lunedì 30 maggio 2016

Sono ciò che voglio

Percezione e ricordi
Abbiamo appurato che i sensi percepiscono una serie di dati all'interno di certi valori possibili (niente ultrasuoni, infrarossi, ultravioletti, dettagli microscopici eccetera). Abbiamo inoltre appurato che questi dati a volte sono anche errati (errori di parallasse, echi, effetti ottici, sovraccarichi ecc)
Abbiamo appurato che con questi dati, sono costretto ad ipotizzare una realtà, per muovermi ed agire in essa. Questa realtà rappresentata può essere più o meno “azzeccata”, più o meno “congruente o coerente”. Ma ovviamente, essendo basata su dati incompleti, dubbiosi e a volte proprio errati, non può essere perfetta né isomorfica alla realtà stessa.
Abbiamo appurato che, così come nel livello di sonno la coscienza prende dei dati provenienti dai sensi e li struttura in modo da renderli coerenti con il livello di sonno in cui si trova (trasformandoli ad esempio in immagini oniriche), così la coscienza in veglia prende dati provenienti dai sensi e li struttura in modo da renderli coerenti con l'idea di realtà che ho nel livello di coscienza in cui mi trovo.
Ora, preso atto di tutto ciò; preso atto che prendo dati incerti, incompleti e dubbiosi, li strutturo in una realtà ipotetica il quanto più coerente possibile con “l'idea di realtà che ho”; preso atto di ciò, mi rendo conto che questa “percezione della realtà” in un certo momento la memorizzo in uno o più ricordi.

Cosa significa tutto ciò? Significa non solo che la realtà che strutturo potrebbe differire in modo più che significativo con la realtà strutturata da un altro, ma significa anche che le cose non sono andate come ricordo. Se la mia vita fosse il ricordo che ho di essa, il ricordo delle strutturazioni fatte, allora la mia vita è un punto di vista e ciò che chiamo “io” è anch'esso un punto di vista. La mia vita è la sensazione che ho avuto delle percezioni, interne ed esterne.
Ma così come una nuvola è “un gatto” e poco dopo, con uno sforzo, posso far si che diventi un drago, così posso fare con la mia vita. Ma significa ancora di più. Dato che strutturo la realtà non solo in base ai dati percepiti dai sensi (dubbiosi, imprecisi e a volte errati) ma anche confrontando questi dati percepiti con i ricordi (a loro volta strutturazioni di dati dubbiosi, imprecisi e a volte errati), per poter conoscere, riconoscere e imparare, quella che chiamo realtà acquisisce ancora di più la connotazione dell'illusione, della creazione.

Allora mi chiedo “chi sono”? Allora mi chiedo “dove vado”? Ma sopratutto, chi è che fa tutte queste domande? Chi è che osserva? Posso chiudere gli occhi e osservare me stesso, osservare lo sguardo che osserva me stesso. Sento che esiste un punto di vista “altro”, come se fosse qualcosa che non può essere guardato se non da se stesso (Krishna direbbe ad Arjuna: “osservare il Sé in Sé con il Sé”).
A queste domande posso dare una risposta completamente nuova.
Che cosa mi impedisce di essere/ricordare/andare-verso qualcosa di completamente diverso?

venerdì 27 maggio 2016

Sensi provvisori

"Se persegui un fine, ti incateni. Se tutto ciò che fai lo fai come un fine in se, ti liberi"

Ogni volta che penso che ci sia un obiettivo, un traguardo finale, un punto d'arrivo, chiudo il futuro, interrompo il fluire eterno della vita. 
Sono continuamente catturato da una immagine di "illuminazione", di quello stato in cui "finalmente mi fermo" e contemplo la pace, la fine della sofferenza. 
Questa è la mia grande resistenza. La resistenza che ho ad abbandonare questo modo di strutturare la realtà. L'attuale incapacità di eliminare "la morte"; la tendenza a mettere quindi una "fine" anche al mio processo di crescita. La mia illusoria finitudine mi "obbliga" a vedere la finitudine ovunque, anche nel percorso di crescita, diventa "imparare fino ad un certo punto" invece di "imparare senza limiti".

Senza, limiti. Senza.
Ogni passo, ogni percorso, non può portare "sul tetto", ma può portare al pianerottolo successivo. E se questo è il modo corretto, se il percorso è salire, salire e ancora salire, in un "ascendere di comprensione in comprensione", allora fissare lo sguardo sul pianerottolo successivo è fuorviante. 

