L'azione valida

SILO - LAS PALMAS DE GRAN CANARIA, SPAGNA
29 SETTEMBRE 1978

INTERVENTO IN UN GRUPPO DI STUDIO



Qual è l’azione valida? A questa domanda si è risposto, o si è cercato di rispondere, in diversi modi, e quasi sempre rifacendosi al criterio della bontà o malvagità dell’azione. In altre parole, si è cercato di rispondere al problema della validità dell’azione facendo appello a ciò che fin dall’antichità si conosce come etica o morale. Per molti anni noi ci siamo preoccupati di raccogliere le diverse risposte su che cosa fosse morale e che cosa immorale, su che cosa fosse il bene e che cosa il male. Ma il nostro interesse fondamentale era sapere in che senso un’azione potesse essere considerata valida. Le risposte da noi raccolte erano di vario genere: religiose, giuridiche, ideologiche; ma tutte affermavano che bisognava fare le cose in un certo modo ed evitare di farle in un certo altro. Per noi era molto importante riuscire ad ottenere delle risposte chiare su questo punto: molto importante dal momento che l’essere umano si costruisce modi di vivere diversi a seconda della direzione che dà alle sue attività. Nella vita umana tutto dipende dalla direzione presa. Se il mio modo di pormi rispetto al futuro è di un certo tipo, il mio presente ne risulterà influenzato. Pertanto, le domande su ciò che è valido e ciò che non lo è, su ciò che è bene e su ciò che è male, non riguardano solo il futuro dell’essere umano ma anche il suo presente; e non riguardano solo l’individuo ma anche le collettività ed i popoli.
Dunque, per prima cosa abbiamo preso in esame le risposte di tipo religioso. Abbiamo così constatato che i credenti delle diverse religioni dovevano osservare certe leggi, certi precetti ispirati da Dio, che essi consideravano validi. Ma religioni diverse proponevano ragioni diverse a sostegno dei loro precetti. Alcune affermavano che non bisognasse compiere determinate azioni per evitare che gli eventi si ritorcessero contro colui che aveva compiuto le azioni stesse; altre raccomandavano di non compierle per evitare l’inferno. Spesso, poi, i precetti ed i comandamenti delle diverse religioni, che in principio erano tutte universali, non concordavano affatto tra loro. Ma in tutto questo l’aspetto più preoccupante stava nel fatto che moltissime persone, in tutto il mondo, non potevano, pur volendolo in buona fede, osservare tali precetti e comandamenti, perché non li sentivano, non credevano in essi. Era come se Dio avesse abbandonato i non credenti - che pure secondo le religioni sono anch’essi suoi figli - visto che non potevano osservare i suoi comandamenti. Una religione, però, è universale non perché occupa il mondo in senso geografico: lo è soprattutto perché occupa il cuore dell’essere umano, indipendentemente dalle condizioni in cui questi si trova, indipendentemente dal luogo della Terra nel quale vive. Dunque, le risposte etiche delle religioni presentavano ai nostri occhi non poche difficoltà.
Ci siamo allora rivolti ai sistemi giuridici che sono anch’essi dei formatori del comportamento. I sistemi giuridici in effetti formano, modellano il comportamento, stabilendo, secondo le loro modalità, quello che si deve fare e quello che si deve evitare nell’ambito relazionale, nell’ambito sociale. Esistono codici di ogni tipo per regolamentare i rapporti sociali e, tra questi, anche codici penali che prevedono la punizione per determinati delitti, cioè per comportamenti considerati asociali od antisociali. I sistemi giuridici hanno dunque cercato di dare anch’essi delle risposte al problema della condotta umana, del comportamento buono e di quello cattivo. Ma proprio come le risposte date dalle diverse religioni, che risultano valide solo per i loro rispettivi credenti, così anche quelle date dai sistemi giuridici vanno bene solo per un determinato momento storico, per un dato tipo di organizzazione sociale: ma esse non dicono alcunché di essenziale all’individuo che deve osservare una determinata condotta. Senza dubbio le persone ragionevoli si rendono conto che è importante che la condotta sociale venga regolamentata in qualche modo perché così si evita il caos generale. In questo caso però abbiamo a che fare con una tecnica di organizzazione sociale, non con una giustificazione della morale. Ed in effetti le diverse comunità umane, ciascuna in conformità con il proprio sviluppo e le proprie concezioni, possiedono norme di condotta giuridicamente regolate che a volte si contrappongono l’una all’altra. I sistemi giuridici non hanno validità universale; servono in un determinato periodo e per un certo tipo di struttura sociale, ma non servono per tutti gli esseri umani, né servono per qualunque periodo né in qualunque parte del mondo né, soprattutto, dicono all’individuo alcunché di essenziale sul bene e sul male.
