venerdì 25 novembre 2016

La luce è movimento

Gli stati positivi e quelli negativi

A volte mi sento in forma, positivo, attento, felice, sereno, cosciente, lucido

A volte mi sento in difficoltà, angosciato, triste, negativo, pesante, bloccato.

Quando sono luminoso, è il momento di spingere, di spingere forte, con amore, con energia, con risolutezza. 
Quando sono luminoso è il momento di cambiare, di sperimentare, che non vuol dire improvvisare. 
Quando sono luminoso è il momento di riflettere, ipotizzare, divagare, immaginare, supporre e agire.
Quando sono luminoso è il momento di non riposarsi, non stare, non fermarsi. 

Fraintendo troppo spesso il “godersi un buon momento” con lo stare fermi a contemplare il bello.
Il bello è movimento, azione, energia, fluire, divenire, tornare, gustare, accettare e cambiare. Ci si gode il bello con maggiore attenzione e maggiore energia, non fermandosi a guardarlo.

Quando sono oscurato è il momento di chiedere, ricercare, ritrovare, ritornare.
Quando sono oscurato è il momento di vivere, uscire, ricordare, accettare e comprendere la radice della sofferenza.

“Un mare calmo non ha mai fatto un marinaio esperto”

Quando sono luminoso, e mi trovo in quel luogo caldo e confortevole, in cui tutto sembra andare bene, non è il momento di sedersi e contemplare. Quello non è il sintomo di aver trovato qualcosa da contemplare, ma è l'effetto di una grande disponibilità di energia, di ispirazione. Quello che vedo non è un paesaggio reale, ma la traduzione visiva della sensazione di futuro aperto.

Quando ho energia libera, se mi fermo a contemplarla, questa lentamente si esaurirà e non avrò fatto nulla con essa. Quando mi sento grandemente ispirato, posso contemplare immobile la splendida sensazione dell'ispirazione, fin quando non si esaurisce come tutto ciò che è transitorio, rimanendo con nemmeno l'aria per respirare.

Oppure, quando ho energia libera, quando il mio paesaggio è fatto prati di morbido cristallo con fiori di gemme rilucenti, posso spingere il mio essere verso la luce, con allegria e forza, indomabile. Quando sono luminoso, ogni passo brilla sull'erba rilucente, tra suoni lievi, dolci e sempre più vicini. “Inesorabile nella sua ascesa come una colata lavica”.

Se quando sono sono luminoso mi muovo, agisco, tento, sperimento, cambio, allora tutto intorno a me s'illumina e mi accompagna.

Solo così potrò costruire i ponti d'argento splendente che mi serviranno quando i miei piedi saranno pesanti, le mi membra stanche e i miei occhi spenti.
Solo così potrò usare quell'energia per creare quella luce tra le mani che mi servirà per illuminare i miei passi quando la notte si farà scura e il cammino pericoloso.

La luce è movimento.

lunedì 21 novembre 2016

Tornare alla "realtà"

Le verità oltre oltre le teorie

Di tanto in tanto, bisogna tornare alla verità e per verità intendo ciò che io sperimento, indubitabilmente, su di me, in me. Il registro che ho delle cose, la sensazione che ho delle cose, il vissuto che ho delle cose. L'unica cosa certa, ovvero che “sento” ciò che “sento” e lo sento come lo sento.

Mi viene in aiuto prima il Buddha e poi il Maestro Silo. 

Il Buddha, tante volte interrogato su cosa ne è del Tathagata dopo la morte, ha risposto sempre elusivamente con qualcosa che somiglia sempre più o meno a questo:

Che viga la teoria che il Tathagata esista dopo la morte, oppure che non esista dopo la morte, oppure che esiste e non esiste dopo la morte, oppure che né esiste né non esiste dopo la morte, certo è che v'è nascita, che v'è vecchiezza, che v'è morte, che vi sono pene, lamenti, dolore, disperazione e mancanza di serenità, di cui già in questa vita io insegno a realizzare la fine

E il Maestro mi viene in aiuto che è poco, attraverso un discorso che non ricordavo, che in un punto dice più o meno

... È la sofferenza ciò che impedisce la più profonda espressione della mente. Non sono le domande né le risposte sulla questione di Dio e la trascendenza a risolvere la sofferenza. Per questo studiamo le tre vie della sofferenza e studiamo la radice possessiva della sofferenza, perché lì si trova la soluzione...”

E quindi, di tanto in tanto, vale la pena tornare alla radice, all'essenza delle cose. Al registro profondo che si ha dell'esistere, qui e ora, in questo copro e con questa mente. A quando soffro.

Il passato è ora perché lo sperimento ora, qui. 
Il futuro è ora, perché lo sperimento ora, qui.

Vale quindi la pena tornare, di tanto in tanto, su cosa sento io, qui, ora, riguardo le cose del corpo e della mente.

Vale quindi la pena tornare a sperimentare con attenzione le tre vie della sofferenza. Il ricordo, la sensazione, l'immaginazione. Vale la pena meditare in profondità su ciò che sento, come lo sento, quando lo sento. 

Senza volere o non volere questo o quel risultato. Semplicemente medito, in attenta ed umile ricerca, sulla realtà indubitabile di ciò che sento.

Lo mas importante

Non c’è registro(*) della trascendenza; non c’è registro di Dio. Forse tutto è trascendenza e tutto è Dio, e per questo, precisamente, non c’è registro. Per questo, se qualcuno ci dice che c’è trascendenza e c’è Dio, gli diremo che questo va bene; se qualcuno ci dice che non c’è trascendenza né Dio, gli diremo che questo va bene. In entrambi i casi diremo che va bene non per via della prova, bensì della credenza: tale è lo stato della questione e l’atteggiamento aperto della mente. E se osserviamo la mente stessa, dove sta essa? Solo nell’intelligenza umana? Se questo è così, che significato ha la sua apparizione tra le cose naturali? E se la mente non si trova solo nell’intelligenza umana, da dove sorge e fino a dove si estende? Dove sono i limiti? Forse negli individui, che appaiono come delimitati, come separati tra loro? Allora, come possono questi individui registrare la propria mente? Senza dubbio la mente è più interessante che la trascendenza e Dio. 
E per ciò che ci riguarda, osserviamo che a seconda delle condizioni che poniamo al lavoro della mente, essa si esprime con la sua maggior potenza o limitatamente. E questo è il nostro problema. È la sofferenza ciò che impedisce la più profonda espressione della mente. Non sono le domande né le risposte sulla questione di Dio e la trascendenza a risolvere la sofferenza. Per questo studiamo le tre vie della sofferenza e studiamo la radice possessiva della sofferenza, perché lì si trova la soluzione. Però la radice possessiva della sofferenza non è facile da estirpare, poiché in tutto si trova il possesso. E quando si comprende questo, si inizia a cercare il non-possesso… possessivamente. E colui che vuole non possedere, rimane anch’egli chiuso nel circolo della propria sofferenza; e colui che vuole non soffrire, soffre per questo stesso motivo.  
Noi studiamo le tre vie della sofferenza e la loro radice possessiva, però non cerchiamo di non possedere, perché anche questo genera sofferenza. Cerchiamo di comprendere, e di generare un nuovo atteggiamento. Questo nuovo atteggiamento si va generando per registri interni, non per valutazioni oggettuali esterne. Di conseguenza, riferendoci a registri interni che vanno dando luogo a un nuovo atteggiamento, non ci preoccupiamo di essere possessivi né di lasciare il possesso in noi, perché questo verrà dopo che si generi un nuovo atteggiamento o allo stesso tempo. Noi studiamo le tre vie della sofferenza e la loro radice possessiva, però non cerchiamo di non possedere, perché anche questo genera sofferenza. Cerchiamo di comprendere, e di generare un nuovo atteggiamento in base a registri di unità o contraddizione interna, e non in base a registri di possesso o non-possesso. Per questo, noi studiamo le tre vie della sofferenza e la loro radice possessiva e generiamo un nuovo atteggiamento liberatore quando, agendo, otteniamo registri di unità interna. 
E come produciamo simili registri? Forse valorizzando gli oggetti in modo speciale? Senza dubbio no. È qui quindi, sintetizzata, la dottrina sulla liberazione della mente. Se qualcuno mi chiede qual è la cosa più importante, gli dirò: devi comprendere le tre vie della sofferenza, che sono la sensazione, la memoria e l’immaginazione; devi anche comprendere la radice possessiva della sofferenza. E se mi chiede cosa deve fare oltre a comprendere, gli dirò(**):  
  1. Andare contro l’evoluzione delle cose è andare contro sé stessi.
  2. Quando forzi qualcosa per raggiungere un fine, produci il contrario.
  3. Non opporti ad una grande forza. Retrocedi finché non si indebolisce; allora avanza con risolutezza.
  4. Le cose stanno bene quando vanno insieme, non quando vanno separate.
  5. Se per te stanno bene il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, hai superato le contraddizioni.
  6. Se persegui il piacere, ti incateni alla sofferenza. Ma se non danneggi la tua salute, godi senza inibizioni   quando si presenta l’opportunità.
  7. Se persegui un fine, ti incateni. Se tutto ciò che fai, lo fai come un fine in se stesso, ti liberi.
  8. Farai sparire i tuoi conflitti quando li avrai compresi nella loro radice ultima, non quando li vorrai risolvere.
  9. Quando danneggi gli altri, ti incateni. Ma se non danneggi nessuno puoi fare quello che vuoi con libertà.
  10. Quando tratti gli altri come vuoi essere trattato, ti liberi.
  11. Non importa da che parte ti abbiano messo gli eventi, ciò che importa è che tu comprenda di non aver scelto nessuna parte.
  12. Gli atti contraddittori e quelli unitivi si accumulano in te. Se ripeti i tuoi atti di unità interna, niente ti potrà fermare.   
E questa è quindi la dottrina e la proposta precisa: studia, investiga, medita e comprendi progressivamente le tre vie della sofferenza e la loro radice possessiva, mentre vai generando in ogni istante un nuovo atteggiamento in accordo a questi principi.  In questo tempo siamo stati studiando e lavorando a un livello con le tre vie della sofferenza e la loro radice possessiva, però rimane per te la proposta di investigare, meditare e comprendere progressivamente mentre andiamo generando, istante dopo istante, un nuovo atteggiamento liberatore della mente.  

