L'enigma della percezione

SILO - LAS PALMAS DE GRAN CANARIA, SPAGNA
1 OTTOBRE 1978

INTERVENTO IN UN GRUPPO DI STUDIO



Duemila anni orsono, in una lezione magistrale di Psicologia Descrittiva, il Buddha affrontò uno dei problemi più importanti riguardanti la percezione e la coscienza che la osserva basandosi su un metodo di vissuti. La Psicologia Descrittiva è estremamente diversa dalla psicologia occidentale ufficiale che si preoccupa, invece, di fornire delle spiegazioni sui fenomeni psichici. Se sfogliate un trattato di psicologia, vi renderete conto del fatto che per ogni fenomeno preso in esame viene riportata una grande quantità di spiegazioni, ma mai viene fornito il corretto vissuto del fenomeno stesso. Da questo deriva che le diverse correnti psicologiche finiscono per dare spiegazioni dei fenomeni psichici sempre differenti, che dipendono dai cambiamenti che le loro concezioni e i loro dati subiscono nel corso del tempo e dall’ampliarsi o dal restringersi delle loro conoscenze. Di fatto se prendiamo un trattato di psicologia di cent’anni fa, vi riscontriamo una serie di ingenuità che oggi sarebbero considerate inammissibili. Questo tipo di psicologia priva di un centro proprio è debitrice, in grande misura, dei risultati ottenuti da altre scienze. Certo, una spiegazione neurofisiologica dei fenomeni della coscienza può essere interessante e costituire un progresso; ma presto ci troveremo a fare i conti con una spiegazione più complessa. E’ indubbio che la conoscenza, relativamente alle spiegazioni, progredisca comunque; ma tali spiegazioni nulla aggiungono e nulla tolgono alla descrizione del fenomeno in sé. Invece una descrizione corretta effettuata oltre venticinque secoli fa ci consente di assistere alla comparsa del fenomeno mentale esattamente come se ci fosse offerta oggi. Analogamente una descrizione corretta fornita oggi sarà utile, senza alcun dubbio, per lungo tempo a venire. Questo genere di psicologia, che è descrittiva e non esplicativa (sempre che una spiegazione non sia ineludibile), si basa su vissuti che sono gli stessi per tutti coloro che ascoltano la descrizione. E’ come se descrizioni di questo tipo rendessero gli uomini tutti contemporanei, nonostante essi possano essere estremamente distanti nel tempo, o tutti conterranei, no-nostante possano essere altrettanto distanti nello spazio. Un tal genere di psicologia costituisce inoltre un gesto di avvicinamento a tutte le culture (per quanto diverse esse siano), poiché non mette in evidenza le differenze, né pretende di imporre alle altre lo schema proprio di una cultura. Si tratta di una psicologia che avvicina gli esseri umani, che non li fa sentire differenti. Essa costituisce, insomma, un apporto importante alla comprensione tra i popoli.
Ma torniamo al nostro tema. Si racconta che il Buddha si trovasse in compagnia di un numeroso gruppo di maestri quando, in forma di dialogo, iniziò a sviluppare il discorso che oggi conosciamo come “L’enigma della percezione”.
D’un tratto il Buddha alzò una mano e chiese ad uno dei suoi discepoli prediletti:
- Che cosa vedi, Ananda?
Nel suo stile sobrio il Buddha interrogava e rispondeva sempre con precisione. Ananda, invece, era solito reagire in maniera molto più esuberante, per cui rispose:
- O Nobile Signore! Vedo la mano dell’Illuminato che mi sta davanti, e ora la vedo chiudersi.
- Molto bene, Ananda. Dove vedi la mano, e da dove la vedi?
- O Maestro, vedo la mano del mio nobile Signore che si chiude facendo apparire il pugno. La vedo, naturalmente, fuori di me, e dall’interno di me.
- Molto bene, Ananda. Con che cosa vedi la mano?
- E’ naturale, Maestro, che io la veda con i miei occhi.
- E dimmi, Ananda: la percezione sta nei tuoi occhi?
- Sicuramente, Venerabile Maestro.
