Ricordo un passo zen che mi fecero leggere che faceva più o meno così, e mi scusino coloro che ricordano le parole esatte
“Maestro, a cosa serve fare Zazen?”
“A niente! Fare Zazen è inutile. Se si potesse fare Zazen per ottenere qualcosa allora sarebbe davvero inutile!”
A parte la tipica forma paradossale dello Zen, sento che in questo passo si nasconde una grande verità. Chi non conosce bene lo Zen, può pensare che sia una religione puramente personale e intima, che ha a che vedere con se stessi e basta. Come espressione del Buddhismo Mahayana invece, il praticante Zen rinuncia al Nirvana qui e ora per aiutare altri a giungervi prima di lui. Il vero praticante Zen rinuncia al proprio tornaconto personale per un bene comune... per dirla nella “nostra” lingua, la sua missione principale è Umanizzare la Terra.
Ogni qual volta rinuncio a qualsiasi tornaconto personale, mi connetto con quegli spazi profondi in cui si trova il sacro di cui non si può parlare, che non si può descrivere e che può essere spiegato solamente attraverso il vago ricordo di sensazioni sperimentate.
La vita ha un senso. Anche se io non saprò coglierlo, anche se non potrò progredire, anche se non configurerò un doppio energetico e alla mia morte la mia essenza si fonderà di nuovo con l'universo, anche se non sarò immortale, anche se dormirò per tutta la mia esistenza, la vita ha un senso. Lascio continuamente parte di me nel fluire della vita, con ogni gesto, con ogni pensiero, con ogni sguardo.
Ogni mio atto cade nell'infinito e tramite esso si propaga oltre il tempo e oltre lo spazio. Per questo motivo, come dice il Maestro, come dicono anche gli Zen (e mi scusino se li definisco superficialmente in questo modo, cosciente che l'animo positivo saprà cogliere il mio profondo rispetto), vale la pena fare le cose con cura, con attenzione, “stare in ciò in cui si sta”, “essere nel qui e nell'ora”.
Le mie pratiche, le mie ricerche, sono un dono alla vita, un dono all'universo, un dono all'umanità. Quando non pratico per un tornaconto personale, quando non cerco di ottenere qualcosa per me, sento di essere parte di tutto ciò che esiste e ciò che faccio lo fa ciò che esiste a ciò che esiste. E' lì che so che le cose vanno come vanno e sono come sono e che quando le cose sono e vanno come vorrei, è più che altro un'intuizione di ciò che è, se sono sveglio, oppure un caso fortunoso, quando sono addormentato.
Accetto quindi con umiltà la mia assoluta imperfezione, la mia frequente incapacità di uscire dall'ego e dall'egoismo. Riconosco la violenza che è in me e il mio costante e spesso fallimentare tentativo di rifiutarla. Comprendo che spesso non tratto l'altro come vorrei essere trattato; spesso non riconosco nell'altro l'umano che si esprime, lotta, piange, si dispera, trionfa e gioisce; ammetto a me stesso che la mia strada è lunga e che in questa strada sarà costellata di errori e insuccessi.
Comprendo però, con verità interna, che di fronte all'inevitabilità della morte, alla transitorietà degli stati mentali, andando nel profondo di tutte le cose, nulla può farmi veramente male.
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