Il pianerottolo è un momento in cui prendo fiato, prima di salire il gradino successivo. Ma se le cose stanno così, passo molto ma molto più tempo sulle scale che sui pianerottoli.
Allora, forse, vale la pena che, mentre salgo, invece di stare con lo sguardo fisso sul pianerottolo, immaginando quanto sarà bello stare lì, quanta soddisfazione, quanto prestigio, quanta autostima vi dimorano, io goda della salita, goda del piacere di ogni gradino, della fattezza di quel gradino, di come quel gradino mi aiuta a prendere il gradino successivo, di quanto sia difficile salirlo o lasciarlo. Vale la pena che io goda del processo generale, dell'azione del salire e delle resistenze.

E così ogni scalino diventa un pianerottolo, per ogni singolo gradino "è bello stare lì"; in ogni gradino "vi dimora la soddisfazione" e perché no, anche il prestigio e l'autostima. E in ogni gradino, per salire, devi abbandonare quella soddisfazione e fortunatamente anche quel prestigio. E "ogni cosa come un fine in se" non vuol dire quindi "fai il che cazzo ti pare quando ti pare". 

Ogni singolo gesto. Ogni singolo atto, materiale o mentale, può essere a volte un contorno, ma può essere un passo, un gradino e in quanto tale vi può dimorare l'eterno, come l'abisso.

"Parliamo allora dell’unica cosa che meriti di essere trattata: l’abisso e ciò che l’oltrepassa."

lunedì 23 maggio 2016

Livelli di coscienza

Quando dormo, non percepisco alcuni suoni, non percepisco alcune luci, in pratica percepisco dai sensi solamente quei dati che superano una certa soglia o che la coscienza nel livello di sonno riesce ad interpretare come necessari a svegliarmi. Anzi, mi correggo: tutti i dati mi arrivano, ma la coscienza, in livello di sonno, struttura quei dati in modo da mantenere il livello di sonno, integrandoli nella struttura fin quando un dato non perturba la struttura stessa obbligando ad un cambio di livello; questo vale per i dati dei sensi interni ed esterni, come per i dati di memoria. Quindi la coscienza prende tutti questi dati, li traduce, li trasforma, li allegorizza, li rappresenta, cercando di includerli in qualche modo nel livello di sonno (come immagini in un sogno ad esempio). In tal modo, la coscienza, mantiene il livello di sonno e continua a svolgere tranquillamente (più o meno) il suo lavoro nel livello in cui si trova. Come il Maestro ci ha spiegato, il livello tende a mantenersi.
Dal punto di vista del livello di veglia, la coscienza mentre dorme non vede e sente “correttamente” quello che sta accadendo, poiché gli impulsi sensoriali vengono “tradotti” in un modo diverso da quello usato in veglia.

E qui sorge la una comprensione che mi colma allegramente di dubbio.

E se nello stato attuale di veglia o anche coscienza di se... se in questo livello di lavoro della coscienza, stessi facendo esattamente la stessa cosa? Anzi, mi correggo: sono certo che sto facendo esattamente la stessa cosa!

In questo momento, nel livello di veglia e anche in quei brevi periodi di coscienza di se, mi arrivano dati, dati dai sensi interni ed esterni, dati dalla memoria, dati “dalla realtà”; questi dati la coscienza li struttura in modo da mantenere il livello, in modo da poterli correttamente inserire in questo livello e continuare a svolgere tranquillamente (più o meno) il suo lavoro nel livello in cui si trova. Dal punto di vista della “coscienza superiore/oggettiva”, la coscienza in veglia non vede e sente “correttamente” quello che sta accadendo. Sto quindi strutturando tutte le informazioni che ricevo, a partire dal livello di veglia in cui mi trovo e quindi la coscienza non fra altro che rappresentare questi dati in modo che siano “comprensibili”, e “accettabili” nel livello di lavoro di veglia; in modo che non “perturbino” il livello di veglia in cui mi trovo. Dal punto di vista del “risveglio” sto, in tutto e per tutto, dormendo.

Di rado percepisco il reale in modo nuovo e allora capisco che ciò che vedo di solito assomiglia al sogno o al dormiveglia.
...
Quando ero realmente sveglio andavo ascendendo di comprensione in comprensione
...
La reale importanza della vita da sveglio si fece chiara in me.

Chiamate uno bravo, perché 'sta cosa mi ha ammazzato! :D
Che esista o meno questo altro “livello di coscienza” (personalmente credo nel messaggio e che quindi esista il “vero essere sveglio”), comunque ho la certezza basata sull'esperienza, che quello che faccio è una strutturazione e che quindi la realtà non è “così” (se mai esiste un modo in cui la realtà “è”). Non è più una nozione studiata, compresa e accettata perché logica, funzionante e fornita dal Maestro. Ora ho la certezza inamovibile che la realtà in veglia è una strutturazione di dati (interni, esterni, dei sensi, della memoria, della struttura stessa), incompleti e dubbiosi, fatta dalla coscienza, utilizzando lo stesso meccanismo utilizzato durante il sonno, semplicemente ad un livello diverso. E questo innegabile fatto sento essere DETERMINANTE.

venerdì 20 maggio 2016

Biografia in azione

Percepisco.