- E dimmi, Ananda: che cosa accade quando chiudi gli occhi?
- Nobile Maestro, quando chiudo gli occhi la percezione scompare.
- Questo, Ananda, non è possibile. Ananda, forse la percezione scompare quando questa stanza si fa buia e tu ci vedi sempre di meno?
- Questo è ciò che accade, Maestro.
- E, Ananda, forse la percezione scompare quando questa stanza rimane al buio completo e tu non vedi alcunché pur tenendo gli occhi aperti ?
- O Nobile Maestro, io sono tuo cugino! Ricorda che siamo cresciuti insieme e che, da piccolo, mi volevi molto bene; suvvia, non mi confondere!
- Ananda: se la stanza si fa buia non vedo più gli oggetti, ma i miei occhi continuano a funzionare. Infatti se c’è della luce, io la vedrò filtrare attraverso le palpebre mentre se l’oscurità è totale resterò al buio: perciò la percezione non scompare per il solo fatto di chiudere le palpebre. Dimmi, Ananda, se la percezione sta nell’occhio, da dove vedi la mia mano quando la immagini?
- Signore, credo che se la immaginassi, vedrei la tua mano sempre dall’interno del mio occhio.
- Che cosa vorresti dire, Ananda? Che l’immaginazione sta nell’occhio? Questo non è possibile. Se l’immaginazione stesse nell’occhio, dovresti girare gli occhi verso l’interno per vedere la mano quando l’immagini dentro la tua testa. E questo non è possibile. Perciò dovrai riconoscere che l’immaginazione non si trova nell’occhio. E dunque, dove si trova?
- E’ possibile - replica Ananda - che tanto la visione quanto l’immaginazione non si trovino nell’occhio, bensì dietro di esso. Per questo mi risulta possibile vedere all’indietro quando immagino e vedere quel che si trova davanti al mio occhio quando percepisco.
- Nel secondo caso, Ananda, non vedresti l’oggetto, vedresti l’occhio...
E il discorso prosegue secondo questo schema dialogico.
Andando avanti ne “L’enigma della percezione”, i vissuti descritti diventano sempre più complessi e vengono presentate di volta in volta delle soluzioni provvisorie ai problemi posti; ma anche le obiezioni si fanno di volta in volta più forti e questo finché Ananda, ormai in preda ad una forte inquietudine, chiede al Buddha una spiegazione esauriente su come stiano le cose per quanto riguarda la visione, l’immaginazione e più in generale la coscienza. E il Buddha, che abitualmente è molto stringato e preciso nelle descrizioni, quando si tratta di dare delle spiegazioni, parte da molto lontano e imprime al discorso dei lunghi giri. Proprio in tal modo si chiude questo capitolo, contenuto nella Surangama Sutra, che è uno dei più interessanti testi di studio in materia di percezione.
Quando guardiamo la mano, la vediamo al di fuori di noi e da dentro di noi. In altre parole il luogo in cui l’oggetto ci appare è diverso dal punto d’osservazione dal quale è visto. Se il mio punto d’osservazione fosse al di fuori di me non potrei avere alcuna nozione di ciò che vedo. Di conseguenza il punto d’osservazione deve essere dentro di me, e non fuori, mentre l’oggetto deve essere fuori di me, e non dentro. Quando però immagino la mano nella mia testa, tanto l’immagine quanto il punto di osservazione stanno dentro di me. Nel primo caso, quando da dentro di me vedo la mano al di fuori di me, il punto d’osservazione sembra coincidere approssimativamente con l’occhio. Nel secondo caso, quando immagino la mano dentro di me, il punto d’osservazione non coincide più con l’occhio; infatti mi è possibile vedere la mano rappresentata nella testa a partire dall’occhio puntando verso l’interno, ma anche dalla parte posteriore della testa puntando ancora verso l’interno. Mi è possibile vedere la mano anche dall’alto, o dal basso, e via di seguito, da molti punti di vista. Qui si vuol dire che, trattandosi di una rappresentazione e non di una percezione, il punto d’osservazione non è fisso. Pertanto il punto di osservazione, per quanto concerne la rappresentazione, non è legato all’occhio.
