SILO - LAS
PALMAS DE GRAN CANARIA, SPAGNA
29
SETTEMBRE 1978
INTERVENTO
IN UN GRUPPO DI STUDIO
Qual
è l’azione valida? A questa domanda si è risposto, o si è
cercato di rispondere, in diversi modi, e quasi sempre rifacendosi al
criterio della bontà o malvagità dell’azione. In altre parole, si
è cercato di rispondere al problema della validità dell’azione
facendo appello a ciò che fin dall’antichità si conosce come
etica o morale. Per molti anni noi ci siamo preoccupati di
raccogliere le diverse risposte su che cosa fosse morale e che cosa
immorale, su che cosa fosse il bene e che cosa il male. Ma il nostro
interesse fondamentale era sapere in che senso un’azione potesse
essere considerata valida. Le risposte da noi raccolte erano di
vario genere: religiose, giuridiche, ideologiche; ma tutte
affermavano che bisognava fare le cose in un certo modo ed evitare
di farle in un certo altro. Per noi era molto importante riuscire ad
ottenere delle risposte chiare su questo punto: molto importante dal
momento che l’essere umano si costruisce modi di vivere diversi a
seconda della direzione che dà alle sue attività. Nella vita umana
tutto dipende dalla direzione presa. Se il mio modo di pormi rispetto
al futuro è di un certo tipo, il mio presente ne risulterà
influenzato. Pertanto, le domande su ciò che è valido e ciò che
non lo è, su ciò che è bene e su ciò che è male, non riguardano
solo il futuro dell’essere umano ma anche il suo presente; e non
riguardano solo l’individuo ma anche le collettività ed i popoli.
Dunque,
per prima cosa abbiamo preso in esame le risposte di tipo
religioso. Abbiamo così constatato che i credenti delle diverse
religioni dovevano osservare certe leggi, certi precetti ispirati da
Dio, che essi consideravano validi. Ma religioni diverse proponevano
ragioni diverse a sostegno dei loro precetti. Alcune affermavano che
non bisognasse compiere determinate azioni per evitare che gli eventi
si ritorcessero contro colui che aveva compiuto le azioni stesse;
altre raccomandavano di non compierle per evitare l’inferno.
Spesso, poi, i precetti ed i comandamenti delle diverse religioni,
che in principio erano tutte universali, non concordavano affatto tra
loro. Ma in tutto questo l’aspetto più preoccupante stava nel
fatto che moltissime persone, in tutto il mondo, non potevano, pur
volendolo in buona fede, osservare tali precetti e comandamenti,
perché non li sentivano, non credevano in essi. Era come se Dio
avesse abbandonato i non credenti - che pure secondo le religioni
sono anch’essi suoi figli - visto che non potevano osservare i suoi
comandamenti. Una religione, però, è universale non perché occupa
il mondo in senso geografico: lo è soprattutto perché occupa il
cuore dell’essere umano, indipendentemente dalle condizioni in cui
questi si trova, indipendentemente dal luogo della Terra nel quale
vive. Dunque, le risposte etiche delle religioni presentavano ai
nostri occhi non poche difficoltà.
Ci
siamo allora rivolti ai sistemi giuridici che sono anch’essi dei
formatori del comportamento. I sistemi giuridici in effetti formano,
modellano il comportamento, stabilendo, secondo le loro modalità,
quello che si deve fare e quello che si deve evitare nell’ambito
relazionale, nell’ambito sociale. Esistono codici di ogni tipo per
regolamentare i rapporti sociali e, tra questi, anche codici penali
che prevedono la punizione per determinati delitti, cioè per
comportamenti considerati asociali od antisociali. I sistemi
giuridici hanno dunque cercato di dare anch’essi delle risposte al
problema della condotta umana, del comportamento buono e di quello
cattivo. Ma proprio come le risposte date dalle diverse religioni,
che risultano valide solo per i loro rispettivi credenti, così anche
quelle date dai sistemi giuridici vanno bene solo per un determinato
momento storico, per un dato tipo di organizzazione sociale: ma esse
non dicono alcunché di essenziale all’individuo che deve
osservare una determinata condotta. Senza dubbio le persone
ragionevoli si rendono conto che è importante che la condotta
sociale venga regolamentata in qualche modo perché così si evita il
caos generale. In questo caso però abbiamo a che fare con una
tecnica di organizzazione sociale, non con una giustificazione della
morale. Ed in effetti le diverse comunità umane, ciascuna in
conformità con il proprio sviluppo e le proprie concezioni,
possiedono norme di condotta giuridicamente regolate che a volte si
contrappongono l’una all’altra. I sistemi giuridici non hanno
validità universale; servono in un determinato periodo e per un
certo tipo di struttura sociale, ma non servono per tutti gli esseri
umani, né servono per qualunque periodo né in qualunque parte del
mondo né, soprattutto, dicono all’individuo alcunché di
essenziale sul bene e sul male.