(*) Registro: è un termine usato molto nel Siloismo che può essere tradotto come “vissuto”, “vissuto interno”, “struttura complessa di percezioni/sensazioni mentali/emotive/fisiche relative ad un oggetto di analisi”. NdT
(**) “I dodici principi di azione valida”. E' importante comprendere che questi principi (indirizzi, suggerimenti su cui meditare e sperimentare, non regole o precetti da seguire con fede) vanno intesi come un unicum, e non separatamente. Analizzarne uno da solo può essere molto utile ma può anche portare a fraintendimenti se non si tiene sempre conto (in compresenza) degli altri 11. NdT.

venerdì 18 novembre 2016

Trattare l'altro come vorrei essere trattato

La difficoltà mi nasce quando questo concetto, che a livello astratto pare chiarissimo, deve essere messo in pratica nella vita quotidiana, in situazione pratica, o anche solo durante una riflessione su un evento realmente accaduto.

Chiacchierando con un mio caro amico, mi suggeriva un punto di vista che mi è sembrato molto interessante e su cui ho deciso di meditare.

Quando mi trovo in
una situazione che coinvolge altri, questi fanno cose, dicono cose, hanno atteggiamenti, pensieri, intenzioni, che generano movimenti e nuovi stati in me. Quando mi trovo in queste situazioni, quando sono influenzato dall'azione altrui tendo a dare una risposta agli stimoli e questa risposta tende ad essere meccanica, determinata dal mio essere in quel preciso istante, senza libertà, secondo la meccanica dell'adesione/rifiuto, il pendolo dell'opposizione invece che del complemento.

Qui nasce la riflessione del mio amico: quando mi trovo in questa situazione, se ho la fortuna e la lucidità di posticipare un attimo la risposta, posso pormi una domanda prima di agire: “se fossi io a comportarmi in questo modo con l'altro, se fossi io a dire esattamente queste cose all'altro, come mi piacerebbe che l'altro rispondesse?”. Non importa se nel nostro immaginario sono convinto che io non farei o direi quello l'altro sta dicendo o facendo (o ha detto o fatto), né è importante che siano cose che ci fanno piacere o dispiacere. L'importante è immaginare di agire verso l'altro come l'altro sta agendo verso di noi e immaginare quale risposta ci piacerebbe ci fosse restituita. E se non ho la lucidità di farlo prima, posso sempre pormi la domanda dopo: “se io avessi agito con l'altro come lui ha agito con me, come mi sarei sentito se l'altro avesse risposto come ho risposto io? Come avrei voluto che rispondesse invece?”. Meditazione semplice.

Se mi comportassi con l'altro esattamente come lui si sta comportando con me, come gradirei che l'altro mi rispondesse?”. Provo a immaginare l'altro che mi risponde come io stavo per rispondere. O provo a immaginare l'altro che mi risponde come ho già risposto se non ho saputo porre freno alla compulsione.

La meditazione su questo punto è molto profonda.

Se io facessi all'altro ciò che lui sta facendo a me, come vorrei che reagisse? Come vorrei che mi guardasse? Cosa vorrei che dicesse? Cosa vorrei che facesse o non facesse? E se proprio mi deve redarguire, come vorrei che lo facesse? Con quali parole? Con che tono?
Se io dicessi all'altro ciò che l'altro sta dicendo a me, come vorrei che reagisse? Come vorrei che mi guardasse? Cosa vorrei che dicesse? Cosa vorrei che facesse o non facesse? E se proprio mi deve redarguire, come vorrei che lo facesse? Con quali parole? Con che tono?

La meditazione su questo punto viene da molto lontano e porta altrettanto lontano.

E se non sono ancora in grado di agire con tale livello di libertà, uso questa meditazione nella revisione quotidiana.
Osservo ogni situazione che ho vissuto nel giorno, in particolare i conflitti: immagino i conflitti a parti invertite: “Se fossi stato l'altro, cosa avrebbe prodotto in me la mia risposta? Come avrei voluto che l'altro mi rispondesse?

La profondità di questa cosa mi può sfuggire facilmente. Non si tratta di una divagazione, così per fare. Si tratta di una riflessione molto profonda di cui colgo la portata solo quando mi soffermo abbastanza a lungo. Non è il mio solito pensare “devo trattare l'altro come vorrei essere trattato”, generico, lontano, “utopico”. E' qualcosa di terreno, reale, pratico, Sacro.

mercoledì 16 novembre 2016

La Luce e il Vero

Il pensiero

Il pensiero, l'emozione e il corpo, sono transitori. Nascono, crescono, muoiono.

Ma ogni creazione nasce dalla Perfezione che risiede nel Profondo della mia coscienza. E' da lì, dove risiede la Luce, il Senso, la Natura Buddha, il Regno dei Cieli, il Satori, che scaturisce ogni cosa degna di nota.

Ed ogni cosa degna di nota, entra nel mondo delle idee, degli insogni, delle illusioni, del transitorio, del mortale, del rappresentato. Ed entrando nel mondo del rappresentato perde la sua natura essenziale di verità indubitabile, per divenire percezione dubbiosa e illusoria.

Ed è qui che sta l'arduo compito del Ricercatore di Libertà, del Messaggero, del Bodhisattva. Osservare tutto ciò che esiste, ogni concezione e ogni rappresentazione della realtà, non come una realtà in sé, ma come riflesso del Sacro, ombra proiettata dalla Luce.

La realtà non è cosa da fuggire o inganno da svelare. 

La “realtà” è prodotta dalla Luce, dall'essenziale. Nella “realtà” c'è effettivamente ed inequivocabilmente il senso di tutto ciò che esiste, l'essenza più profonda delle cose.

Se anche siamo nell'impossibilità di concettualizzare questa essenza, in quanto non rappresentabile ma solamente “allegorizzabile”, siamo in presenza del Senso con il semplice atto di esistere, di pensare, di percepire.

Ogni gesto diventa quindi insegnante di realtà.
Ogni pensiero diventa quindi prodotto del Sacro.
Ogni emozione diventa quindi specchio dell'Infinito.

Se voglio intuire l'infinito, devo conoscere a fondo il finito.
Se voglio essere libero, devo conoscere a fondo il mio determinismo.
Se voglio la pace, devo conoscere a fondo la violenza che è in me.

In ogni fenomeno sperimentato, c'è la Verità che tenta di esprimersi. Tutto è il Sacro che si esprime e la coscienza che goffamente lo rappresenta. 

Accetto il fatto che ogni concezione è un' elaborazione della mente di un prodotto del Sacro. 