Ora immagino che la mano, che era rappresentata al centro della mia testa, ne esca da dietro: anche in questo caso continuerò ad immaginare la mano a partire dall’interno della testa, nonostante sia passato a rappresentarla al di fuori di essa. Si potrebbe pensare che, in un certo momento, anche il punto d’osservazione esca dalla testa. Ma ciò è impossibile. Facciamo un altro esempio: ora immagino me stesso, collocato di fronte a me che mi guarda. In questo caso, mi è possibile rappresentare quel “me” che mi guarda da qui, da dove mi trovo. Ma potrei anche arrivare a immaginare il mio aspetto come se stessi vedendomi da lì, dal punto in cui si trova quel “me” che mi guarda. Tuttavia, quand’anche mi identificassi con l’immagine di quel “me” che mi guarda, trarrei la sensazione di me stesso da qui dove sono, dal punto in cui il mio corpo si trova. Lo stesso vale quando mi guardo allo specchio: non posso certo credere di stare o di sentirmi dentro lo specchio. Io sto qui che mi guardo lì nello specchio; non sto lì che guardo me qui. In una situazione come questa ci si potrebbe confondere e credere che per il fatto di avere davanti la rappresentazione di se stessi anche il punto d’osservazione si trovi fuori; ma nemmeno in questo caso una cosa del genere è possibile. In determinate condizioni sperimentali (per esempio all’interno di una camera di soppressione sensoriale o “camera del silenzio”), si tende a perdere la nozione dell’io perché vengono a mancare alcuni “riscontri” percettivi, che sono i riferimenti di ordine tattile forniti dalla pelle. E perdendo tali riferimenti e con essi la nozione dell’io, si può avere l’impressione di trovarsi al di fuori del corpo o addirittura di vedersi dal di fuori. Ma se, facendo attenzione, si riprenderà contatto con la propria sensazione di sé, ci si potrà rendere conto del fatto che una simile proiezione tattile e cenestesica non porti affatto “fuori” la sensazione di sé; non si ha una nozione precisa del punto in cui si “registra” il proprio sé semplicemente perché si è persa la sensazione dei limiti del corpo.
Dunque mi è possibile vedere la mano al di fuori di me e da dentro di me, e mi è anche possibile vederla in me e da dentro di me nel caso la stia immaginando. Apparentemente si tratta del medesimo spazio. Ma non è così. C’è uno spazio nel quale si dispongono gli oggetti che osservo, e che posso chiamare spazio di percezione, e ce n’è un altro nel quale si dispongono gli oggetti della rappresentazione e che non coincide con il precedente. Gli oggetti che si collocano nei due diversi spazi possiedono caratteristiche differenti. Se osservo la mia mano, mi rendo conto che essa si trova ad una determinata distanza dal mio occhio. Vedo che mi è più vicina di certi oggetti e più lontana di certi altri. Vedo che alla sua forma corrisponde un colore. E nonostante possa immaginare molte cose riguardo alla mia mano, ciò che si impone è la percezione, non l’immaginazione. Adesso invece immagino la mia mano. Posso immaginare che essa si trovi davanti o dietro un certo oggetto. Ma posso subito cambiarne la collocazione o far sì che diventi piccola piccola o che arrivi a coprire tutto il campo della rappresentazione. Sia la sua forma che il suo colore possono essere modificati. Dunque la collocazione dell’oggetto mentale nello spazio di rappresentazione può cambiare in conseguenza delle mie operazioni mentali, mentre la collocazione degli oggetti nello spazio esterno può cambiare per varie ragioni ma non in conseguenza delle mie operazioni mentali. Mi è certo possibile rappresentare che la colonna qui accanto si sposti; nondimeno, per quanto mi sforzi di immaginare che ciò avvenga, da un punto di vista percettivo essa rimarrà dove si trova. Vi sono, perciò, grandi differenze tra l’oggetto rappresentato e l’oggetto percepito, così come vi sono grandi differenze tra lo spazio di percezione e quello di rappresentazione.