Abbiamo preso in esame anche le ideologie. Le ideologie sono più propense alle elaborazioni concettuali e danno spiegazioni decisamente più ricche e complesse di quanto non facciano i sistemi legali con le loro regole piatte o le stesse religioni con i loro precetti e leggi portate agli uomini dalle altezze del sacro. Una certa dottrina ci spiegava che l’essere umano è una specie di animale rapace, un essere che vuole svilupparsi ad ogni costo, che vuole farsi strada nonostante tutto, fosse pure a spese degli altri esseri umani. Una sorta di volontà di potenza sottende questa morale che, pur sembrando romantica, ha invece come scopo fondamentale il successo. Essa però non è in grado di fornire alcuna risposta a chi fallisce nel tentativo di mettere in pratica la sua volontà di potenza.
Un’altra ideologia ci diceva invece che tutto in natura è in evoluzione e che lo stesso essere umano è semplicemente un prodotto di tale evoluzione, il riflesso delle condizioni che si danno in un determinato momento; pertanto il suo comportamento sarà lo specchio della società in cui vive. Le diverse classi sociali avranno allora morali diverse, essendo la morale determinata dalle condizioni oggettive, dai rapporti sociali e dal modo di produzione. Ma se le cose stanno veramente così, non ci sarà niente di cui preoccuparsi, dato che ciascuno farà ciò che meccanicamente è spinto a fare, anche se per ragioni di opportunità politica si dirà che le diverse classi sociali hanno morali diverse. Infatti, se ci limitiamo ad ammettere l’esistenza pura e semplice di processi meccanici, ne consegue che io faccio ciò che faccio semplicemente perché sono spinto a farlo. Dove sta il bene e dove sta il male? Esiste solo una sorta di scontro meccanico tra particelle in movimento.
Un’altra ideologia davvero singolare ci diceva cose più o meno di questo tipo: la morale è una pressione sociale che serve a contenere la forza degli impulsi grazie alla creazione di una sorta di Super-io; la compressione da questo esercitata nel calderone della coscienza permette di sublimare gli impulsi fondamentali e di indirizzarli verso certi scopi...
Un pover’uomo, dopo aver ascoltato i sostenitori di questa ideologia, si siede sul ciglio del marciapiede e si dice: “Ma allora, che debbo fare? Da una parte c’è un gruppo sociale che preme su di me, dall’altra ci sono i miei impulsi che mi sarà possibile sublimare solo se sono un artista; in caso contrario, non mi resterà che sdraiarmi sul divano dello psicanalista per non finire in preda alla nevrosi”. Dunque, per questa ideologia, la morale risulta essere un modo di controllare le pulsioni istintive che a volte, però, finiscono per far traboccare il calderone della coscienza.
Un’altra ideologia, come la precedente di tipo psicologico, ci ha spiegato il bene ed il male partendo dall’adattamento. Quella che essa propone è appunto una morale comportamentale adattativa: c’è qualcosa che consente all’individuo di inserirsi in un gruppo; i problemi sorgono nella misura in cui l’individuo si distacca, si separa dal suo gruppo. Sarà meglio perciò “rigare dritto” e stare ben inseriti nel branco. Questa morale, dunque, ci dice che cosa è bene e che cosa è male sulla base dell’adattamento, sulla base dell’inserimento dell’individuo nel proprio ambiente. Che si può dire?... è un’altra ideologia.