Abbiamo
preso in esame anche le ideologie. Le ideologie sono più propense
alle elaborazioni concettuali e danno spiegazioni decisamente più
ricche e complesse di quanto non facciano i sistemi legali con le
loro regole piatte o le stesse religioni con i loro precetti e leggi
portate agli uomini dalle altezze del sacro. Una certa dottrina ci
spiegava che l’essere umano è una specie di animale rapace, un
essere che vuole svilupparsi ad ogni costo, che vuole farsi strada
nonostante tutto, fosse pure a spese degli altri esseri umani. Una
sorta di volontà di potenza sottende questa morale che, pur
sembrando romantica, ha invece come scopo fondamentale il successo.
Essa però non è in grado di fornire alcuna risposta a chi fallisce
nel tentativo di mettere in pratica la sua volontà di potenza.
Un’altra
ideologia ci diceva invece che tutto in natura è in evoluzione e
che lo stesso essere umano è semplicemente un prodotto di tale
evoluzione, il riflesso delle condizioni che si danno in un
determinato momento; pertanto il suo comportamento sarà lo specchio
della società in cui vive. Le diverse classi sociali avranno allora
morali diverse, essendo la morale determinata dalle condizioni
oggettive, dai rapporti sociali e dal modo di produzione. Ma se le
cose stanno veramente così, non ci sarà niente di cui preoccuparsi,
dato che ciascuno farà ciò che meccanicamente è spinto a fare,
anche se per ragioni di opportunità politica si dirà che le
diverse classi sociali hanno morali diverse. Infatti, se ci limitiamo
ad ammettere l’esistenza pura e semplice di processi meccanici,
ne consegue che io faccio ciò che faccio semplicemente perché sono
spinto a farlo. Dove sta il bene e dove sta il male? Esiste solo una
sorta di scontro meccanico tra particelle in movimento.
Un’altra
ideologia davvero singolare ci diceva cose più o meno di questo
tipo: la morale è una pressione sociale che serve a contenere la
forza degli impulsi grazie alla creazione di una sorta di Super-io;
la compressione da questo esercitata nel calderone della coscienza
permette di sublimare gli impulsi fondamentali e di indirizzarli
verso certi scopi...
Un
pover’uomo, dopo aver ascoltato i sostenitori di questa ideologia,
si siede sul ciglio del marciapiede e si dice: “Ma allora, che
debbo fare? Da una parte c’è un gruppo sociale che preme su di
me, dall’altra ci sono i miei impulsi che mi sarà possibile
sublimare solo se sono un artista; in caso contrario, non mi resterà
che sdraiarmi sul divano dello psicanalista per non finire in preda
alla nevrosi”. Dunque, per questa ideologia, la morale risulta
essere un modo di controllare le pulsioni istintive che a volte,
però, finiscono per far traboccare il calderone della coscienza.
Un’altra
ideologia, come la precedente di tipo psicologico, ci ha spiegato
il bene ed il male partendo dall’adattamento. Quella che essa
propone è appunto una morale comportamentale adattativa: c’è
qualcosa che consente all’individuo di inserirsi in un gruppo; i
problemi sorgono nella misura in cui l’individuo si distacca, si
separa dal suo gruppo. Sarà meglio perciò “rigare dritto” e
stare ben inseriti nel branco. Questa morale, dunque, ci dice che
cosa è bene e che cosa è male sulla base dell’adattamento, sulla
base dell’inserimento dell’individuo nel proprio ambiente. Che si
può dire?... è un’altra ideologia.
Ma
in epoche come questa, di grande stanchezza culturale, appaiono, come
è già successo ripetutamente in altre civiltà, le risposte
immediate, quasi spicciole, su ciò che si deve o non si deve fare.
Mi sto riferendo alle cosiddette “scuole morali della decadenza”.