Imparo quindi a distinguere la concettualizzazione dalla radice, il Senso dalla spiegazione, l'allegoria dalla rappresentazione.

Nulla di ciò che “vedo”
è vero, ma tutto ciò che “vedo” è prodotto dal Vero. Ecco un cammino che riesco a comprendere: imparare a distinguere ciò che “vedo” da ciò che ha prodotto ciò che “vedo”. Comprendere che “osservando” con attenzione ciò ciò che “vedo”, posso intuire ciò che lo produce. In ciò che “osservo” si nasconde ciò che è.

Il senso di tutto ciò che Esiste è in tutto ciò che “esiste”.

lunedì 14 novembre 2016

Intenzionalità

Una volta lessi una specie di intervista ad un mistico indiano... ricordo vagamente uno scambio:

Interlocutore: “Il mondo è pieno di fenomeni che non sono parte della mia coscienza.”
Intervistato: “Anche il suo corpo è pieno di fenomeni che non sono parte della sua coscienza, ma lei non ha alcun problema a riconoscere il suo corpo come “suo”. E' la mente che crea questa divisione tra fuori e dentro la pelle. Lei percepisce il mondo esattamente come percepisce il suo corpo, attraverso i sensi”

Rifletto su questo scambio. Tutto ciò che “guardo” è un “oggetto” di un “atto di coscienza”, essendo fondamentalmente la coscienza “intenzionalità”, un “coscienza-di” un “dirigersi-a”. E questo vale per qualsiasi tipo di “oggetto”; sia esso un albero, un tavolo, l'idea di amore, il sentimento di amore, il mio sentirmi in un certo modo, la coscienza stessa. Qualsiasi cosa su cui posso porre attenzione, diviene oggetto di un atto mentale; e questo atto mentale di “conoscimento/riconoscimento” è sempre uguale a se stesso nella sua forma più essenziale. Il mio atto di “dirigermi a”, di “essere cosciente di”, ha una forma ben precisa, con vissuti inequivocabili che sono sempre gli stessi quale che sia l'oggetto.

Questo significa che la coscienza percepisce tutto nello stesso modo, attraverso l'intenzionalità. Qualsiasi fenomeno, sia che noi lo definiamo esterno sia che lo definiamo interno, esiste come oggetto dell'atto di coscienza, che quindi non esiste in sé ma solo come complemento dell'oggetto, poiché la coscienza è intenzionalità, è “coscienza di”.

“Percepisco” l'intero universo (universo inteso come l'insieme di tutti i possibili oggetti a cui può dirigersi la coscienza e non solo quindi come semplice “materia”) attraverso l'atto di essere “cosciente di esso”. Per la coscienza non c'è reale differenza essenziale tra un albero, un atomo, una risata, l'amore, la morte, l'infinito e la coscienza; per la coscienza sono tutti oggetti-di-atti-di-coscienza. Mondo e coscienza esistono quindi solamente nella struttura “atto/oggetto”, nel preciso istante della strutturazione. Non esiste “coscienza in sé” o “mondo in sé”, ma solamente “coscienza che percepisce il mondo”... e questo “coscienza che percepisce il mondo” è quindi tutto ciò che esiste.

Questo in qualche modo impone un comportamento. Questo in qualche modo significa che ogni mio atto è un atto che parte dall'essenziale e finisce nell'essenziale, parte da me e finisce in me, parte dall'altro e finisce nell'altro. Questo sta alla radice dell'empatia. E' il motivo per cui se vedo un dolore sento un dolore. Questo è il motivo per cui posso sentirmi in imbarazzo per l'altro. Tutto sta nel decidere quanto vogliamo che questo processo sia automatico e biochimico e quanto una espressione della libertà, di ciò che non è coscienza, del caso, dell'incertezza, del tentativo. Posso considerare certo e indubitabile solamente il vissuto interno che ho delle cose, non le cose in sé.

L'unica cosa costante, il permanente, l'identità, l'essenza, è quindi il cambiamento, il divenire, ciò che non è ancora, poiché ogni “atto” modifica la struttura e quindi non c'è mai due volte una struttura “atto/oggetto” uguale alla precedente e l'essere “cosciente di” non parte mai due volte dallo stesso punto, non c'è mai due volte la stessa intenzionalità. Non mi bagno mai due volte nello stesso fiume.

Sono essenzialmente cambiamento. Sono essenzialmente divenire. Sono essenzialmente ciò che non sono ancora e quando lo divento non lo sono già più.

“Solo nella misura in cui sei capace di vedere qualcosa tale come è realmente, qui e ora
non come è nella tua memoria nel tuo desiderio o nella tua immaginazione,
potrai veramente amare”

venerdì 11 novembre 2016

L'essere umano

L'essere umano ha tradito, ucciso, incarcerato, mentito. L'essere umano ha deluso, falsificato il proprio pensiero, giustificato nefandezze, causato sofferenza, dolore, morte, disperazione.

L'essere umano a sorriso, amato, ballato e cantato. Ha cercato un luogo in cui vivere in pace ed in allegria.

L'essere umano ha corso grandi rischi, fallito in modo clamoroso, rincorso, ritrattato.

L'essere umano si è vergognato, è stato fiero, è stato orgoglioso e pentito.

L'essere umano si è risentito, ha ringraziato, ha pregato sinceramente per se stesso e per gli altri, ha pregato falsamente per gli altri.

E' stato egoista, altruista, sicuro, incerto violento e gentile.

L'essere umano ha riflettuto, meditato, compreso e frainteso. Ha ipotizzato, verificato, forzato, accettato e rifiutato.

L'essere umano ha sottomesso il più debole e ha combattuto in sua difesa, vita contro vita in difesa della vita.

L'essere umano ha pianto, disperandosi di capire.

In tutto questo, l'essere umano, non ha mai mollato, non si è mai arreso, non ha mai accettato definitivamente alcuna legge, alcun controllo, alcun dominio, alcuna schiavitù, alcun servilismo, alcuna realtà precostituita e immutabile. Anche nei momenti più bui, nel profondo dell'animo di questo essere assurdo, la brace della libertà e della ribellione, non si è mai spenta, il seme della rivolta ha sempre lentamente germogliato.

A dispetto di quegli esperimenti falliti che si son sentiti come Dei imbattibili ed eterni, la storia ha sempre trovato il modo di metterli da parte, nonostante i loro ritorni, nonostante l'attaccamento, nonostante la violenza, nonostante il potere, nonostante il dominio.

La verità si è sempre fatta strada, incerta, balbettante, insicura, ma indomabile, inarrestabile, come l'acqua che scava la roccia. Non ci sono legami, non ci sono galere, non ci sono gabbie, non ci sono legacci che la possano fermare a lungo. Prima o poi, la vita, si fa sempre strada nelle crepe della sicumera, negli anfratti dell'arroganza.

E proprio nei momenti più scuri, la luce dello Spirito esplode e acceca chiunque osi guardarla.

Cresciamo i nostri figli e prima o poi, dobbiamo smettere di guidarli, permettendo loro di fare i propri errori, trovare la propria strada, soffrire, far soffrire, perdonare e farsi perdonare.

Così la Vita, la Natura, o se volete chiamatelo Dio, a un certo punto hanno smesso di determinare tutto, di fare dell'essere umano l'animale meccanico di processi biochimici ed a questo punto, questa creatura indefinibile, ha iniziato a commettere i propri errori, ha soffrire e a far soffrire, a perdonare e farsi perdonare. Ha creato la frustrazione e il risentimento, ma anche la speranza e la musica.

L'essere umano soffrirà ancora. L'essere umano dispererà di capire. Falsificherà e farà violenza. L'essere umano commetterà ancora indicibili errori e orrori. Ma non mollerà. La Storia non finirà. La Verità non perirà.

Inevitabilmente, inesorabilmente, con la calma che è propria della Saggezza, la storia sarà Storia, la vita sarà Vita.

Non può essere altrimenti. L'intenzione umana va là. Il destino dell'Umano va là.

Ringrazio sentitamente tutti quelli che hanno vissuto nei momenti più difficili della storia e hanno sofferto l'oscurantismo del No. Ringrazio chi è stato costretto a combattere anche se avrebbe voluto vivere in pace ed in allegria, su un prato rigoglioso, con amici e sconosciuti. Ringrazio chi ha collaborato con la Vita per svegliarsi e svegliare. Ringrazio tutti coloro che hanno dedicato la propria esistenza al superamento del dolore e della sofferenza in loro ed in coloro che li circondavano.