Ma in epoche come questa, di grande stanchezza culturale, appaiono, come è già successo ripetutamente in altre civiltà, le risposte immediate, quasi spicciole, su ciò che si deve o non si deve fare. Mi sto riferendo alle cosiddette “scuole morali della decadenza”. E’ accaduto a diverse culture (ormai al loro tramonto) di veder sorgere un genere di moralisti che cercano di individuare, come meglio possono, delle regole di comportamento che siano di uso immediato e che gli permettano di dare una direzione alla loro vita. Alcuni dicono pressappoco questo: “La vita non ha alcun senso, e siccome non ha alcun senso posso fare quel che mi pare, se ci riesco...”. Altri dicono: “Siccome la vita non ha molto senso [risate], devo fare le cose che mi danno soddisfazione, le cose che mi fanno sentir bene, ad ogni costo”. Altri ancora affermano: “Siccome mi trovo in una brutta situazione e la vita stessa è sofferenza, devo fare le cose rispettando una certa forma. Devo fare le cose come uno stoico”. Così infatti si chiamano queste scuole della decadenza: scuole stoiche.
Sebbene le loro siano risposte dettate dall’emergenza, è chiaro che anche nel retroterra di queste scuole c’è un’ideologia. Che sembra essere questa: tutto ha perso senso per cui bisogna rispondere con urgenza ad una tale perdita. Nel momento attuale, per esempio, si cerca di giustificare l’azione con una teoria dell’assurdo nella quale viene introdotto di contrabbando il cosiddetto “impegno”. Si dà il caso che io abbia assunto un certo impegno, per cui mi trovo obbligato ad adempiere a quanto promesso. Si tratta di una sorta di coazione di tipo bancario. E’ difficile comprendere come possa assumere un impegno se il mondo in cui vivo è assurdo e termina nel nulla. Sostenere una tale posizione, d’altra parte, non offre neppure la garanzia di raggiungere una qualche certezza.
Dunque, sia le religioni, sia i sistemi giuridici e ideologici sia le scuole morali della decadenza si sono sforzati di dare una risposta al difficile problema della condotta umana, si sono sforzati di stabilire una morale, un’etica, e questo perché tutti hanno avvertito l’importanza della giustificazione (o non giustificazione) di un atto.
Qual è la base dell’azione valida? La base dell’azione valida non sta nelle ideologie, né nei comandamenti religiosi, né nelle credenze, né nei regolamenti sociali. Pur essendo tutte queste delle cose molto importanti, la base dell’azione valida non si trova in esse, ma nel vissuto interiore dell’azione. C’è una differenza fondamentale tra una valutazione, per così dire, esteriore di ciò che si fa, basata sulle ideologie, i comandamenti religiosi ecc., ed una valutazione basata sul vissuto interiore.
E qual è il vissuto dell’azione valida? Il vissuto dell’azione valida corrisponde contemporaneamente ad una sensazione unitiva, ad una di crescita interiore ed al desiderio di ripetere l’azione, perché essa possiede come un “sapore” di continuità nel tempo. Esamineremo questi tre aspetti separatamente.
Vediamo prima che cosa intendiamo per sensazione unitiva e per continuità nel tempo.
Posso rispondere in vari modi ad una situazione difficile. Posso per esempio rispondere con violenza se qualcuno mi molesta. Di fronte all’irritazione o alla tensione che lo stimolo esterno mi provoca reagisco in modo violento e, così facendo, sperimento una sensazione di sollievo, di distensione. Si è così apparentemente verificata la prima condizione dell’azione valida: tolgo di mezzo lo stimolo irritante che avevo di fronte e, così facendo, mi distendo e distendendomi sorge in me una sensazione unitiva.
Ma un’azione non può essere considerata valida solamente per il fatto di aver prodotto una distensione temporanea, relativa ad un determinato istante: in questo caso, infatti, l’effetto non perdura nel tempo ma finisce per trasformarsi nel suo contrario. Nel momento A determino la distensione reagendo nel modo indicato; nel momento B non sono assolutamente d’accordo con quanto ho fatto. E questo mi provoca contraddizione. La distensione in questo caso non costituisce qualcosa di realmente unitivo, in quanto il momento in cui si dà è contraddetto dal successivo. Perché un’azione sia valida il suo vissuto deve rispondere anche al requisito di continuità nel tempo, senza presentare interruzioni, senza presentare contraddizioni. Potremmo portare numerosi esempi che illustrano come un’azione, valida per un certo istante, non lo sia per il successivo e come un soggetto non riesca a mantenere un determinato atteggiamento perché non sperimenta unità ma contraddizione.