E’ accaduto a diverse culture (ormai al loro tramonto) di veder
sorgere un genere di moralisti che cercano di individuare, come
meglio possono, delle regole di comportamento che siano di uso
immediato e che gli permettano di dare una direzione alla loro vita.
Alcuni dicono pressappoco questo: “La vita non ha alcun senso, e
siccome non ha alcun senso posso fare quel che mi pare, se ci
riesco...”. Altri dicono: “Siccome la vita non ha molto senso
[risate], devo fare le cose che mi danno soddisfazione, le
cose che mi fanno sentir bene, ad ogni costo”. Altri ancora
affermano: “Siccome mi trovo in una brutta situazione e la vita
stessa è sofferenza, devo fare le cose rispettando una certa forma.
Devo fare le cose come uno stoico”. Così infatti si chiamano
queste scuole della decadenza: scuole stoiche.
Sebbene
le loro siano risposte dettate dall’emergenza, è chiaro che anche
nel retroterra di queste scuole c’è un’ideologia. Che sembra
essere questa: tutto ha perso senso per cui bisogna rispondere con
urgenza ad una tale perdita. Nel momento attuale, per esempio, si
cerca di giustificare l’azione con una teoria dell’assurdo nella
quale viene introdotto di contrabbando il cosiddetto “impegno”.
Si dà il caso che io abbia assunto un certo impegno, per cui mi
trovo obbligato ad adempiere a quanto promesso. Si tratta di una
sorta di coazione di tipo bancario. E’ difficile comprendere come
possa assumere un impegno se il mondo in cui vivo è assurdo e
termina nel nulla. Sostenere una tale posizione, d’altra parte,
non offre neppure la garanzia di raggiungere una qualche certezza.
Dunque,
sia le religioni, sia i sistemi giuridici e ideologici sia le scuole
morali della decadenza si sono sforzati di dare una risposta al
difficile problema della condotta umana, si sono sforzati di
stabilire una morale, un’etica, e questo perché tutti hanno
avvertito l’importanza della giustificazione (o non
giustificazione) di un atto.
Qual
è la base dell’azione valida? La base dell’azione valida non sta
nelle ideologie, né nei comandamenti religiosi, né nelle credenze,
né nei regolamenti sociali. Pur essendo tutte queste delle cose
molto importanti, la base dell’azione valida non si trova in esse,
ma nel vissuto interiore dell’azione. C’è una differenza
fondamentale tra una valutazione, per così dire, esteriore di ciò
che si fa, basata sulle ideologie, i comandamenti religiosi ecc., ed
una valutazione basata sul vissuto interiore.
E
qual è il vissuto dell’azione valida? Il vissuto dell’azione
valida corrisponde contemporaneamente ad una sensazione unitiva, ad
una di crescita interiore ed al desiderio di ripetere l’azione,
perché essa possiede come un “sapore” di continuità nel tempo.
Esamineremo questi tre aspetti separatamente.
Vediamo
prima che cosa intendiamo per sensazione unitiva e per continuità
nel tempo.
Posso
rispondere in vari modi ad una situazione difficile. Posso per
esempio rispondere con violenza se qualcuno mi molesta. Di fronte
all’irritazione o alla tensione che lo stimolo esterno mi provoca
reagisco in modo violento e, così facendo, sperimento una
sensazione di sollievo, di distensione. Si è così apparentemente
verificata la prima condizione dell’azione valida: tolgo di mezzo
lo stimolo irritante che avevo di fronte e, così facendo, mi
distendo e distendendomi sorge in me una sensazione unitiva.
Ma
un’azione non può essere considerata valida solamente per il fatto
di aver prodotto una distensione temporanea, relativa ad un
determinato istante: in questo caso, infatti, l’effetto non perdura
nel tempo ma finisce per trasformarsi nel suo contrario. Nel
momento A determino la distensione reagendo nel modo indicato; nel
momento B non sono assolutamente d’accordo con quanto ho fatto. E
questo mi provoca contraddizione. La distensione in questo caso non
costituisce qualcosa di realmente unitivo, in quanto il momento in
cui si dà è contraddetto dal successivo. Perché un’azione sia
valida il suo vissuto deve rispondere anche al requisito di
continuità nel tempo, senza presentare interruzioni, senza
presentare contraddizioni. Potremmo portare numerosi esempi che
illustrano come un’azione, valida per un certo istante, non lo sia
per il successivo e come un soggetto non riesca a mantenere un
determinato atteggiamento perché non sperimenta unità ma
contraddizione.