Riconosco il valore di ogni singolo gesto. Riconosco il valore di un sorriso, di un gesto gentile, di un abbraccio, di una filastrocca sciocca. Riconosco il valore di una vita perduta e di una vita ritrovata. Riconosco il valore della libertà di essere ciò che si è. Riconosco che la maggioranza non crea la verità, ma la consuetudine. Riconosco il valore di una barzelletta e di una risata leggera. Riconosco il valore delle grandi riflessioni, della profonda meditazione e di una partita a carte.

Il destino dell'Essere Umano è inevitabile. Non è una questione di “se” ma di “quando”.

mercoledì 9 novembre 2016

Come medito

Come pratico la meditazione?

Chiudo gli occhi, rilasso il corpo e la mente ed aspetto. Aspetto che giunga un pensiero e ogni volta che giunge un pensiero, lo guardo e lo lascio andare dicendomi: “questo è un prodotto della mente; non è un male, non è un bene, è semplicemente quello che è, va dove va, fa quello che fa”.

Ripeto il processo. Una, dieci, cento, mille volte. Aspetto, arriva un pensiero, lo guardo e lo lascio andare. Ogni volta attendo un nuovo pensiero come se fosse una voce flebile difficile da sentire, come se fosse un sussurro che viene da lontano, dal profondo della coscienza, dagli spazi interstellari. Attendo un pensiero, questo arriva, lo guardo: “è un prodotto della mente, non è un bene, non è un male, è quello che è, va dove va, fa quello che fa”... e lo lascio andare.

Sorge una domanda. Pongo la domanda. Attendo la risposta, come se dovesse giungere da molto lontano. Arriva un pensiero, lo guardo, lo lascio andare.

In questo attendere una risposta da un luogo lontano... in questo aspettare un pensiero che sale dal profondo, lentamente, naturalmente, si produce una strana quiete, forse, a volte, non importa. Una quiete che la mente tende a riempire, perché la coscienza funziona così, riempie sempre; osservo e lascio andare, attendendo qualcosa che venga da ancora più lontano, da ancora più giù, da ancora più su. 

A volte si produce il Silenzio, che se lo guardo non c'è più, come il Tao. E nel silenzio, sempre sorgono domande. Cosa è la vita? Cosa è la morte? Io sono qua, il mondo è là, come funziona tutto questo? Come nasce questa separazione? Attendo una risposta, quando arriva l'osservo e la lascio andare.

A volte mi distraggo. A volte mi addormento. A volte un pensiero mi cattura e mi porta con se per lunghi viaggi, a volte interessanti, altre meno; quando me ne rendo conto, lo saluto amabilmente e lo lascio andare. Lo saluto amabilmente e lo lascio andare.

Sempre sorgono pensieri. Alcuni utili altri necessari, alcuni positivi altri inevitabili. Sempre sorgono pensieri. Questo non è un male né un bene, ma semplicemente ciò che è, l'essenza della mente, la meccanica più basilare della coscienza così com'è oggi. E come fa la coscienza ad intuire qualcosa che non ne fa parte? Come è possibile che io possa intuire ciò che non è coscienza, ciò che non è mente, ciò che non è pensiero? L'Assoluto è parte di me e lancia i suoi segnali. Quando produco la quiete, a volte la coscienza capta un segnale... e come ogni cosa, questo ha delle conseguenze, questo cambia qualcosa, perché qualsiasi cosa cambia qualcosa. Come se l'Assoluto cercasse di modificare la coscienza per potersi esprimere.

Le cose sono come sono e vanno come vanno.

lunedì 7 novembre 2016

Il "per me"

Ricordo un passo zen che mi fecero leggere che faceva più o meno così, e mi scusino coloro che ricordano le parole esatte

“Maestro, a cosa serve fare Zazen?”
“A niente! Fare Zazen è inutile. Se si potesse fare Zazen per ottenere qualcosa allora sarebbe davvero inutile!”

A parte la tipica forma paradossale dello Zen, sento che in questo passo si nasconde una grande verità. Chi non conosce bene lo Zen, può pensare che sia una religione puramente personale e intima, che ha a che vedere con se stessi e basta. Come espressione del Buddhismo Mahayana invece, il praticante Zen rinuncia al Nirvana qui e ora per aiutare altri a giungervi prima di lui. Il vero praticante Zen rinuncia al proprio tornaconto personale per un bene comune... per dirla nella “nostra” lingua, la sua missione principale è Umanizzare la Terra.

Ogni qual volta rinuncio a qualsiasi tornaconto personale, mi connetto con quegli spazi profondi in cui si trova il sacro di cui non si può parlare, che non si può descrivere e che può essere spiegato solamente attraverso il vago ricordo di sensazioni sperimentate.

La vita ha un senso. Anche se io non saprò coglierlo, anche se non potrò progredire, anche se non configurerò un doppio energetico e alla mia morte la mia essenza si fonderà di nuovo con l'universo, anche se non sarò immortale, anche se dormirò per tutta la mia esistenza, la vita ha un senso. Lascio continuamente parte di me nel fluire della vita, con ogni gesto, con ogni pensiero, con ogni sguardo.

Ogni mio atto cade nell'infinito e tramite esso si propaga oltre il tempo e oltre lo spazio. Per questo motivo, come dice il Maestro, come dicono anche gli Zen (e mi scusino se li definisco superficialmente in questo modo, cosciente che l'animo positivo saprà cogliere il mio profondo rispetto), vale la pena fare le cose con cura, con attenzione, “stare in ciò in cui si sta”, “essere nel qui e nell'ora”.

Le mie pratiche, le mie ricerche, sono un dono alla vita, un dono all'universo, un dono all'umanità. Quando non pratico per un tornaconto personale, quando non cerco di ottenere qualcosa per me, sento di essere parte di tutto ciò che esiste e ciò che faccio lo fa ciò che esiste a ciò che esiste. E' lì che so che le cose vanno come vanno e sono come sono e che quando le cose sono e vanno come vorrei, è più che altro un'intuizione di ciò che è, se sono sveglio, oppure un caso fortunoso, quando sono addormentato.

Accetto quindi con umiltà la mia assoluta imperfezione, la mia frequente incapacità di uscire dall'ego e dall'egoismo. Riconosco la violenza che è in me e il mio costante e spesso fallimentare tentativo di rifiutarla. Comprendo che spesso non tratto l'altro come vorrei essere trattato; spesso non riconosco nell'altro l'umano che si esprime, lotta, piange, si dispera, trionfa e gioisce; ammetto a me stesso che la mia strada è lunga e che in questa strada sarà costellata di errori e insuccessi.

Comprendo però, con verità interna, che di fronte all'inevitabilità della morte, alla transitorietà degli stati mentali, andando nel profondo di tutte le cose, nulla può farmi veramente male.

venerdì 4 novembre 2016

Aspettativa, Controllo, Illusione

La vita ci mette invariabilmente di fronte a situazioni di grande conflitto. 
Non rifletto oggi sulla misura di quanto questo dipenda da nostre scelte, da nostre ricerche. Rifletto oggi su come la mente configura la realtà in queste situazioni di grande conflitto.

Provo una grande frustrazione, un dolore fisicamente intenso al centro del petto. Il conflitto ricopre la coscienza, che viene risucchiata in quello stato allucinatorio.

L'aspettativa, il controllo, l'illusione. Questi tre argomenti oggi salgono alla mia mente. In realtà, quando mi connetto con la parte migliore di me, quando riesco ad abbassare un po' il rumore, sono in presenza dell'essenza delle cose e sento con chiarezza che nulla mi può fare veramente male.

Morirò... e di fronte a questa realtà ineludibile, molti dei conflitti mondani perdono il loro potere allucinatorio, tornando alla dimensione transitoria che gli è propria.

Cosa avviene invece quando non sono così lucido? Quando il potere dei conflitti è così grande da causarmi un dolore “fisico”?

L'aspettativa. Riempio la mia esistenza di aspettativa... immagino uno stato per una situazione e delego al raggiungimento di questo il mio futuro emotivo, il mio stato mentale. Credo con tanta forza che “se le cose stessero in un certo modo io sarei felice”, che quando inevitabilmente le cose vanno come vanno, scopro un vuoto e la compensazione del nulla.

Il controllo. Sono così concentrato sulla mia aspettativa e credo così fortemente in essa, che concentro una quantità spropositata di energie per appagare quella stessa aspettativa. Piego, forzo e nego l'innegabile pur di vivere quell'aspettativa, anche solo per un po' di tempo.