Nel riconoscere un oggetto percepito (sia tangibile o intangibile, interno o esterno), ricordato o immaginato, sto effettuando un confronto con quanto già percepito/ricordato/immaginato e da quel momento questo oggetto, che sia avvenuto il riconoscimento o sia un conoscimento in quanto nuovo, si va a depositare nella memoria e sarà quindi un nuovo oggetto da riconoscere, riconoscibile, da usare come strumento di confronto. Registro l'oggetto, con tutta la compresenza (oggetti presenti nel campo di compresenza, stato della struttura, clima eccetera).

Tutto ciò che percepisco, lo faccio a partire da informazioni presenti, dal campo di compresenze globale che è la somma di tutte le registrazioni avvenute. Percepisco non solo con i 5 sensi, non solo “oggetti” ma anche gli atti di cui ho “sensazione della risposta” (siano essi atti materiali o atti mentali). E anche queste percezioni avvengono a partire da un sistema di riconoscimento e registrazione basato su una serie di registrazioni già avvenute.

Qualsiasi percezione, qualsiasi giudizio, qualsiasi registro ho della realtà, non è altro che “la mia biografia in azione”, è il mio paesaggio che plasma la realtà attraverso il confronto, è un film proiettato su uno schermo non bianco, ma bensì multicolore, multicolore di ricordi, di registri, di climi, di tensioni, di distensioni. Il registro che ho della realtà è la mia coscienza che interpreta la percezione basandosi sulla biografia. Mettere in moto un'azione di trasformazione del mondo, è mettere in moto un'azione che trasforma il registro che ho del mondo, è un tentativo di “avere un registro diverso del mondo”; ogni azione trasformatrice è un'azione che trasforma il mio paesaggio e il cui effetto è quello di modificare la struttura che interpreterà la realtà successiva.

Fai attenzione a cosa depositi nel tuo paesaggio, perché da quel momento in poi farà parte della realtà., stai costruendo la realtà.

La reale importanza della vita da sveglio si fece chiara in me.
La reale importanza di distruggere le contraddizioni interne mi convinse.

mercoledì 18 maggio 2016

Io

La coscienza è una struttura. Ogni fenomeno che si produce nella mia vita, influenza in qualche modo questa struttura. Per quanto lieve possa essere l'effetto di questo fenomeno sulla struttura (da “mi prude, mi gratto” fino a “è morto mio padre”), inevitabilmente la struttura ne risulterà modificata; la struttura prima del fenomeno e la struttura dopo il fenomeno, non sono uguali. Questo vuol dire che da quel momento in poi, qualsiasi fenomeno interagirà con una struttura leggermente diversa. Da cui ne deriva che “non si prova mai due volte la stessa sensazione”, semplicemente perché non è mai due volte la stessa cosa a provare una sensazione.

Non ci sono due momenti nella nostra vita in cui “siamo uguali”. “La tua vita pesa, i tuoi ricordi pesano, le tue azioni precedenti ti impediscono l'ascesa”. Ogni fenomeno psichico modifica la struttura. Ogni pensiero, ogni insogno, ogni decisione, ogni dubbio, (ogni atto mentale) modifica lo psichismo, depositando in memoria una struttura di dati articolata di percezioni, percezioni della risposta, livelli di lavoro, compresenze, stato della struttura stessa.

E tutto questo è “io”. Tutta questa collezione di registrazioni è “io”. E nonostante la struttura non sia mai uguale a se stessa, ne percepisco comunque una identità inequivocabile. E se quindi esiste questa identità inequivocabile, ma la struttura non è mai uguale a se stessa, cos'è che mi fa dire “questo è io”? Ci deve essere qualcosa di permanente, qualcosa che c'era prima del fenomeno e c'è ancora dopo il fenomeno, qualcosa che rimane, che non viene cambiato dal fenomeno, qualcosa che non fa parte della struttura o che tiene insieme la struttura senza esserne influenzato e che quindi mi fa dire che le due strutture sono “la stessa cosa”.

Ho una struttura. Poi ho un'altra struttura, diversa, molto diversa a volte. Entrambe le riconosco come “la stessa cosa”. C'è qualcosa in queste due strutture che è rimasto uguale a se stesso. Per vederlo, sposto tutta questa somma di registrazioni, questa cosa che “è io” e quando ci riesco, non mi rimane “niente”, perché se fosse “qualcosa”, si modificherebbe insieme alla struttura. Però questo niente esiste ed è ciò che non cambia. Allora dove sta l'inghippo? E' che questo niente non lo puoi localizzare, altrimenti si modificherebbe col corpo e sarebbe qualcosa. Non ne puoi parlare, altrimenti si trasformerebbe in un oggetto e quindi ne verrebbe modificato il registro nel solo “pensarlo”. Questo “niente”, che passa indenne tra i fenomeni, è “niente” per la percezione, solo perché la percezione non può percepirlo; è come dire che gli ultravioletti sono niente per la vista (e quindi per me), ma in realtà questo “niente” può modificare il corpo abbronzandolo.