Ma
c’è un altro punto: l’esperienza di una sorta di sensazione di
crescita interiore. Sono numerose le azioni che compiamo durante il
giorno e che ci portano a distendere determinate tensioni. Non si
tratta di azioni che abbiano a che vedere con la morale. Il fatto di
compierle ci permette di distenderci, di sperimentare un certo
piacere: questo è tutto. Se una tensione sorgesse di nuovo, di nuovo
la scaricheremmo secondo una sorta di effetto condensatore: una
carica aumenta di potenziale fino a raggiungere un certo valore
limite; a questo punto si produce una scarica. Ma un effetto
condensatore come questo, con le sue continue cariche e scariche, ci
dà l’impressione di trovarci in un’eterna ruota di atti
ripetitivi: certo, nel momento in cui si produce una scarica di
tensione, sperimentiamo piacere, eppure ci rimane uno strano sapore
in bocca al constatare che se la vita fosse semplicemente questo -
una ruota di ripetizioni, una ruota di piaceri e dolori - essa
sarebbe qualcosa d’assurdo. Oggi, posto di fronte a questa
tensione, determino una scarica. E domani farò lo stesso... così
gira la ruota delle azioni, come il giorno e la notte, continuamente,
indipendentemente da qualunque volontà umana, indipendentemente da
qualunque scelta umana.
Tuttavia
ci sono azioni che forse abbiamo compiuto pochissime volte nella
vita. Si tratta di azioni che ci danno grande unità interiore nel
momento in cui le compiamo. Si tratta di azioni che, inoltre, ci
danno la sensazione che qualcosa sia migliorato in noi da quando le
abbiamo compiute. Si tratta di azioni che contengono una proposta per
il futuro nel senso che, se potessimo ripeterle, qualcosa
crescerebbe, qualcosa migliorerebbe ancora in noi. Si tratta di
azioni che ci danno unità, sensazione di crescita interiore e
continuità nel tempo. Questi appunto sono i riscontri interiori
dell’azione valida.
Noi
non abbiamo mai affermato che le cose dette qui siano le migliori e
che si debbano seguire in modo coercitivo: abbiamo piuttosto fatto
alcune proposte ed abbiamo offerto i sistemi di riscontro interiore,
i vissuti che a queste proposte corrispondono. Abbiamo parlato delle
azioni che producono unità e di quelle che producono contraddizione.
E, infine, abbiamo parlato del modo di perfezionare l’azione valida
attraverso la ripetizione degli atti che danno unità interiore. Per
completare la descrizione del sistema di vissuti dell’azione valida
abbiamo detto: “Se ripeti i tuoi atti di unità interna, niente ti
potrà più fermare”. Quest’ultima affermazione non si riferisce
solo alla sensazione di unità, di crescita interna e di continuità
nel tempo, ma anche al miglioramento dell’azione valida. Infatti le
cose, a dispetto delle buone intenzioni, non sempre ci riescono bene
fin dall’inizio: cerchiamo di fare delle cose interessanti ma i
risultati che otteniamo non sono subito soddisfacenti. Ci rendiamo
conto però che possiamo migliorare. Anche l’azione valida può
essere perfezionata, ripetendo quegli atti che danno unità e
crescita interiore e ciò che abbiamo indicato come continuità nel
tempo. Un perfezionamento è possibile.
Abbiamo
esposto, sotto forma di principi molto generali, i vissuti
dell’azione valida, le sensazioni che ad essa corrispondono. Ma c’è
un Principio che è il più grande di tutti i principi, a cui è
stato dato il nome di Regola d’Oro. Esso dice: “Tratta gli altri
come vorresti essere trattato”. Non si tratta certo di un principio
nuovo: è vecchio di millenni. Ha resistito al passo del tempo nei
più diversi paesi e culture. E’ un principio universalmente
valido. E’ stato formulato in diversi modi, per esempio nel suo
aspetto negativo, dicendo pressappoco così: “Non fare agli altri
quello che non vorresti fosse fatto a te”. E’ un altro modo di
mettere a fuoco la stessa idea. E’ stato anche detto: “Ama il
prossimo tuo come te stesso”. Questa è una messa a fuoco ancora
diversa, certo non è esattamente uguale all’altra che
consideravamo prima: “Tratta gli altri come vorresti essere
trattato”. Si è parlato di questo principio fin dall’antichità;
è il più grande dei principi morali ed è il più grande dei
principi di azione valida. Ma in che modo vorrei essere trattato?