L'illusione. Credo veramente in quell'illusione. Sono assorbito da quella illusione. Sono così attratto da quell'aspettativa, da vedere solo ciò che la rende reale, da scartare qualsiasi ipotesi incongruente, da percepire la realtà come fosse proprio nel modo più propizio, in un modo che renda quell'aspettativa realizzabile, possibile... “ho bisogno solo di un attimo in più, di quel colpo di fortuna, dell'incastro di quelle cosette”.

Ma prima o poi torno all'essenza delle cose. Fortunatamente. 

Ci posso tornare per caso, attendendo che gli eventi e la coscienza mi obblighino a vedere ciò che non voglio vedere, in una turbine di frustrazione e “sorpresa”.

Oppure posso aprire. Aprire la mente al cambiamento e la coscienza al fallimento. Allargare lo sguardo in modo che comprenda ciò che non è, ciò che non sarà, ciò che è stato e ciò che può essere. 

Non posso individuare una credenza come tale fin quando ci credo, poiché fin quando ci credo per me è la realtà dei fatti. Ma posso tenermi aperto al fallimento. Posso quotidianamente meditare, in attenta ed umile ricerca, per intuire ciò che sta intorno a ciò che è, ciò che sembra non essere ma che in quanto intuibile non può che essere. Essere come possibilità, per quanto assurda.


Quando sento un grande conflitto interno, ritorno ad un momento di grande positività poiché non c'è modo di comprendere un conflitto se si è in clima di conflitto, se si è totalmente nel conflitto. Per fare questo devo superare un pudore di questi tempi che mi fa dire “stai manipolando il tuo stato d'animo!”. Certo che sto manipolando il mio stato d'animo e ringrazio di avere imparato a farlo. Non c'è nulla di male ad essere capaci di intervenire su se stessi per allontanare la sofferenza, poiché questo non significa ignorare un problema, non affrontarlo, o fuggirlo. Significa scegliere quale parte di se deve affrontare questo conflitto.

Quando tocco l'essenza più profonda di tutto ciò che esiste, nulla può farmi veramente male. Questa intuizione può proporsi con una forza tale da poter essere richiamata in qualsiasi momento e la fede in essa può veramente cambiare l'atteggiamento nei confronti della vita.

mercoledì 2 novembre 2016

Vedere in uno e in tutto lo stesso

Osservo questo disegno di Escher. Lo immagino proiettato in tutte e quattro le dimensioni, all'infinito.
Mi concentro su una delle salamandre.
Immagino che muova una zampa.

Mi rendo conto che il movimento di quella zampa provoca il movimento della zampa di una salamandra vicina, che a sua volta causa il movimento della testa della salamandra iniziale, una testa della seconda salamandra... una reazione a catena che si propaga di salamandra in salamandra, due, tre, cinque, cento, mille, centomila, un miliardo di salamandre cambiano posizione contemporaneamente... una coda si sposta, una bocca si chiude... 

Vedo chiaramente che il legame indissolubile tra le salamandre causerebbe una reazione a catena priva di una fine temporale e priva di un limite spaziale...

Il singolo movimento anche impercettibile di una zampa di una salamandra trasforma l'intero disegno in un mare in movimento, come una forma viva, come un infinito e interminabile frattale.

Questa è l'essenza di “Vedere in uno e in tutto la stessa cosa”.

La salamandra esiste, ma non esiste se non per effetto di tutte le salamandre. Tutte le salamandre non esistono se non esiste la salamandra. Io esisto perché l'altro esiste, mi definisce e lo definisco nel mio interagire con tutto ciò che esiste... l'altro è il mio contorno e io sono il suo contorno, ogni mio movimento lo muove e ne è mosso.

Esiste solamente la struttura di tutte le cose. Ogni fenomeno (ogni gesto, ogni pensiero, ogni atto) influisce su qualcosa che è indissolubilmente legato in struttura con altre cose legate in struttura con altre cose, fino all'ultimo atomo dell'universo. Ogni fenomeno cambia qualcosa e nel cambiare qualcosa cambia l'universo.

Questo sono. Sono una componente di questa struttura essenziale dell'esistenza. E come ogni componente sono fondamentale e trascurabile, influente e influenzato.... dipende da me. Mi muovo e questo movimento è sia volontario che involontario. Reagisco ai movimenti della struttura, causo i movimenti della struttura, subisco i movimenti della struttura, sono parte di questa struttura essenziale, fondamentale, minuscola e immensa.

E' la Vita che agisce sulla Vita.

lunedì 31 ottobre 2016

Strutture

Ogni cosa è in struttura con altre cose. Qualsiasi mio atto (che sia un atto mentale o un'azione diretta verso il mondo esterno) è frutto di un'intenzione più o meno manifesta; è frutto di un qualche insogno o di una qualche aspettativa. Questo atto si relaziona immediatamente con altri atti, con altre intenzioni (che siano intenzioni mie o intenzioni di altri esseri umani).

Si crea quindi una struttura di intenzioni, che s'influenzano l'un l'altra in un processo continuo inarrestabile, che va a formare una sorta di struttura universale che registro come “l'intenzione dell'umano”... e l'individualismo appare un'assurdità... ma anche la stessa individualità perde gran parte della sua inerzia.

Il superamento della sofferenza lo vivo quindi come un allontanamento dello sguardo dal particolare per percepire il generale. L'ampliamento della coscienza passa attraverso l'allargamento dello sguardo; allontano lo sguardo dal fenomeno per percepire la struttura di cui questo fenomeno fa parte; come interagisce con altri fenomeni, come si influenza con altri fenomeni. Si tratta di allargare il campo di compresenza?

Quel piccione zampetta in Villa Borghese, e il suo zampettare è in relazione con la terra, con i semi, con gli alberi e quindi con me che guardando quegli alberi e quel piccione sento qualcosa o qualcos'altro. Allontanando lo sguardo dal fenomeno, vedo la struttura. Quando percepisco la struttura di cui il fenomeno fa parte, chiudo la scatola, smetto di osservare i componenti della struttura e osservo la struttura che si relaziona con altre strutture.

Il lavoro diventa quindi quello di salire di livello in livello. Ogni volta che riesco a rilassare lo sguardo e a vedere i fenomeni in struttura, smetto di “osservare” i fenomeni e mi concentro sulla struttura, che diventa un oggetto della mia osservazione. Questo “oggetto” si relaziona con altri “oggetti” (li influenza e ne è influenzato), formando una struttura “di livello superiore”.

Di struttura in struttura, mi allontano sempre più dalla particolarità dei fenomeni, avvicinandomi all'essenzialità delle cose. Paradossalmente, più mi allontano, più vado a fondo. Tutto questo mi sembra in relazione su ciò che il Buddha definiva come distacco e anche con la rinuncia al controllo a favore dell'influenza (il controllo è il particolare e il determinismo, mentre l'influenza sono le strutture e la libertà).

A volte, succede che salendo di struttura in struttura, mi trovo in presenza di una struttura che comprende tutto ciò che è, ciò che può essere, ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che non può ancora essere. Questa intuizione è inconcepibile e non può essere afferrata dalla coscienza, poiché sono in presenza di qualcosa che contiene la coscienza stessa. In quei momenti di grande ispirazione, mi sembra come se la coscienza fosse uno strumento in mano ad “altro” e che questo strumento, ad oggi, non è completamente adeguato allo scopo: come se questo “altro” dovesse togliere viti con un coltello invece che con un cacciavite. Mi sembra che lo scopo di tutto il mio lavoro sia allora affinare questo strumento e renderlo il più malleabile, poliedrico e multifunzionale possibile; sento la grande necessità di lasciarmi cambiare da questo “altro” che risiede nel profondo della mia coscienza.

venerdì 28 ottobre 2016

Stare e divenire

A volte mi capita di essere soddisfatto di come sono, di avere la chiara sensazione di “aver raggiunto un ottimo punto”. Ho scoperto oggi in quale modo l'illusione s'insinui in questi momenti.

Non c'è nulla di male nel “sentirsi bene”, di pensare di “essere in una buona situazione interna e vitale”... anzi, è una cosa estremamente positiva, che è bene io accolga e ringrazi. L'illusione è quella di pensare che sia soddisfatto di una situazione statica, di essere soddisfatto “così come sono senza bisogno di cambiare altro”.

Questa illusione mi porta a pensare che potrei “fermarmi qui” e vivere così come sono per il resto della vita. Questa è l'illusione, questo è il mio fondamentale errore di calcolo, il mio fondamentale fraintendimento.