Ma c’è un altro punto: l’esperienza di una sorta di sensazione di crescita interiore. Sono numerose le azioni che compiamo durante il giorno e che ci portano a distendere determinate tensioni. Non si tratta di azioni che abbiano a che vedere con la morale. Il fatto di compierle ci permette di distenderci, di sperimentare un certo piacere: questo è tutto. Se una tensione sorgesse di nuovo, di nuovo la scaricheremmo secondo una sorta di effetto condensatore: una carica aumenta di potenziale fino a raggiungere un certo valore limite; a questo punto si produce una scarica. Ma un effetto condensatore come questo, con le sue continue cariche e scariche, ci dà l’impressione di trovarci in un’eterna ruota di atti ripetitivi: certo, nel momento in cui si produce una scarica di tensione, sperimentiamo piacere, eppure ci rimane uno strano sapore in bocca al constatare che se la vita fosse semplicemente questo - una ruota di ripetizioni, una ruota di piaceri e dolori - essa sarebbe qualcosa d’assurdo. Oggi, posto di fronte a questa tensione, determino una scarica. E domani farò lo stesso... così gira la ruota delle azioni, come il giorno e la notte, continuamente, indipendentemente da qualunque volontà umana, indipendentemente da qualunque scelta umana.
Tuttavia ci sono azioni che forse abbiamo compiuto pochissime volte nella vita. Si tratta di azioni che ci danno grande unità interiore nel momento in cui le compiamo. Si tratta di azioni che, inoltre, ci danno la sensazione che qualcosa sia migliorato in noi da quando le abbiamo compiute. Si tratta di azioni che contengono una proposta per il futuro nel senso che, se potessimo ripeterle, qualcosa crescerebbe, qualcosa migliorerebbe ancora in noi. Si tratta di azioni che ci danno unità, sensazione di crescita interiore e continuità nel tempo. Questi appunto sono i riscontri interiori dell’azione valida.
Noi non abbiamo mai affermato che le cose dette qui siano le migliori e che si debbano seguire in modo coercitivo: abbiamo piuttosto fatto alcune proposte ed abbiamo offerto i sistemi di riscontro interiore, i vissuti che a queste proposte corrispondono. Abbiamo parlato delle azioni che producono unità e di quelle che producono contraddizione. E, infine, abbiamo parlato del modo di perfezionare l’azione valida attraverso la ripetizione degli atti che danno unità interiore. Per completare la descrizione del sistema di vissuti dell’azione valida abbiamo detto: “Se ripeti i tuoi atti di unità interna, niente ti potrà più fermare”. Quest’ultima affermazione non si riferisce solo alla sensazione di unità, di crescita interna e di continuità nel tempo, ma anche al miglioramento dell’azione valida. Infatti le cose, a dispetto delle buone intenzioni, non sempre ci riescono bene fin dall’inizio: cerchiamo di fare delle cose interessanti ma i risultati che otteniamo non sono subito soddisfacenti. Ci rendiamo conto però che possiamo migliorare. Anche l’azione valida può essere perfezionata, ripetendo quegli atti che danno unità e crescita interiore e ciò che abbiamo indicato come continuità nel tempo. Un perfezionamento è possibile.
Abbiamo esposto, sotto forma di principi molto generali, i vissuti dell’azione valida, le sensazioni che ad essa corrispondono. Ma c’è un Principio che è il più grande di tutti i principi, a cui è stato dato il nome di Regola d’Oro. Esso dice: “Tratta gli altri come vorresti essere trattato”. Non si tratta certo di un principio nuovo: è vecchio di millenni. Ha resistito al passo del tempo nei più diversi paesi e culture. E’ un principio universalmente valido. E’ stato formulato in diversi modi, per esempio nel suo aspetto negativo, dicendo pressappoco così: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. E’ un altro modo di mettere a fuoco la stessa idea. E’ stato anche detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Questa è una messa a fuoco ancora diversa, certo non è esattamente uguale all’altra che consideravamo prima: “Tratta gli altri come vorresti essere trattato”. Si è parlato di questo principio fin dall’antichità; è il più grande dei principi morali ed è il più grande dei principi di azione valida. Ma in che modo vorrei essere trattato? Perché qui stiamo dando per scontato che sarà bene trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati. Ma in che modo vorrei essere trattato io? Per rispondere dovrò dire che se mi trattano in un certo modo mi fanno del male mentre se mi trattano in un altro modo mi fanno del bene. Dovrò, cioè, dare una risposta su ciò che è bene e su ciò che è male. Dovrò tornare all’eterna ruota, al definire l’azione valida sulla base di una delle differenti teorie, sulla base di una delle differenti religioni. Per me una cosa sarà buona, per un’altra persona non lo sarà. E neppure mancherà chi, applicando questo stesso principio, tratterà molto male gli altri perché a lui piace essere trattato male.
