giovedì 29 settembre 2016

Ancora sul cambiamento

La mia coscienza è in struttura permanente con il “mondo”, inteso come insieme di tutti i possibili stimoli che può ricevere la coscienza (sensi esterni, sensi interni, memoria). 

Questa struttura è indissolubile. Sebbene didatticamente posso parlare di coscienza e di mondo come due entità distinte, nella pratica reale, questa distinzione non mi è possibile (quantomeno in questo livello di coscienza). Esiste solamente questa unica entità, che chiamiamo “struttura coscienza-mondo”. Non esiste coscienza, ma sempre “coscienza-di-qualcosa”. Non esiste stimolo ma solamente “coscienza che percepisce uno stimolo”.

Le conseguenze di questo sono immense.

Se intervengo sul mondo, intervengo sulla struttura, modifico la struttura e di conseguenza, inevitabilmente, modifico le sue componenti, modifico la struttura coscienza-mondo, modifico me stesso, la mia essenza più profonda. Ma cosa succede quando agisco sul mondo con l'intento di cambiarlo ma sono attaccato al mio “io” e non sono disposto ad abbandonarlo? Cosa succede se tento di cambiare il mondo ma rifiuto di cambiare me stesso? Si produce un momento di conflitto interno, di contraddizione profonda, di divisione tra conservare e divenire. La mia azione verso il mondo ha un'intenzione trasformatrice, ma questa trasformazione è possibile solamente se accetto in modo aperto che ogni modifica al mondo esterno è possibile solamente in concomitanza ad un cambiamento nella struttura stessa; se cambio qualcosa nel mondo, cambio la struttura coscienza-mondo e cambio per forza di cosa la percezione (l'immagine) che ho di questa struttura, di me stesso. 

Se rifiuto il cambiamento personale (per paura, conservazione, inerzia), mi oppongo all'evoluzione della struttura coscienza-mondo e mi oppongo alla stessa operazione di trasformazione del mondo che ho messo in moto. Questa è espressione della contraddizione, confusione nei desideri e nelle motivazioni. Una parte di me necessità un cambiamento, che si esprime attraverso l'insoddisfazione per una situazione “esterna”; un'altra parte di me si oppone a questo cambiamento per paura, contrazione, attaccamento, inerzia. Sono in conflitto con me stesso. Soffro.

Non c'è cambiamento possibile che non coinvolga sempre l'intera struttura. Qualsiasi necessità di cambiamento, che si manifesti come necessità interna o necessità di modificare una situazione esterna, può avvenire solamente attraverso un'azione coerente, in cui prendo atto della necessità di cambiare la struttura coscienza-mondo, ovvero un'azione che cambi me e cambi il mondo, poiché non esiste “me” e “il mondo” ma solo “me-mondo”. Essendo la mia maggiore resistenza quella di cambiare (ovvero accettare che c'è qualcosa che non va in me e deve essere migliorato, ovvero ammettere che non sono infallibile, ovvero “toccare” il mio ego smisurato), comprendo che la mia crescita passa attraverso l'imparare a lasciarmi cambiare, lasciare che l'azione mi cambi, accettare il cambiamento che naturalmente proviene da un'azione verso il mondo.

Ringrazio quindi con profondo affetto ogni situazione scomoda. Ringrazio la vita per il dono dell'insoddisfazione, per la gioia dello squilibrio. Ogni volta che qualcosa non va fuori, è una grande possibilità di mettere in moto un'azione coerente, evolvendo, superandomi, fallendo e riprovando. Ogni situazione scomoda è un segnale, un momento in cui quella fiamma profonda invia il suo messaggio di liberazione. Ogni cosa che voglio cambiare potrebbe essere una manifestazione del divino, che irrompe nello spazio-tempo e richiede l'azione trasformatrice, da cui la struttura esce trasformata, purificata, rinnovata.

Ogni volta che non sono felice, ringrazio l'opportunità che mi viene data per fare un nuovo passo evolutivo.

lunedì 26 settembre 2016

Il cambiamento

Non riesco a cambiare le situazioni che vorrei cambiare, perché non sono disposto a cambiare. Non sono disposto a rinunciare a ciò che sono, a ciò che identifico come “Riccardo”.

Io sono “le situazioni”. Non è possibile cambiare le situazioni senza cambiare me stesso e alcune situazioni richiedono un cambiamento profondo, l'accettazione di quell'impulso trascendente che vuole manifestarsi nel mondo.

Sento che si tratta quasi di un dover arrendersi all'evidenza, di un dover prendere atto di una verità scomoda, scomodissima, per l'io.