Questo “niente” quindi non è un niente che “io” può percepire o di cui “io” può parlare. Io non è in grado, non ha gli strumenti per mettere in moto questi atti. “Niente” ha effetto su “io” ma “io” non può avere alcun effetto su niente. L'unica cosa che posso fare è spostare “io” perché niente si manifesti e vedere che effetto ha questo niente sulla struttura e quindi anche su “io”.

Ammazza quanto m'è piaciuto scrivere questa cosa!!

lunedì 16 maggio 2016

Estate e Inverno

Se per te stanno bene il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, hai superato le contraddizioni

Quando mi trovo in una qualsiasi situazione, posso cercare come compensare gli errori, le imperfezioni e le fonti di dispiacere di quella situazione, cercare semplicemente di allontanarmi da esse. Oppure posso meditare su cosa fare con questa situazione, come interagire con essa, come renderla parte della crescita della vita; posso meditare sui registri che questa situazione mi crea, su quali insogni l'accompagnano.

Posso integrare ogni situazione nella realtà che vado configurando, oppure posso lavorare nell'ambito più semplice di adesione/rifiuto. Trovo quindi questa dicotomia tra “adesione/rifiuto” da una parte e “integrazione e inclusione” dall'altra. Ieri mia moglie mi chiede di montare due mensole; inizialmente mi “spazientisco” e “non ho voglia”, poi comprendo che anche montare due mensole può essere fatto meditando, “lo zen e l'arte del fai da tè”.

E' una questione di accento, di focalizzazione. Posso focalizzarmi sul “mondo”, oppure posso porre attenzione sul registro che ho del mondo. Atto o oggetto. L'atto mentale è certo, indubitabile.
Sposto il fuoco attenzionale sull'atto e non sull'oggetto; sul significato in quanto produzione della mente e non sul dato percepito, perché la produzione della mente è certa mentre il dato percepito è dubbioso. Ciò che la mente “produce” è esattamente come è; ciò che i sensi percepiscono, non è come sono le cose.

Superare le contraddizioni inizia quindi superando il meccanismo di rifiuto. Dirmi sempre meno spesso “che palle, non vorrei proprio farla questa cosa, ma devo/è giusto farla” e dirmi sempre più spesso “come posso crescere internamente facendo questa cosa?”. Ogni occasione, in particolare le situazioni ripetitive e noiose, possono essere una occasione di meditazione semplice, di analisi degli insogni. Ogni occasione, in particolare quelle che generano tensioni, ha/è un messaggio della coscienza a se stessa.

venerdì 13 maggio 2016

I Sensi

I sensi.
Mi siedo su quella panchina e osservo gli alberi ondeggiare al vento, in un magico scorcio di Villa Borghese; zone d'ombra tra gli alberi che sembrano antichi luoghi di preghiera. I piccioni zampettano incoscienti... in qualche modo tutto sta bene.

Ma come posso dire che quello che “vedo” è “come lo vedo”? Su quali basi affermo che ciò che percepisco è come lo percepisco?
Lo affermo perché do per scontato che se ci fossero alcune persone vicino a me, confermerebbero la mia percezione; in qualche modo percepirebbero ciò che io sto percependo. Già qui c'è il primo inganno. Non è vero. Anche solo fermandoci alla percezione, gli altri non percepirebbero affatto quello che percepisco io. Uno di questi “altri” potrebbe essere miope, l'altro daltonico, il terzo con un olfatto particolarmente sviluppato, uno sordo da un orecchio (già, sono tutte persone che conosco!!!), vedrebbero alcuni dettagli da un punto di vista leggermente spostato. Queste persone non percepirebbero affatto “ciò che percepisco io”. Devo quindi correggere e dire che: percepirebbero una serie di dati che, con alcuni aggiustamenti e basandoci solamente su certe forme e strutture, potrebbero essere paragonati al modo in cui io percepisco la stessa porzione di realtà; utilizzando quindi una certa soglia di tolleranza, io e gli altri affermiamo che le nostre percezioni del paesaggio in questione “coincidono”; riassumo questo nella frase “l'altro percepisce più o meno quello che percepisco io. Senza contare la possibile esistenza di qualcosa non percepibile con i 5 sensi.