Questo principio, che mi dice di trattare gli altri nel modo che ritengo sia buono per me, va molto bene. Ma ancor meglio sarebbe se io sapessi che cosa è buono per me. Arrivati a questo punto, risulta chiaro che per risolvere il problema è necessario andare alla base dell’azione valida, e la base dell’azione valida sta nel vissuto che da essa si ottiene.
Quando mi dico: “devo trattare gli altri come vorrei essere trattato”, sorge immediatamente la domanda: “perché mai dovrei farlo ?” Ci sarà pure un qualche processo, una qualche modalità di funzionamento della mente che determina l’insorgere di problemi quando si trattano male gli altri. E di che tipo di funzionamento può trattarsi? Se vedo qualcuno in cattive condizioni, se vedo che qualcuno si taglia o si ferisce, qualcosa risuona in me. Ma come può risuonare in me qualcosa che accade ad un altro? Sembra quasi una magia! Una persona rimane vittima di un incidente ed ecco che io sperimento, quasi fisicamente, il vissuto di quell’incidente. I vostri studi vertono proprio su questi fenomeni: sapete bene che ad ogni percezione corrisponde un’immagine, e che certe immagini possono generare tensioni in determinati punti del corpo, mentre altre possono distendere quegli stessi punti. Se ad ogni percezione corrisponde una rappresentazione, e se anche di quest’ultima si ha un vissuto, cioè una nuova sensazione, allora non è tanto difficile comprendere come, al percepire un fenomeno a cui corrisponde un’immagine interna, io possa sperimentare una sensazione in vari punti del mio corpo e del mio intracorpo che hanno subito l’azione di tale immagine. In me scatta l’identificazione con qualcuno che si taglia perché, al percepire visivamente un tale fenomeno, sorgono immagini visive cui segue il sorgere di immagini cenestesiche e tattili, dalle quali ricavo una nuova sensazione la quale finisce per provocare in me il vissuto della ferita che l’altro si è procurato. Quindi non sarà bene per me trattare gli altri in malo modo, perché altrimenti sperimenterò il vissuto corrispondente a tale tipo di azioni.
A questo punto passeremo ad usare un linguaggio quasi tecnico che ci servirà per descrivere il funzionamento di alcuni circuiti psichici. Porteremo avanti questa descrizione per passi successivi, pur sapendo che la struttura della coscienza opera come una totalità. Orbene, c’è un primo circuito che corrisponde ai seguenti fenomeni: percezione, rappresentazione, “ripresa” della rappresentazione, sensazione interna. Abbiamo quindi un secondo circuito, distinto dal primo, che è in rapporto con l’azione e il cui significato funzionale è più o meno questo: di ogni azione che compio nel mondo ho un vissuto interno. E’ questo meccanismo di retro-alimentazione che mi permette di apprendere sulla base delle azioni che compio. Se, per esempio, non disponessi di un meccanismo di retro-alimentazione relativo ai movimenti del corpo, non potrei mai perfezionarli. Imparo a scrivere a macchina per ripetizione selettiva dei movimenti delle dita, che si imprimono in memoria secondo lo schema successo-errore. Ma posso imprimere in memoria delle azioni solamente se le compio. Pertanto è dal fare che si ottiene il vissuto. Permettetemi questa digressione: esiste un grande pregiudizio che in certe occasioni ha invaso anche il campo della pedagogia. Si tratta della credenza che le cose si imparino pensandole invece che facendole. Certo, si apprende perché si ricevono dei dati; ma tali dati non rimangono mai semplicemente immagazzinati nella memoria: ad essi sempre corrisponde un’immagine la quale, a sua volta, dà impulso ad una nuova attività, come per esempio, fare dei confronti, respingere delle ipotesi, ecc.; questo ci mostra la continua attività della coscienza e non una sua supposta passività a cui corrisponde l’idea che i dati si limitano ad installarsi nella memoria. Il meccanismo di retro-alimentazione di cui parlavamo è ciò che ci permette magari di dire: “ho sbagliato tasto”. Grazie ad esso sperimento la sensazione di successo e di errore, perfeziono la sensazione di successo, acquisisco scioltezza nei movimenti finché l’azione di scrivere correttamente a macchina diventa automatica. Qui stiamo parlando del secondo circuito, quello che si riferisce al vissuto che ho delle azioni che compio. Il primo si riferiva invece al dolore dell’altro che io rivivo in me.
