e la genialità, facendomi i dovuti complimenti e ringraziandomi per averti aiutato nella tua ascesa :-D

Sono "rappresentazioni". Ieri, durante la giornata, avevo avuto un forte conflitto, puoi immaginare quante tensioni stavano nel corpo; mi sono quindi potuto sedere e osservare i miei atti mentali, per una mezz'oretta. Ho cercato di seguire il processo di "creazione della sofferenza", di vedere quando il ricordo diventava dolore/tensione fisico, in quale momento le immagini si trasformavano in sofferenza. A parte il parziale fallimento (parziale eh, sia chiaro, così che tu non pensi che abbia fallito totalmente), ho avuto la doppia sensazione che la sofferenza si manifesta nel corpo e contemporaneamente si registra nel corpo. Provo a spiegarmi, anche se magari il tuo fine intelletto ha già capito (sono altruista, nutro anche un po' del tuo ego, mica solo il mio).

1) La sofferenza si registra nel corpo. 
Questo significa che io (chi? L'io? La coscienza? L'osservatore?) mi accorgo di soffrire perchè ho una qualche sensazione in qualche punto del corpo; sento quella sensazione di oppressione al centro del petto, la percepisco come molto sgradevole, quasi insopportabile... quindi mi accorgo che sto soffrendo.

2) La sofferenza si manifesta nel corpo.
La sofferenza, in quanto assenza di unità, in realtà non esiste, se non come un segnale di errore. La coscienza quindi deve fare in modo di cambiare ciò che sta avvenendo, deve "smettere di sbagliare". Quindi genera per se stessa una condizione di "sgradevole" per imprimere una spinta di allontanamento dallo stato attuale. Quindi invia ai centri di risposta la sensazione di oppressione al centro del petto

Ho quindi come la sensazione che la coscienza ha bisogno di comunicare a se stessa, ma essendo il corpo "il punto medio", lo utilizza generando una sensazione per se stessa. La coscienza "si dice le cose" usando il corpo, comunica con se stessa attraverso il corpo. Un po' come quando noi mettiamo per scritto i nostri pensieri così da averli meglio davanti per poterli analizzare. I pensieri sono già lì, li conosciamo, li sappiamo, ma scrivendo una lista li vediamo meglio.
Quindi "si manifesta e si registra" nel corpo diventa questo: l'atto della coscienza è quello di "manifestare la sofferenza come sensazione corporea", crea quella sensazione, ma nel nostro stato di coscienza "registriamo" la tensione, come se "ricevessimo" la sofferenza, come se la sofferenza "arrivasse". In uno stato di coscienza più alto, percepiremmo l'intero processo e quindi non avremmo la sensazione di "ricevere la sofferenza" ma ci renderemmo conto dell'intero processo e probabilmente non diremmo né che la sofferenza "si manifesta" né che "si registra", ma useremmo un altro modo di esprimere il concetto che ora non riesco ad afferrare.

Ecco: il corpo come quaderno degli appunti della coscienza. 

Eureka! Nel momento stesso in cui ho riletto il tutto per la terza volta in modo che fosse perfetto, ho compreso a cosa mi deve portare tutto questo. Una cosa di una tale semplicità che mi sbalordisco di non averci pensato prima (questo serve per non sembrare troppo sborone, così che tu possa apprezzare meglio la mia incredibile sapienza, visto che è condita da tale manifestazione di umiltà): devo ascoltare il corpo! Il corpo non è lì solo per "fare verso fuori", è "il punto medio", è "il quaderno degli appunti", è strumento interno ed esterno. Se voglio sapere cosa mi succede, posso partire dal corpo. Eppure gli esercizi "immagini libere" e successivi su autoliberazione, qualche "piccolo suggerimento" me l'aveva dato.
Lavorare in "coscienza di se" non significa solo "osservare gli atti mentali" ma anche sentire il corpo, perché le sensazioni del corpo non sono delle "concomitanti", sono gli appunti della coscienza, sono la coscienza che parla a se stessa, che formalizza, che rappresenta la sensazione interna della risposta

Ciauz