Ma... ci rendiamo conto? Ma di quale realtà stiamo parlando? E dove è decisa questa “soglia di tolleranza” che, superata la quale, ci obbliga a dire che le nostre percezioni non coincidono? E se in futuro l'essere umano sviluppasse la capacità di vedere gli infrarossi o gli ultravioletti? E se dieci persone mi vengono a dire che questa penna che vedo non solo non è blu, ma è anche di legno e non di plastica? Inizialmente penserei che mi stanno prendendo in giro. Poi penserei che sono pazzo. Quindi la certezza di ciò che percepisco è data dalla conferma data dalla percezione altrui, entro una “soglia di tolleranza”... e quando questi “altri” non ci sono, comunque credo in ciò che vedo (e credo che sia come lo vedo) perché ho fede che altri percepirebbero più o meno quello che percepisco io, dando per scontato che nel frattempo nessuno dei miei sensi abbia subito un danno, di cui non sono ancora cosciente, tale da rendere le differenze superiori alla “soglia di tolleranza”.
Mia moglie, quando era incinta, percepiva odori che nessun altro sentiva... C'erano? Erano “nella sua mente”? Il suo olfatto era più sviluppato per via di ormoni o altre alterazioni del senso? Quell'odore era quindi immaginato, o esisteva solamente per chi aveva un olfatto in grado di percepire a quei livelli? Un po' come i cani con il fischietto per cani?
E mi sono fermato ai sensi.

Cosa succede se faccio il passo successivo? Se aggiungo a questa già esistente e innegabile differenza di percezione, l'influenza dello stato d'animo, del tono generale del corpo, dell'insogno... in generale se aggiungo l'intenzione di chi percepisce?

Ho sempre pensato di avere la necessità di un nuovo linguaggio che mi permettesse di comunicare alcune cose. Mi rendo conto che prima di questo linguaggio, ho bisogno di dubitare molto di più. Così che, attraverso il dubbio, io possa porre più attenzione. Più attenzione a ciò che percepisco; più attenzione all'altro, a ciò che lui tenta di descrivere, a ciò che potrebbe sentire, volere, temere, cercare; più attenzione alla “realtà” in tutte le sue forme; più attenzione a me, a quello che penso, a come lo penso, al perché lo penso; più attenzione “dentro” mentre percepisco e faccio attenzione “fuori”.

A volte vivere mi sembra meraviglioso.

mercoledì 11 maggio 2016

Frustrazione e Risentimento

Frustrazione e Risentimento.
Due parole da scrivere con la maiuscola. Due modi di rifiutare il passato, di non accettare il fallimento. 

La Frustrazione. Il desiderio di riconoscimento, il successo. La Frustrazione è la principale negazione della realtà. Di fallimento in fallimento. La Frustrazione si vince di Fallimento in Fallimento, superando le aspettative, superando l'esitismo, comprendendo il valore intrinseco dell'azione, di per se infinitamente superiore a qualsiasi esito. La Frustrazione si supera con il Tentativo.

Il Risentimento è il secondo modo di negare la realtà. Nasce dalla più radicata e fondamentale delle mie credenze: che le azioni degli altri mi facciano soffrire. Che la sofferenza esiste come una specie di magma cosmico che mi viene buttato addosso dagli eventi, dalle persone distratte o malvagie; dalla sfortuna, dall'energia cosmica, dagli dei. Utilizzare questa credenza è il più facile e dannoso dei sistemi per fuggire la contraddizione. Avvelena la mente e il corpo, introducendo un seme oscuro, che cresce rigoglioso di giorno in giorno, alimentandosi della mia paura di vedere “il peccato” e di vivere la Frustrazione. In breve non sono risentito con questo o quello, ma sono genericamente “Risentito”. E “il mondo” lo vedo attraverso il Risentimento.

Risentimento e Frustrazione sono profondamente legati. Non per niente il Maestro li colloca “vicini” nel cammino della guida interna e ne “Il Paesaggio Interno” (“E nella frustrazione e nel risentimento si fa violenza al futuro per farlo curvare e spingerlo ad un ritorno pieno di sofferenza”). Servono Buona Coscienza, Fede ed Entusiasmo, per superare la Frustrazione e il Risentimento. Perché non si possono combattere, si possono solo superare; “salta al di là della tua sofferenza ed allora non crescerà l'abisso, ma la vita che c'è in te”.

Oggi ho imparato il potere di questa cosa: Entusiasmo. E' figlio della Fede e non può esistere vero Entusiasmo senza di essa. E' arma e scudo che usa la Fede. Attenzione, Fede ed Entusiasmo.