Voi conoscete la differenza che esiste tra gli atti cosiddetti catartici e quelli che noi denominiamo “trasferenziali”. Gli atti catartici si riferiscono fondamentalmente alla scarica delle tensioni, nient’altro che a questo. Gli atti trasferenziali, invece, permettono di trasferire delle cariche interne, di integrare dei contenuti, facilitando così il buon funzionamento psichico. Sappiamo che insorgono difficoltà per la coscienza quando certi contenuti mentali si dispongono come delle “isole”, cioè non comunicano con gli altri contenuti. Se, per esempio, il nostro pensiero va in una direzione, i nostri sentimenti in un’altra e le nostre azioni in un’altra ancora risulta evidente che qualcosa in noi non funziona e che la sensazione che abbiamo di noi stessi non può essere piena. Il nostro funzionamento psichico sembra integrarsi davvero, permettendoci così di fare dei passi avanti, soltanto quando costruiamo dei ponti tra i contenuti interni. Esistono tecniche “trasferenziali” molto utili che danno mobilità alle immagini problematiche e permettono di trasformarle. Un esempio di queste tecniche si trova nelle Esperienze guidate dove esse vengono presentate sotto una veste letteraria. Ma sappiamo anche che le azioni, e non soltanto le immagini, possono produrre dei fenomeni trasferenziali ed auto-trasferenziali. Le azioni non sono tutte uguali. Ci sono azioni che permettono di integrare contenuti interni ed azioni tremendamente disintegratrici. Determinate azioni producono nell’essere umano un tale senso di oppressione, un tale pentimento, una tale divisione interna, un’inquietudine talmente profonda che chi le ha compiute mai vorrebbe tornare a ripeterle. Ma sfortunatamente le azioni di questo tipo rimangono fortemente ancorate nel passato. Anche se in futuro non verranno più ripetute, dal passato esse continueranno a esercitare una pressione, senza risolversi, senza integrarsi, impedendo alla coscienza di ricollocarle, di trasferirle, di integrarne i contenuti, impedendo al soggetto di sperimentare quella sensazione di crescita interna di cui parlavamo prima.

Le azioni che si compiono nel mondo non sono tutte uguali. Ci sono azioni dalle quali si ricava una sensazione di unità interiore ed azioni che danno una sensazione di disintegrazione. Se lo si studia attentamente alla luce di quanto sappiamo sui procedimenti catartici e trasferenziali, il tema dell’azione nel mondo e delle sue relazioni con l’integrazione e lo sviluppo dei contenuti risulterà molto più chiaro. Ma, in ogni caso, questo lavoro di descrizione di circuiti psichici finalizzato a comprendere il significato dell’azione valida risulta essere qualcosa di complesso. Nel frattempo l’amico di cui parlavamo prima continua a ripetersi: “Ed io che faccio?”. Noi sperimentiamo come un’azione unitiva e di grande valore il portare a chi sta seduto sul bordo del marciapiede, senza punti di riferimento nella vita, queste cose di cui abbiamo qualche conoscenza, tradotte però in parole semplici ed in semplici fatti. Se nessuno farà questo per quell’uomo lo faremo noi, così come faremo tante altre cose per vincere il dolore e la sofferenza. E agendo in questo modo, lavoreremo anche per noi stessi.

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