Quello di cui sono soddisfatto, la cosa che mi dà una grande fede nel futuro, non è lo “stato statico” in cui mi trovo... quella è un'illusione dell'io che vive e percepisce per fotografie, fotogrammi, privi della struttura temporale e dinamica dell'esistenza. Quello di cui sono soddisfatto, la cosa che mi fa provare quell'euforia “immotivata”, quella fede nel mio processo interno, è lo stato di evoluzione in cui mi trovo.
Sono appagato dal mio divenire e non dal mio essere. E' il mio stato di accettazione del cambiamento che provoca l'insorgere di quella sensazione di futuro aperto, quella sensazione di poter star bene in modo duraturo. Questo è apparentemente il paradosso: sto bene come sto, quando sono nel cambiamento, nell'evoluzione, quando non sono mai come ero, quando non sono come sono ma come sarò.

Come disse Ortega y Gasset
"Siamo ciò che essa [la vita] è e niente altro - però questo essere non è predeterminato, definito in anticipo, ma dobbiamo deciderlo noi.
[...]
Vivere è decidere costantemente cosa diventeremo. Non si percepisce il favoloso paradosso che questo contiene?
Un essere che più che essere quello che è, è quello che sarà; pertanto è ciò che non è ancora.
Questo essenziale e abissale paradosso è la nostra vita

Ogni volta che mi sento bene, il desiderio di permanere in questo stato in modo statico e immobile, è l'inganno che in breve si conclude nell'insoddisfazione di ciò che sono, perché non ero felice del mio essere ma del mio divenire.
Ogni volta che mi sento bene, se rimango presente a me stesso e comprendo che mi sento bene nel mio stato di instabilità, di evoluzione, di squilibrio verso l'alto, di mutamento e accettazione dell'inevitabilità dell'esistere proiettato sempre più su e sempre più avanti, non perdo questo “sentirmi bene”. Anche quando si presentano conflitti, mantengo il timone ben saldo.

Ecco il mio gioioso paradosso. Per continuare a “stare bene” devo smettere di essere quello che sono per essere ciò che voglio essere, istante dopo istante. Smettere di essere ciò che si è riusciti ad essere appena lo si riesce ad essere, per diventare ciò che si muove per essere ciò che non si è ancora. La vita ha un senso solo quando è in movimento, perché “senso” non è solo “significato” ma anche “direzione”. E' qualcosa che coinvolge il mondo, mondo in cui sono incluso e che includo, indissolubilmente.

mercoledì 26 ottobre 2016

Influenzare

Le cose sono come sono. Né come credo che siano, né come vorrei che fossero.

Controllare è contrarre. Influenzare è rilassare.

Controllare è violenza. Influenzare è amore.

Controllare è legato all'esito. Influenzare è legato alle possibilità.

Controllare è negare l'altro. Influenzare è affermare l'altro.

Controllare è piegare. Influenzare è aprire.

Controllare è due. Influenzare è uno.

Controllare è privare. Influenzare è accettare.

Controllare è voler cambiare. Influenzare è accettare il cambiamento.

Controllare è negare se stessi. Influenzare è crescere.

Controllare chiude il futuro. Influenzare non ha limiti.

Controllare ha una fine. Influenzare è eterno.

Controllare è miope. Influenzare va al profondo.

Controllare è illusione. Influenzare è risveglio.

Controllare è negare. Influenzare è comprendere.

Controllare è chiuso. Influenzare è aperto.

Controllare è frustrante. Influenzare è liberatorio.

Controllare è pesante. Influenzare è soave.

Controllare è “ego”. Influenzare è accettare di essere influenzato.

Controllare è illusione di perfezione. Influenzare è coscienza dell'imperfezione.

Controllare è credere di sapere. Influenzare è sapere di non sapere.

Controllare è pragmatico. Influenzare è intuitivo.

Influenzare significa agire nel mondo e verso i miei cari, proiettando nel “fuori” la parte migliore di me, accettando che quest'azione trasformerà gli altri in modi a me sconosciuti e contemporaneamente trasformerà me stesso. 
Influenzare accetta che le cose vadano come devono andare e che l'altro è altro. 
Influenzare è comprendere che agire fuori è agire dentro.
Influenzare significa affermare il mio amore per l'altro, per ciò che può diventare e a cui io posso dare il mio contributo in totale libertà; libertà per me di darlo, libertà per l'altro di farne ciò che vuole.
Influenzare è sperare il meglio per l'altro, sinceramente e apertamente.
Influenzare è comprendere che il meglio per l'altro è il meglio per l'altro e non ciò che io penso sia il meglio per l'altro.
Influenzare è naturale, lo si fa semplicemente esistendo e maggiormente agendo, è a costo zero. 
Essere coscienti della propria influenza ci sprona a diventare persone migliori, ad agire per il meglio, ad irradiare più luce.
Essere coscienti della propria influenza richiede la coscienza di non poter sapere come questa influenza agirà e quanto lontano arriverà, quindi presuppone assenza di controllo.

1. Andare contro l'evoluzione delle cose è andare contro se stessi
2. Quando forzi qualcosa per raggiungere un fine, produci il contrario
...
4. Le cose stanno bene quando vanno insieme, non quando vanno separate
...
7. Se persegui un fine, ti incateni. Se tutto ciò che fai lo fai come un fine in se, ti liberi
..
10. Quando tratti gli altri come vuoi essere trattato, ti liberi

lunedì 24 ottobre 2016

Controllo e Influenza

Continuo a pensare al lasciare andare.

Smettere di tentare di avere il controllo totale. 

Ci sono cose di cui non posso avere il controllo e ci sono situazioni che per mantenere sotto controllo richiedono di forzare, di piegare.

La domanda da porsi è: ne vale veramente la pena? E' una questione di economia. Per rispondere adeguatamente a questa domanda, bisogna porne molte altre ed tentare di essere veramente onesti con se stessi

Cosa voglio ottenere?
Cosa succede se non controllerò questa situazione?
A discapito di chi o di cosa va questo mio controllo?
Ci sarà un conflitto per ottenere questo controllo?
Questo conflitto, con chi o cosa è?
Quanta energia richiederà vincere questo conflitto?
Quanta energia richiederà convivere con gli effetti di questo conflitto?
Vincere o perdere sarà differente nella sua essenza?

Faccio un po' di silenzio. Inspiro profondamente. Espiro profondamente. Ancora. Ancora. Cosa si nasconde dietro questa necessità di controllo? Cosa si nasconde dietro la infondata certezza che le cose sarebbero migliori se si facessero, andassero o succedessero esattamente come dico io?

Per quanto io possa tentare di controllare tutto, le cose sono come sono e vanno come vanno. Tentare di influenzare il mondo che mi circonda ha un senso, tentare di controllarlo no. L'influenza è un'azione lieve, decisa, cosciente e possibilista perché non legata all'esito. Il tentativo di controllo è un'operazione pensante, contratta, attaccata al risultato, frustrante nel suo fallimento. Per influenzare devi connetterti con le cose e le persone, con ciò che sono e ancor più con ciò che possono essere. Per controllare devi spogliare le cose e le persone della loro essenza, e ti connetti con ciò che credi delle cose e delle persone, con ciò che vuoi che siano.

Inspiro profondamente. Espiro profondamente. Una, due, tre, dieci volte. Il controllo non può esistere nel silenzio e il desiderio di controllo non può esistere nella calma e nella pace. Nella pace esiste la propria influenza, la propria essenza e l'essenza delle cose. Nella calma, la propria influenza è paradossalmente forte quanto la propria rinuncia al controllo; nel connettermi con la parte migliore di me, intuisco che le cose sono come sono e tutto è parte di una struttura in cui sono incluso. Se tento di controllare, sono controllato, sono determinato, sono imprigionato nelle regole dell'ego e del prestigio. Se accetto di non avere il controllo, posso far si che la parte migliore di me si esprima... quella parte di me che non risponde alle regole, che sfugge alla dicotomia degli opposti, che non ha controllo perché non può essere controllata.

Divento testimone della natura più profonda dell'essere umano che illumina ciò che tocca. Divento testimone dell'incomprensibile essenza più profonda delle cose, che è tale solo quando non è concepita, concepibile, rappresentabile e quindi ne perdo l'essenza nel volerla possedere. Si tratta ancora di un lasciar andare, di un non controllare, di un vivere intensamente, con presenza di se, l'azione di ciò che non può essere controllato e quindi non può controllare.