“Deve esserti molto chiaro questo: tu non sei in guerra con te stesso. Comincerai a trattarti come tratteresti un amico con cui hai bisogno di riconciliarti perché la vita stessa e l’ignoranza ti hanno allontanato da lui.”

lunedì 9 maggio 2016

Libertà

Scopro la mia mancanza di libertà. Scopro che i miei pensieri sono condizionati, i miei sensi sono condizionati, la mia memoria è condizionata. “Tutto ciò che faccio, sento e penso non dipende da me
Dato tutto questo condizionamento, quale motivazione posso dare all'attaccamento? Quale motivazione può mai avere la bramosia di ottenere? Che senso ha provare cotanto piacere di fronte al successo e tal dolore nel fallimento, visto che tale successo e tale fallimento sono il risultato del condizionamento? Non sono né mio merito né mia colpa? E' quindi questo piacere, questo dolore, esso stesso condizionamento?

E di più. Se io sono così condizionato, anche l'altro è altrettanto condizionato. Che senso ha l'astio, il fastidio? Che senso ha risentirsi per l'azione altrui? Per l'intenzione altrui? Per l'opinione altrui? Per il disprezzo altrui? Per la calunnia altrui? Sono anche questi dei semplici prodotti della meccanica della coscienza e nulla più?

Fin quando non riesco a trovare, a coltivare e ad esprimere coscientemente la libertà e l'intenzionalità, tutta questa ruota di piacere/dolore è solo biologia, chimica. “Per ora lei non mi capisce, poiché non possiede la capacità di pensare come vuole. Il suo apparente stato di libertà non è che un prodotto della chimica”.

Il giudizio, il pregiudizio, il disprezzo, la stima, l'autostima.

Chiudo gli occhi, abbasso il rumore e osservo la mia mente. I processi mentali si susseguono rapidi, quasi impossibili da seguire. Ma hanno una logica inflessibile, immodificabile, apparentemente ingestibile; le stesse “decisioni” che prendo per dare una direzione diversa ad un determinato pensiero, sembra provenire da una stessa logica ferrea precedente. Vista così, da questo punto di vista ingenuo, ogni atto è conseguenza di un evento precedente e nulla più. Ogni atto quindi non è un atto ma un evento che si verifica?

Se è vero come è vero che la realtà che percepisco è una proiezione del mio mondo interno, che interpreta, giudica, riempie di significato qualsiasi dato sensoriale in arrivo... se tutto ciò è vero come io sono convinto che sia, io sono tutto ciò che vedo, quando guardo vedo me stesso. Ma se tutto è condizionato, se non c'è libertà se “io” non riesco realmente ad intervenire su ciò che vedo e penso ma tutto si dà come una meccanica inflessibile... io non sono quello che vedo, vedo semplicemente la biologia e la chimica in azione.

Difficile trovare le parole per esprimere ciò che vorrei esprimere. Percepisco la capacità di percepire. Sento in qualche modo di rendermi conto dell'esistenza di qualcosa che sente di rendersi conto... un qualcosa che chiamo per comodità “Io” (in neretto e con la “I” maiuscola per diversificarla da quell'io illusorio e impermanente). Bene, Io ho la sensazione che tutto ciò che vedo, io lo metto lì dove lo vedo con uno scopo, ma contemporaneamente ho la sensazione di essere totalmente determinato, guidato, incapace di prendere reali decisioni.

Cosa è la libertà? Cosa è l'intenzionalità? Come nasce la vita? Oggi, durante l'esperienza, questa domanda ha aleggiato costantemente su ogni immagine, su ogni emozione, su ogni sensazione. Dove nasce la vita? In quale momento prende corpo Io? Esiste da prima di questa vita? Esisteva prima di questo corpo? E quanto prima? Esistendo senza corpo, quindi senza tempo e spazio, ha senso di parlare di “prima”? Di quando e dove?

Io mi manifesto nella vita in questo corpo e inizio a lottare per liberarmi dai condizionamenti del corpo, della coscienza, dell'io, della biologia e della chimica. “La vita è il mezzo che la mente usa per rompere la rete delle ombre?”.

Per la verità, io ho la sensazione che la libertà esista e che solamente Io la può esercitare, ma non riesco a capire Io, a vedere Io, e quindi non riesco ad esercitare la libertà, l'intenzionalità. Perché se non c'è libertà, nulla ha importanza e tutto è uguale. E' come se la libertà fosse “ciò che l'oltrepassa” quando si dice “l'abisso e ciò che l'oltrepassa”... l'unica cosa di cui vale la pena parlare.