Nel silenzio si manifesta una luce. Una luce che è nella profondità della mia anima e che contemporaneamente è là, in alto, e tenta di guidare il mio cammino. Proietto questa luce pura nel futuro ma poi non sono disposto a seguirla, perché dovrei abbandonare quello che per tanto tempo ho chiamato “me stesso”. La luce si affievolisce e m'invade la nostalgia.

Comprendo con quanto amore posso guardare ogni situazione scomoda. Il prezioso dono che le situazioni portano fino a me: la necessità di cambiare e la direzione da prendere per il cambiamento. Il dono della vita.

La necessità di cambiare
qualcosa fuori non è altro che la manifestazione di una necessità di cambiamento personale. Ogni situazione scomoda è qualcosa di me che non va più bene, che non funziona adeguatamente, che messa nel modo in cui è messa non svolge la funzione che c'è bisogno che si svolta. M'illudo allora di sistemare le cose cambiando le cose, ma le cose non sono “le cose”; le cose sono io che faccio qualcosa con le cose, sono io che sono nelle cose, con le cose. Le cose non possono cambiare se io non cambio, se non abbandono, se non lascio andare.

Questa è una verità assoluta e ineludibile. Ogni volta che qualcosa non mi sta bene com'è, non posso far altro che meditare su ciò che devo cambiare in me. Tutto ciò è immenso e straordinario.

Nelle profondità della mia coscienza risiede un sapere antico. Questo sapere antico mi spinge a trasformarmi ma nessuna trasformazione sarà possibile fin quando non accetterò di essere ciò che sono e non ciò che ho sempre creduto di dover essere. Cambiare le cose non significa trasformarle in ciò che l'io crede che mi darà la felicità; cambiare le cose significa rifiutare la violenza in me e fuori di me, allontanare la contraddizione, il desiderio di possesso, l'attaccamento.

La vita ha un fluire armonico, fatto di nitidi e stupefacenti colori, di musiche appassionate. Quando stringo e contraggo i suoi si fanno stridenti e i colori opachi. Quando rilasso, i colori invadono il mondo, e gli inni si fanno entusiasti. Non sono i colori e la musica a cambiare.

C'è una forza poderosa che spinge per esprimersi. La sento nelle mani, la sento negli occhi, la sento nel petto. Quando rilasso e lascio andare, questa forza diventa calore e un'amore sconfinato per le cose invade la mia anima commossa e attonita. Questa forza si manifesta in ogni occasione esiste una emozione negativa: gli stati mentali negativi sono un dono prezioso che ci permette di superarli e superarci. Cercherò di non fuggirli più, ma di lasciare che la mia forza spirituale si manifesti in relazione a questi stati, nelle meditazioni e nelle azioni.

Avere ragione è sempre più sopravvalutato.

lunedì 19 settembre 2016

La sofferenza come insegnamento

No, non condivido chi dice che senza la sofferenza non si cresce e che si cresce solo attraverso il dolore. Una cosa è affermare che sbagliando s'impara, una cosa è che se non sbaglio non imparo. La differenza è la stessa che c'è tra dire che gli errori sono inevitabili e dire che gli errori sono necessari.

Però (si, c'è un però) la sofferenza può essere una grande maestra quando inavvertitamente ci facciamo intrappolare dalle sue spire. Non bisogna fuggire dalla sofferenza. Non bisogna pensare ad altro, non bisogna compensare facendo immediatamente e compulsivamente il contrario di ciò che stavamo facendo, allontanandoci dalla sofferenza in modo isterico.

Nella sofferenza c'è un grande insegnamento che però può essere utilizzato solamente se si fa un passo, all'inizio: bisogna comprendere, almeno intellettualmente, che non sono le cose a farci soffrire, che la sofferenza non “arriva”; bisogna comprendere almeno intellettualmente, ovvero ammettere che è una ipotesi plausibile, che la sofferenza è un segnale della coscienza di un processo psicologico erroneo e che quindi può essere superata modificando tale processo. Questa è una cosa che la coscienza fa istintivamente, a volte con più successo e a volte con meno successo e lo possiamo sperimentare nella nostra vita, ricordando che ci sono stati eventi che ci hanno fatto soffrire e che il solo ricordo ci faceva soffrire e che poi ad un certo memento non ci hanno più fatto soffrire. Non parlo di cose a cui non si pensa più, parlo di cose che anche pensandoci, non generano più sofferenza... magari una dolce nostalgia, una commovente allegria, non importa; quello che importa è che non ci straziano più il cuore in modo insopportabile... il processo psicologico associato a quell'evento è cambiato, la coscienza ha trovato un modo più sano di pensare a quella cosa... e non conta “è passato tanto tempo”, perché a volte le cose ci fanno soffrire inspiegabilmente per decenni, altre volte per molto meno.