Per un attimo ho la sensazione che tutte le cose andranno nell'unico modo possibile.

venerdì 21 ottobre 2016

Meditazione semplice

La coscienza di se non si esercita esercitando la coscienza di se.
Il semplice esercizio non ha la carica emotiva sufficiente.

Senza una motivazione profonda, una direzione evolutiva, un obiettivo chiaro (forse ha a che vedere con il proposito), esercitare la coscienza di se non produce grandi risultati.

La coscienza di se si produce solamente aumentando la disponibilità di energia psicofisica e questa disponibilità ho imparato ad aumentarla in due modi: aumentando la concentrazione (dell'energia) e diminuendo la dispersione

La concentrazione aumenta con il lavori con la forza, l'uffizio, il benessere, la richiesta.

La dispersione diminuisce risolvendo i conflitti, distruggendo le contraddizioni. Per ognuno si manifesta in modo diverso, ma come abbiamo imparato, le manifestazioni e le rappresentazioni sono transitorie, mentre la struttura e l'essenza è permanente. 
Nel mio caso si manifesta come "fuga dalla sofferenza". Grande quantità di energia è dedicata all'allontanamento della sofferenza, ma dato che allontanandola questa non sparisce, l'energia dedicata a questo lavoro è costante e si rinnova attimo dopo attimo, in un interminabile spreco di Forza che la coscienza potrebbe usare altrimenti. Nel mio caso quindi il lavoro consiste nel vivere la sofferenza, senza fuggirla. Osservarla, in modo aperto e accogliente; accettare la sua esistenza e ricordare che anch'essa è transitoria, una delle tante espressioni della struttura cose-complemento. Questo lavoro si riassume nel principio "Risolverai i tuoi conflitti quando li comprenderai nella loro radice ultima, non quando li vorrai risolvere".
Questo lavoro ha a che vedere con la meditazione semplice, è essenzialmente meditazione semplice. Osservare i conflitti e le inquietudini e avvicinarsi lentamente ("in attenta e umile ricerca") alla loro radice ultima.

In questo credo di aver capito quando Silo dice, nel materiale sulla meditazione trascendentale, "La meditazione semplice abilita la coscienza di se".

Mi scopro quindi sempre più spesso a praticare questa meditazione semplice non solamente la sera prima di "chiudere la giornata", ma anche mentre parlo con le persone, mentre faccio cose, mentre piego i panni, mentre carico la lavastoviglie e mi rendo conto che questa è la coscienza di se. Non uno stato di luce e miracoli, ma brevi momenti di lucidità che si ripetono ogni giorno con più frequenza e durante i quali una strana sensazione di "andando all'essenza più profonda delle cose e all'eternità del tempo, nulla può farmi veramente male" mi riempie di una serena allegria che pare non potersi mai esaurire.

Le contraddizioni altrui acquisiscono una dimensione più compassionevole, poiché vedo in quella il mio stesso incatenamento e il mio stesso determinismo. Io e te litighiamo e quando raccontiamo il nostro litigio, entrambi siamo perfettamente convinti di avere ragione... solo che avere ragione è incredibilmente sopravvalutato

mercoledì 19 ottobre 2016

Immagine di me

L'assurda perdita di energia nel difendere la propria posizione.

Che incredibile perdita di energia. Espongo un mio punto di vista e ovviamente, come succede quotidianamente, qualcuno mette in dubbio questo punto di vista contrapponendo il suo.

Quale futile esercizio inizia molto spesso in quel momento? Quanta energia perdo nel affermare con grande forza il mio punto di vista, che per me è la verità più vera? Per quale incredibile motivo ha per me cotanta importanza che il mio punto di vista sia riconosciuto come sostanzialmente corretto? E da chi poi?

Mi fermo, faccio un po' di silenzio e medito. Quanto spesso vale veramente la pena dedicare tanta e tanta energia nel difendere il proprio punto di vista? Faccio un po' di silenzio e medito. La risposta è: “Raramente. Molto raramente”.

Mi fermo. Faccio un po' di silenzio. Inspiro lungamente. Espiro lungamente. Mi connetto con la parte migliore di me. Mi connetto con il mio Campo di Bontà, con la mia Guida. In questo Campo e con la mia Guida vedo con più chiarezza tutta questa energia diretta e concentrata sulla difesa del mio punto di vista; sulla difesa dell'immagine che ho di me; sulla difesa dell'immagine che vorrei l'altro avesse di me; sulla difesa dell'immagine che mi sono convinto di mostrare e che sono convinto gli altri abbiano o debbano avere di me.

Inspiro lungamente. Espiro lungamente. E' questo che in definitiva faccio. Difendo un'immagine che ho di me. Quando mi connetto con la parte migliore di me e quindi dell'altro, quest'immagine non ha più reale importanza; si vergogna di se stessa e si defila in attesa che il mio sguardo torni a dormire. E ancora una volta vedo quanto “avere ragione” è veramente sopravvalutato. Scopro che il prestigio è sopravvalutato. Vedo con chiarezza che l'immagine che l'altro ha di me è un argomento che riguarda l'altro e che l'immagine che ho di me è frutto dell'illusione. Sono ciò che essenzialmente sono, ma come dice Ortega y Gasset, sono ancor di più ciò che posso diventare e quindi sono fondamentalmente ciò che ancora non sono e non l'immagine che ho di me.

Questo futile esercizio di convincere l'altro può quindi essere abbandonato. Questa energia dedicata a difendere il mio punto di vista può quindi essere diretta su altro. Se qualcuno mi chiede il mio punto di vista, lo espongo. Se qualcuno mi chiede altre informazioni, chiarisco. Se qualcuno contesta il mio punto di vista con il suo, cerco di comprendere a fondo il suo punto di vista. Tutto il resto non serve. Avere ragione non serve. Difendere il punto di vista non serve. Il riconoscimento non serve. Il prestigio non serve.


Avere ragione è sempre più sopravvalutato

lunedì 17 ottobre 2016

Coscienza di Sé

La coscienza di se è un esercizio quotidiano, che può essere mantenuto e portato avanti solamente se esiste una motivazione profonda, un centro dal quale si viene e verso il quale si va.

Mi fermo. Mi ricordo di esistere, qui e ora. Esisto. Non importa per ora cosa sia questo “io” che afferma la propria esistenza. Ciò che importa è che mentre affermo la mia esistenza, sia contemporaneamente cosciente di questa affermazione. Lo faccio e lo rifaccio, 10, 20, 100 volte al giorno. Mi distraggo, divago, torno a ricordare che esisto.

Perché continuo a farlo? Che senso ha questo esercizio?
Perché grazie a questo esercizio, a volte, mi rendo conto di alcune cose. Mi rendo conto del perché quella volta ho fatto quello che ho fatto, o perché ho risposto nel modo in cui ho risposto. Perché in questo stato non solo posso osservare quello che sto facendo e sapere che lo sto facendo, ma riesco in qualche modo a riflettere su quello che ho fatto e sulla radice incognita (della legge [s]conosciuta) secondo la quale tutto si muove.

Esercitare la meditazione semplice, tutte le sere, osservando ciò che si è fatto durante il giorno, i conflitti incontrati, gli insogni e le divagazioni che mi hanno influenzato, le scelte fatte e le scelte subite, acquisisce un nuovo valore se durante il giorno ho praticato con costanza la coscienza di se. 

Senza un centro di gravità, senza un progetto significativo, senza una direzione, esercitare la coscienza di se può trasformarsi in noia e frustrazione. Praticare la coscienza di se può essere solamente parte di una grande fede nel futuro, di una direzione certa, quella direzione che è lì, qualsiasi cosa succeda; il mio amico mi tradisce? Io vado là. Ho problemi con la mia compagna? Io vado là. Mio figlio non fa ciò che voglio o mi aspetto? Io vado là. Perdo il lavoro? Io vado là.

Questa direzione rompe l'illusione. Quando questa direzione si ripete, giorno dopo giorno, nonostante l'incredibile varietà degli eventi, la spettacolarità dei fenomeni, esterni e di coscienza, la microscopica particolarità dell'esistere, mi connetto con quella sensazione di transitorietà e di permanenza. Tutto è transitorio nella sua particolarità, nella sua espressione, nella rappresentazione che faccio delle cose; contemporaneamente tutto è permanente e immutabile dal punto di vista essenziale, strutturale. 