venerdì 6 maggio 2016

Non ho concluso nulla

Giudichiamo noi stessi. Spesso siamo anche molto impietosi
E fin qui, va beh, lo sappiamo
Ma il metro di giudizio? Beh, qui andiamo proprio nel torbido. E' discutendo con una cara, carissima amica, che mi viene in mente il metro di giudizio.
“Non ho concluso gran che”. Ecco... quanta menzogna ci può stare dentro questa frase, apparentemente “solo un po' severa”.
Perché spesso, questa frase, è figlia madre e sorella di questo sistema. Non ho “concluso”? Perché magari non ho messo su famiglia? O perché sono donna e non sono madre? O perché non ho avuto quella promozione, non guadagno abbastanza, non sono servito e riverito? Ho una macchina piccola quando potevo essere un dirigente? Non posso comprare l'aifon a mia figlia?
E questa cara, carissima amica, ha cari, carissimi amici. Ed io ho cari, carissimi amici. Rapporti profondi, significativi, costruiti con impegno, errori e successi; coltivati a volte con sapienza a volte con istinto o disincantata ingenuità... pensando ai quali mi viene da piangere di commozione.
Ho cari, carissimi amici. “Si, anche questo varrà pur qualcosa”. Anche questa frase è figlia sorella e madre di questo “sistema al contrario”. Non è che “vale pur qualcosa”. No, questo è molto, tanto, altro che “pur qualcosa”. 

Ho coltivato, costruito, corretto dei rapporti importanti, profondi. Rapporti che hanno superato difficoltà, errori, imprecisioni. Sono riuscito a guardare oltre quell'insopportabile supponenza, quella noiosa accondiscendenza o quell'inguaribile tristezza o quell'onnipresente ironia, quell'imbarazzo, quel complesso. Sono passato sopra ostacoli e resistenze. Ho fatto grandi cose. Ho cercato di mostrarmi, timoroso, austero ed egocentrico; rabbioso, risentito; sempre in guerra; e non mi sono arreso, e non ci siamo arresi, io e i miei cari, carissimi amici.
Ho concluso un sacco di cose. Ho superato resistenze, combattuto contraddizioni, aiutato cari, carissimi amici. Ho condiviso la paura, la rabbia e il disgusto. Ho anche errato e mentito, ma mi sono anche spogliato di ogni veste cangiante agli occhi dei cari amici, di fronte ai quali non ho esitato di mostrare il desiderio di prestigio, l'odio, la vendetta, l'estraneità, il possesso, la frustrazione e risentimento. Ho mostrato le mie debolezze, accettato di malavoglia i consigli, elargito con gusto i miei. Ho lottato e ho pensato di arrendermi; ho camminato, più o meno a lungo, e mi sono riposato, più o meno a lungo. Mi sono mostrato forte, nascondendomi dietro uno sguardo solenne. Ho fallito, ho vinto, ho perso... 

Ma in fondo al cuore non mi sono mai veramente arreso. E anche grazie alla mia cara, carissima amica, mi sono ricordato di non essermi arreso a questo sistema che mi vorrebbe far dire “non ho concluso gran che” perché non sono “di successo”. 

Questo è forse il migliore dei nostri successi, mio e dei miei cari, carissimi amici. L'esserci continuamente ricordati l'un l'altro che, a volte credendoci molto, a volte credendoci poco, quello che facciamo vale, vale veramente; ha un valore immenso, incalcolabile; ha a che vedere con il destino dell'uomo; è un atto di ribellione nei confronti dell'abisso e di questo sistema che lo alimenta.

Massima disobbedienza all'apparente destino!

mercoledì 4 maggio 2016

Meditazione

Meditare è bellissimo
Credo che potrei passare delle ore a meditare
Osservare i pensieri, dando piccoli input qua e là
Indirizzandoli delicatamente, verso i vari tempi e i vari spazi, mondani o meno
Verso il passato, che riappare in mille guise
Verso quel passato visto finalmente come i goffi tentativi della mente di rompere la rete delle ombre
Vengono fuori eventi a cui non pensavo da ere.
Credo che potrei passare delle ore a meditare.
Con gli occhi chiusi, osservando i pensieri, indirizzandoli delicatamente e scoprendo come si passa da uno all'altro. Delicatamente. Perché sono come l'acqua torbida, che solo senza corrente è limpida e mi permette di vedere l'acqua e il fondale che prima era il torbido, mentre ora che si deposita è il paesaggio.
Credo che potrei passare delle ore a contemplare la mente, portandola verso ieri e verso domani
E' molto più divertente della TV e di facebook e di tutte quelle cose che si fanno quando ci si annoia
Che spassosissima assurdità che è la noia. Quando ce la siamo inventata? E perché poi?