Se si considera questa possibilità, si può stare con la sofferenza, senza scappare. Stando con la sofferenza, nel tentativo di comprendere da cosa nasce, quali aspettative sono state tradite, quali credenze sono state distrutte, quale immagine di me è stata rovinata, si ottengono due cose: per prima cosa si velocizza il processo di comprensione del meccanismo psicologico che ci porta a vivere l'evento come doloroso, si velocizza il processo di ricerca di “un modo più sano di affrontare il ricordo” (magari arrivando anche a generalizzare un “argomento”); in seconda analisi ci permette di memorizzare quali situazioni mi generano un maggior conflitto in modo da comprendere meglio quando ci stiamo avvicinando a quegli stati sofferenti e porre in essere un atteggiamento che non favorisca l'insorgere della sofferenza. In pratica ci permette di cambiare il modo di fare, cambiare noi stessi, cambiare il rapporto con il mondo; ci permette in certi momenti di dire “ricordo bene una situazione del genere e se metto lo stesso punto di vista della volta scorsa, finirò per soffrire”

Un errore che mi sono scoperto a fare è quello di cadere nella colpa. Comprendendo che la sofferenza non arriva da fuori, ma da dentro, mi sono scoperto a giudicarmi in modo severo, aggiungendo senso di colpa (nei confronti di me stesso) alla sofferenza. Questo ha il semplice effetto di rendere ancor meno sopportabile la sofferenza e ancor più difficile il suo superamento. E' quindi ineludibile un atteggiamento positivo, accondiscendente e benevolo nei propri confronti: sto già soffrendo, sto già pagando un prezzo più che salato per il mio errore; quello che devo fare ora è comprendere la radice della sofferenza per rendere sempre più difficile il riproporsi di questa situazione e rendere il più rapida possibile l'acquisizione di un punto di vista corretto.

lunedì 5 settembre 2016

Avatar

Tempo fa ho visto di nuovo il film “Avatar” con le bimbe.
E' evidente il fascino di quel mondo fantastico, il sogno di essere quel tipo di creatura, con quella tale connessione con la natura da avere addirittura un organo apposito per fondere il proprio sistema nervoso con quello dell'animale che si cavalca, addirittura con gli alberi sacri. E' indubitabile il fascino di una ipotesi del genere e quanto potente può essere il “vorrei proprio essere una creatura del genere in un mondo del genere”.

In quel momento ho percepito chiaramente che lo sceneggiatore aveva comunicato una cosa a me. C'è stato un punto di incontro tra me e lui, un luogo comune, a cui tutti e due siamo di tanto in tanto in grado di accedere; una realtà che di tanto in tanto si esprime e la sua espressione è chiara e comprensibile per tutti, nessuno escluso. Ripenso quindi a tutti quei film e quei libri che hanno svegliato in me questa stessa sensazione di “capire l'altro” anche se mai incontrato. Penso quindi alla saga di Harry Potter, che non possono non leggere almeno una volta l'anno; al primo Matrix, al libro “Intervista col vampiro”, molti libri di Asimov, la Bagavad Gita, tanti e tanti scritti del Maestro e di vari altri maestri. Quella testimonianza di Alberto sul grande libro dell'Epicentro.

La radice comune, il senso delle cose, l'essenza più intima di tutto ciò che esiste. Più o meno coscientemente è solo quando ci connettiamo a questa cosa (o essa si esprime tramite noi) che entriamo veramente in contatto con l'altro. E' qualcosa di essenziale, qualcosa di identico in tutti gli uomini, qualcosa che non è ciò che vediamo, ciò di cui parliamo. Ha a che vedere con la struttura dell'esistenza stessa e non con ciò che noi interpretiamo della realtà. 

Non è il pensato e tanto meno il pensante. E' la struttura stessa del pensante-pensato. Perché le cose che vedo sono variabili e instabili, e dipendono dal senso che gli impongo in base al mio stato. Non è la coscienza, perché anch'essa è instabile e transitoria, oggi tesa su questo, domani rilassata su quello. E' proprio il rapporto tra la coscienza e il percepito, la struttura coscienza-mondo stessa che entra in contatto con un'altra struttura assolutamente identica, e che quindi capisco e mi capisce. 

Perché la mia coscienza è diversa dalla tua. I miei sensi sono diversi dai tuoi. Ma il modo in cui la coscienza si relazione con il mondo (interno ed esterno, che in finale sono una cosa sola) è lo stesso per tutti e forma una struttura così indissolubile, che diviene scolastico parlare di due cose (coscienza e mondo), poiché sono un'unica cosa, una struttura, assolutamente identica in tutti noi e a se stessa; questa struttura è la realtà, non i significati, non il significante, ma la struttura significante-significato, pensante-pensato, coscienza-mondo.

C'è una cosa in cui io e te siamo identici.

Entra in profondità dentro te stesso, io farò lo stesso in me stesso, lì c'incontreremo.