Colgo allora momenti di grande ispirazione, in cui tutto ciò che mi trascina come una giacchetta su una spalla a primavera, perde il suo potere illusorio e non mi fa più del male, le cose non sono più il mio nemico e a volte ne colgo la totale inutilità o essenzialità. Tutto mostra una nuova parte di se, come se il vetro opaco attraverso il quale guardo tutto, per qualche attimo fosse un tantinello più pulito.

Comprendo con verità interna, che la vita è un processo lanciato verso il futuro e che suo significato esiste solamente nel cambiamento che porta al risveglio. Che la vita ha un senso, inteso come significato, solamente se ha una direzione chiara, una direzione che nessun incidente, sia esso anche la morte, può cambiare. Quando, di fronte all'assurdo della morte, sento che la direzione che ho scelto non ne è sminuita, una forza poderosa sgorga dal profondo e una gioia incontenibile mi travolge... nel cercare di afferrarla, come il Tao, la perdo, e rimane una commozione profonda... e come sostengo da sempre, nella commozione c'è Dio.

venerdì 14 ottobre 2016

L'umanità e Dio

Ciao cari amici. E' con un certo pudore e un po' di vergogna che vi racconto di aver percepito un'intenzione “altra”, un'intenzione che esisteva prima di me ed esisterà dopo di me. 
Mi rendo conto che ammettere questa cosa mi è sommamente difficile, perché ho grande difficoltà ad immaginare qualche tipo di intenzione che non sia propriamente “umana” senza sentire il modo in cui per decenni mi è stato insegnato che questa cosa va sentita; senza immaginare quel dio, fatto in quel modo, con quelle leggi, con quelle caratteristiche, con quelle imposizioni, quella chiesa. Ho anche difficoltà a mettere la parola dio in maiuscolo, come se facendolo rendessi omaggio a quella chiesa che tanto disprezzo.

L'intenzione che ho percepito in realtà somiglia molto più al Tao di Lao Tze che a qualsiasi divinità “concreta” delle varie religioni, passatemi il termine, “-teistiche” di mia conoscenza. Ho sentito con irresistibile chiarezza questa intenzione, che posso paragonare al mare o al vento. Questa intenzione che, come il mare e il vento, non si cura delle singole barche; al mare e al vento non puoi chiedere di cambiare, di soffiare diversamente, di calmarsi; puoi opporti, vanamente, alla loro forza immensa, magari vincendo qualche battaglia, superando qualche onda, essere infine travolto da quella potenza, per poi ricominciare la battaglia; oppure puoi cercare di capirne il senso, la direzione, il funzionamento, e accompagnare quelle onde, quel vento, quel fluire immenso e possente, sentendoti finalmente libero vento in poppa e schizzi sulla faccia. Puoi opporti alle onde o usarle per muoverti velocemente più meno nella direzione di quella intenzione.

E' inutile pregare il vento e il mare di cambiare direzione. Puoi prendere energia dal mare e dal vento, puoi usarli se li senti, ma non li puoi “comprendere”... forse è un esercizio futile “parlarne” (di Dio non si può parlare, lo si può sperimentare). Questa intenzione è la forza stessa della storia, che ha sempre travolto qualsiasi epoca, ognuna delle quali si è sempre considerata “quella giusta, quella naturale, lo stato delle cose”. Ogni civiltà, ogni momento storico, si è sempre illuso di essere stabile, che le cose sono in un certo modo perché è naturale che siano in quel modo, ci saranno cambiamenti minori, ma “questo è Dio, questo è l'uomo, questa è la società, questa è la natura”... inevitabilmente la storia ha travolto questa granitica certezza e Dio, l'uomo, la società e la natura sono diventati altro. Inevitabilmente i pazzi di un epoca sono stati chiamati precursori illuminati dagli uomini dell'epoca successiva. 

Ma la storia, l'intenzione, non si è curata di questo. La storia ha travolto anche queste diatribe. Perché la storia non si cura più di tanto di Riccardo Coletta. E' Riccardo che può curarsi o meno della storia, contribuire o lasciarsi trasportare, anche opporsi, anche ritardando (se ha sufficiente influenza) per qualche misero secolo o anche millennio, l'arrivo del vento a destinazione. Ma quella forza primordiale, lanciata in qualche momento partendo da una qualche parte e diretta verso qualche altra parte, ha una direzione e nessuno potrà mai spostare quella spinta.

Questa forza storica, questa travolgente energia spirituale, ha fatto una cosa che mai mai avrei ritenuto possibile... e un po' mi vergogno a dirlo. Ieri, mi sono inginocchiato, poggiando la fronte in terra, e ho ringraziato. E non mi sono inginocchiato come ho sempre creduto che ci si inginocchiasse, ovvero per timore, per obbedienza, per reverenza. Mi sono inginocchiato perché ero commosso. Mi sono inginocchiato come si inginocchiano gli Zen, prima di fronte al seggio sul quale hanno meditato e solo dopo alla statua del Buddha, ringraziando per ciò che ha lasciato noi, per l'opportunità che la sua compassione ci ha concesso. Mi sono inginocchiato alla vita, a Riccardo, al Tao, a Dio, alla Morte, a tutti voi che contribuite giorno per giorno, ognuno a modo suo, alla forza storica che cerca la luce. Ho pregato come non ho mai pregato prima. E per un attimo, un'allegria immensa e incontenibile. Per un attimo, tutto era giusto e io ero giusto. Per un attimo, il sospetto del senso.

Vorrei ringraziare uno per uno tutti voi, che in un modo o nell'altro avete contribuito a che io fossi qui, ora, in questa situazione, a fare quello che sto facendo.

Ringrazio mio fratello, presenza indubitabile, colonna inamovibile
Ringrazio papà, che straordinario uomo
Ringrazio Raffa, più di15 anni insieme, ci vuole una lettera tutta per te, ma non esistono parole
Ringrazio mamma, follia di incomprensibile amore
Ringrazio Filippo, preoccupata compassione e tenerezza
Ringrazio Alberto, con lo sguardo altero/canzonatorio. Tanta robba.
Ringrazio lo Zio Eracle, improbabile amico dalle risate smodate, mai banali né inutili
Ringrazio Chiara, per “E mo basta!”, il De Lollis, eravamo piccolini, che potenza che sei
Ringrazio Emiliano, asceta sereno cosciente, che appare da lontano chiamato dal Senso
Ringrazio il Dibbi, impensabile e trasparente
Ringrazio Ruggero, concentrato delle virtù che vorrei manifestare
Ringrazio Sara, stella brillante
Ringrazio Alice, piccola piccola, grande grande
Ringrazio Cecilia, una spremuta d'amore forte, senza ghiaccio grazie, da bere piano
Ringrazio Roberto, delicato con tutto
Ringrazio Andrea, che te possino, che non ho mai visto vacillare nella tua fede leggera
Ringrazio Viviana, giunta da chissà dove per accompagnarmi in questo viaggio
Ringrazio Rita, custode di una grande emozione, sorprendente nella sua puntualità
Ringrazio Bruno, e il caffè ristretto, che a pensarti mi viene sempre tanta allegria con una lacrima
Rosa, Luis, il Maestro. 
Li dovrei nominare uno per uno, tutti. I nomi m'ingolfano la gola, le lacrime gli occhi. Camillo, Agostino, Paolo, Marco, Fulvi vari, Sandro, Alessandro, le Berarde e le Crocche, Chiara e Manuela Moncada bellissime da togliere il fiato, Emanuela, Stefania, le Federiche, Michele e Michele, Nenna, Alicia da cui ho dato il nome a mia figlia, Dario Ergas, Salvatore, GiovannaMiriam, Gianni, Betta, Kate, Lollo, Dario, Enza, Federico, Lorenzo, Marietto, Saed, Monica, Gianluca, qualche Claudio, Maria, Fernando, Laura, Loredana... voi e le vostre famiglie, i vostri amici, coloro che vi hanno reso ciò che siete per poi incontrare me... siete tantissimi... non c'è file né cuore abbastanza grande a tenervi tutti, a tenere tutto, a tenerne uno. Quanti nomi ho dimenticato. Quanti nomi non conosco nemmeno ma mi sono dentro comunque.
Vorrei che ognuno potesse sentire quanto sono grato, leggere quanto scrivo, che questo testo facesse il giro del mondo passando nelle mani di ogni essere umano che mi ha sfiorato. Quanto siete importanti dentro di me. Tutti e ognuno. Tutti i giorni.

Per ognuno di voi c'è un “quella volta lì” che non dimenticherò mai e che ha fatto di me ciò che sono.