Perché qui stiamo dando per scontato che sarà bene trattare gli
altri come si vorrebbe essere trattati. Ma in che modo vorrei essere
trattato io? Per rispondere dovrò dire che se mi trattano in un
certo modo mi fanno del male mentre se mi trattano in un altro modo
mi fanno del bene. Dovrò, cioè, dare una risposta su ciò che è
bene e su ciò che è male. Dovrò tornare all’eterna ruota, al
definire l’azione valida sulla base di una delle differenti teorie,
sulla base di una delle differenti religioni. Per me una cosa sarà
buona, per un’altra persona non lo sarà. E neppure mancherà chi,
applicando questo stesso principio, tratterà molto male gli altri
perché a lui piace essere trattato male.
Questo
principio, che mi dice di trattare gli altri nel modo che ritengo sia
buono per me, va molto bene. Ma ancor meglio sarebbe se io sapessi
che cosa è buono per me. Arrivati a questo punto, risulta chiaro che
per risolvere il problema è necessario andare alla base dell’azione
valida, e la base dell’azione valida sta nel vissuto che da essa
si ottiene.
Quando
mi dico: “devo trattare gli altri come vorrei essere trattato”,
sorge immediatamente la domanda: “perché mai dovrei farlo ?” Ci
sarà pure un qualche processo, una qualche modalità di
funzionamento della mente che determina l’insorgere di problemi
quando si trattano male gli altri. E di che tipo di funzionamento può
trattarsi? Se vedo qualcuno in cattive condizioni, se vedo che
qualcuno si taglia o si ferisce, qualcosa risuona in me. Ma come può
risuonare in me qualcosa che accade ad un altro? Sembra quasi una
magia! Una persona rimane vittima di un incidente ed ecco che io
sperimento, quasi fisicamente, il vissuto di quell’incidente. I
vostri studi vertono proprio su questi fenomeni: sapete bene che ad
ogni percezione corrisponde un’immagine, e che certe immagini
possono generare tensioni in determinati punti del corpo, mentre
altre possono distendere quegli stessi punti. Se ad ogni percezione
corrisponde una rappresentazione, e se anche di quest’ultima si ha
un vissuto, cioè una nuova sensazione, allora non è tanto difficile
comprendere come, al percepire un fenomeno a cui corrisponde
un’immagine interna, io possa sperimentare una sensazione in vari
punti del mio corpo e del mio intracorpo che hanno subito l’azione
di tale immagine. In me scatta l’identificazione con qualcuno che
si taglia perché, al percepire visivamente un tale fenomeno,
sorgono immagini visive cui segue il sorgere di immagini cenestesiche
e tattili, dalle quali ricavo una nuova sensazione la quale finisce
per provocare in me il vissuto della ferita che l’altro si è
procurato. Quindi non sarà bene per me trattare gli altri in malo
modo, perché altrimenti sperimenterò il vissuto corrispondente a
tale tipo di azioni.
A
questo punto passeremo ad usare un linguaggio quasi tecnico che ci
servirà per descrivere il funzionamento di alcuni circuiti psichici.
Porteremo avanti questa descrizione per passi successivi, pur
sapendo che la struttura della coscienza opera come una totalità.
Orbene, c’è un primo circuito che corrisponde ai seguenti
fenomeni: percezione, rappresentazione, “ripresa” della
rappresentazione, sensazione interna. Abbiamo quindi un secondo
circuito, distinto dal primo, che è in rapporto con l’azione e il
cui significato funzionale è più o meno questo: di ogni azione che
compio nel mondo ho un vissuto interno. E’ questo meccanismo di
retro-alimentazione che mi permette di apprendere sulla base delle
azioni che compio. Se, per esempio, non disponessi di un meccanismo
di retro-alimentazione relativo ai movimenti del corpo, non potrei
mai perfezionarli. Imparo a scrivere a macchina per ripetizione
selettiva dei movimenti delle dita, che si imprimono in memoria
secondo lo schema successo-errore. Ma posso imprimere in memoria
delle azioni solamente se le compio. Pertanto è dal fare che si
ottiene il vissuto. Permettetemi questa digressione: esiste un grande
pregiudizio che in certe occasioni ha invaso anche il campo della
pedagogia. Si tratta della credenza che le cose si imparino
pensandole invece che facendole. Certo, si apprende perché si
ricevono dei dati; ma tali dati non rimangono mai semplicemente
immagazzinati nella memoria: ad essi sempre corrisponde un’immagine
la quale, a sua volta, dà impulso ad una nuova attività, come per
esempio, fare dei confronti, respingere delle ipotesi, ecc.; questo
ci mostra la continua attività della coscienza e non una sua
supposta passività a cui corrisponde l’idea che i dati si
limitano ad installarsi nella memoria. Il meccanismo di
retro-alimentazione di cui parlavamo è ciò che ci permette magari
di dire: “ho sbagliato tasto”. Grazie ad esso sperimento la
sensazione di successo e di errore, perfeziono la sensazione di
successo, acquisisco scioltezza nei movimenti finché l’azione di
scrivere correttamente a macchina diventa automatica. Qui stiamo
parlando del secondo circuito, quello che si riferisce al vissuto che
ho delle azioni che compio. Il primo si riferiva invece al dolore
dell’altro che io rivivo in me.