E poi... a volte... mi sembra pure di vedere altro... succedono cose strane... formicola tutto, mi sento i capelli ritti in testa, come svegliandomi di soprassalto. Un po' mi spavento a dirla tutta. Mi sembra di vedere la storia da quando è cominciata (la mia o “la storia” in generale?); mi sembra di vedere le cose e l'attaccamento alle cose, come se fossero due cose ben distinte ed entrambe “le cose” a loro volte distinte da me; “questo non sono io”, “e manco questo”, “tanto meno questo”... e cosa rimane? Ecco, è qua che si rizzano un po' i capelli in testa, quando non so cos'altro togliere e ancora non capisco “cosa rimane”. Quando dico “io” e penso a “me”, a cosa diamine mi riferisco?
L'altro giorno torno dal ristorante e non trovo più il telefono. Per quasi un'ora sono stato malissimo. Poi sono andato a dormire, pensando “Diamine, guarda quanto sto male per questa cosa, è assurdo. E' ora di considerarla una bella opportunità per meditare sulla radice della sofferenza, sugli atti mentali”. Ho dormito... anche bene, mia moglie dice che ho parlato nel sonno riguardo qualcosa sul cellulare di mia figlia. Quando mi sono svegliato, ci pensavo e non ci pensavo al telefono. Qualche tensione e la certezza che oggi, domani o il giorno dopo non mi avrebbe fatto né caldo né freddo. Salgo sul bus, vado a lavoro, e passo tutto il viaggio fino a termini occhi chiusi a meditare su tante cose, tra cui come tutta questa storia del telefono non avrebbe in alcun modo potuto in realtà influire su ciò che conta  davvero: l'abisso e ciò che l'oltrepassa. Poi chiama mia moglie che ha ritrovato il telefono che era caduto sotto un mobile... contento? Moderatamente , ma ovviamente si.
Credo che potrei passare delle ore a meditare. E' meglio della TV. E' più fico della TV anche perché, meditando solo una mezz'oretta, c'è materiale fatto e completo, girato montato e revisionato, per 12 puntate di Big Bang Theory, con tanto di stacco pubblicitario.
Che mondo sarebbe senza Sheldon Cooper?

lunedì 2 maggio 2016

Il passato e l'illusione

Percezione e ricordi

Abbiamo appurato che i sensi percepiscono una serie di dati all'interno di certi valori possibili (niente ultrasuoni, infrarossi, ultravioletti, dettagli microscopici eccetera). Abbiamo inoltre appurato che questi dati a volte sono anche errati (errori di parallasse, echi, effetti ottici, sovraccarichi ecc)

Abbiamo appurato che con questi dati, sono costretto ad ipotizzare una realtà, per muovermi ed agire in essa. Questa realtà rappresentata può essere più o meno “azzeccata”, più o meno “congruente o coerente”. Ma ovviamente, essendo basata su dati incompleti, dubbiosi e a volte proprio errati, non può essere perfetta né isomorfica alla realtà stessa.

Abbiamo appurato che, così come nel livello di sonno la coscienza prende dei dati provenienti dai sensi e li struttura in modo da renderli coerenti con il livello di sonno in cui si trova (trasformandoli ad esempio in immagini oniriche), così la coscienza in veglia prende dati provenienti dai sensi e li struttura in modo da renderli coerenti con l'idea di realtà che ho nel livello di coscienza in cui mi trovo.

Ora, preso atto di tutto ciò; preso atto che prendo dati incerti, incompleti e dubbiosi, li strutturo in una realtà ipotetica il quanto più coerente possibile con “l'idea di realtà che ho”; preso atto di ciò, mi rendo conto che questa “percezione della realtà” in un certo momento la memorizzo in uno o più ricordi.

Cosa significa tutto ciò? Significa non solo che la realtà che strutturo potrebbe differire in modo più che significativo con la realtà strutturata da un altro, ma significa anche che le cose non sono andate come ricordo. Se la mia vita fosse il ricordo che ho di essa, il ricordo delle strutturazioni fatte, allora la mia vita è un punto di vista e ciò che chiamo “io” è anch'esso un punto di vista. La mia vita è la sensazione che ho avuto delle percezioni, interne ed esterne. Ma così come una nuvola è “un gatto” e poco dopo, con uno sforzo, posso far si che diventi un drago, così posso fare con la mia vita. Ma significa ancora di più. Dato che strutturo la realtà non solo in base ai dati percepiti dai sensi (dubbiosi, imprecisi e a volte errati) ma anche confrontando questi dati percepiti con i ricordi (a loro volta strutturazioni di dati dubbiosi, imprecisi e a volte errati), per poter conoscere, riconoscere e imparare, quella che chiamo realtà acquisisce ancora di più la connotazione dell'illusione, della creazione.

Allora mi chiedo “chi sono”? Allora mi chiedo “dove vado”? Ma sopratutto, chi è che fa tutte queste domande? Chi è che osserva? Posso chiudere gli occhi e osservare me stesso, osservare lo sguardo che osserva me stesso. Sento che esiste un punto di vista “altro”, come se fosse qualcosa che non può essere guardato se non da se stesso (Krishna direbbe ad Arjuna: “osservare il Sé in Sé con il Sé”).

A queste domande posso dare una risposta completamente nuova.

Che cosa mi impedisce di essere/ricordare/andare-verso qualcosa di completamente diverso?