Voi
conoscete la differenza che esiste tra gli atti cosiddetti catartici
e quelli che noi denominiamo “trasferenziali”. Gli atti catartici
si riferiscono fondamentalmente alla scarica delle tensioni,
nient’altro che a questo. Gli atti trasferenziali, invece,
permettono di trasferire delle cariche interne, di integrare dei
contenuti, facilitando così il buon funzionamento psichico.
Sappiamo che insorgono difficoltà per la coscienza quando certi
contenuti mentali si dispongono come delle “isole”, cioè non
comunicano con gli altri contenuti. Se, per esempio, il nostro
pensiero va in una direzione, i nostri sentimenti in un’altra e le
nostre azioni in un’altra ancora risulta evidente che qualcosa
in noi non funziona e che la sensazione che abbiamo di noi stessi non
può essere piena. Il nostro funzionamento psichico sembra integrarsi
davvero, permettendoci così di fare dei passi avanti, soltanto
quando costruiamo dei ponti tra i contenuti interni. Esistono
tecniche “trasferenziali” molto utili che danno mobilità alle
immagini problematiche e permettono di trasformarle. Un esempio di
queste tecniche si trova nelle Esperienze guidate dove esse
vengono presentate sotto una veste letteraria. Ma sappiamo anche che
le azioni, e non soltanto le immagini, possono produrre dei fenomeni
trasferenziali ed auto-trasferenziali. Le azioni non sono tutte
uguali. Ci sono azioni che permettono di integrare contenuti interni
ed azioni tremendamente disintegratrici. Determinate azioni producono
nell’essere umano un tale senso di oppressione, un tale pentimento,
una tale divisione interna, un’inquietudine talmente profonda che
chi le ha compiute mai vorrebbe tornare a ripeterle. Ma
sfortunatamente le azioni di questo tipo rimangono fortemente
ancorate nel passato. Anche se in futuro non verranno più ripetute,
dal passato esse continueranno a esercitare una pressione, senza
risolversi, senza integrarsi, impedendo alla coscienza di
ricollocarle, di trasferirle, di integrarne i contenuti, impedendo al
soggetto di sperimentare quella sensazione di crescita interna di cui
parlavamo prima.
Le
azioni che si compiono nel mondo non sono tutte uguali. Ci sono
azioni dalle quali si ricava una sensazione di unità interiore ed
azioni che danno una sensazione di disintegrazione. Se lo si studia
attentamente alla luce di quanto sappiamo sui procedimenti catartici
e trasferenziali, il tema dell’azione nel mondo e delle sue
relazioni con l’integrazione e lo sviluppo dei contenuti risulterà
molto più chiaro. Ma, in ogni caso, questo lavoro di descrizione di
circuiti psichici finalizzato a comprendere il significato
dell’azione valida risulta essere qualcosa di complesso. Nel
frattempo l’amico di cui parlavamo prima continua a ripetersi: “Ed
io che faccio?”. Noi sperimentiamo come un’azione unitiva e di
grande valore il portare a chi sta seduto sul bordo del marciapiede,
senza punti di riferimento nella vita, queste cose di cui abbiamo
qualche conoscenza, tradotte però in parole semplici ed in semplici
fatti. Se nessuno farà questo per quell’uomo lo faremo noi, così
come faremo tante altre cose per vincere il dolore e la sofferenza. E
agendo in questo modo, lavoreremo anche per noi stessi.
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