Ma consideriamo un altro aspetto della questione. Chiudo gli occhi e rappresento la mia mano. Non ci sono problemi, come abbiamo visto, finché la rappresento all’interno della testa. Ma dove la rappresento quando chiudo gli occhi e la ricordo dove si trovava, cioè, com’è evidente, fuori della mia testa? Dove la rappresento quando la ricordo? La rappresento forse dentro la testa? No, la rappresento fuori di essa. Ma come è possibile che ricordi gli oggetti visti proprio là dove si trovavano, vale a dire collocati in uno spazio esterno? Perché ricordare un oggetto esterno collocandolo dentro la testa è accettabile; ma ricordare con gli occhi chiusi, senza vederlo, un oggetto che non si colloca dentro la testa bensì al di fuori di essa... che razza di spazio sto vedendo? Delle due l’una: o gli oggetti che ricordo stanno nella mia testa, nonostante io creda di vederli fuori, oppure la mia mente esce dal mio spazio interno ed entra in quello esterno quando chiudo gli occhi e li ricordo. Ma questa seconda alternativa è impossibile. Distinguo perfettamente gli oggetti interni da quelli esterni. Distinguo bene lo spazio di percezione da quello di rappresentazione; ma le mie sensazioni diventano confuse quando rappresento gli oggetti nel luogo in cui essi normalmente si trovano, e cioè al di fuori della mia rappresentazione interna.
Come distinguo un oggetto rappresentato all’interno della mia testa da un oggetto rappresentato o ricordato al di fuori di essa? Li distinguo perché ho la nozione del limite della mia testa. E da che cosa è dato questo limite? E’ dato dalla sensazione tattile delle palpebre; ed è proprio tale sensazione che mi permette di decidere se l’oggetto è rappresentato dentro o fuori della testa. Se le cose stanno così, allora l’oggetto rappresentato fuori non si trova necessariamente fuori, bensì collocato nella parte più superficiale del mio spazio di rappresentazione; e questo mi produce la sensazione, che si traduce in immagine visiva, che l’oggetto si trovi fuori. Ma la sensazione di limite non è visiva bensì tattile.
La rappresentazione è talmente potente che arriva a modificare la percezione. Guardate il sipario qua dietro e poi immaginatelo molto vicino agli occhi. Ora guardatelo nuovamente: noterete di aver bisogno di un certo tempo per metterlo a fuoco. In altre parole: quando immaginate che il sipario si trovi molto vicino agli occhi, questi si focalizzeranno sul sipario immaginato e non su quello reale. Di contro, quando immaginate di vedere un edificio al di là del sipario e poi guardate nuovamente quest’ultimo, gli occhi si focalizzeranno di nuovo; e lo faranno perché in precedenza erano focalizzati diversamente; e questo perché si erano dati una distanza dall’oggetto che gli veniva dall’immagine e non dalla percezione. Dunque l’immagine, la rappresentazione, modifica, adattandola a sé, persino la percezione. Se le cose stanno così, i dati percettivi possono risultare profondamente modificati in conseguenza della rappresentazione che è in atto. Da questo deriva anche che il nostro sistema di rappresentazione non necessariamente riproduce il mondo in generale in quella maniera fedele che noi gli attribuiamo. E ciò appare chiaro se consideriamo che i fenomeni che si collocano nello spazio di rappresentazione non concordano necessariamente con quelli che si collocano nello spazio di percezione. Dunque, visto che i fenomeni della rappresentazione modificano la percezione, ne consegue che la percezione può risultare alterata dal sistema di rappresentazione. E nel dire alterata non mi riferisco a casi eclatanti bensì alla percezione in generale. Le conseguenze di tutto questo sono enormi: infatti la mia rappresentazione, che corrisponde ad un determinato sistema di credenze, mi porterà necessariamente a modificare la visione e la prospettiva che ho del mondo esterno sulla base della percezione.
Posso dirigere il mio corpo verso gli oggetti grazie alla percezione. Ma posso farlo anche grazie alla rappresentazione. Se l’oggetto, invece di essere rappresentato al di fuori della mia testa, vi fosse rappresentato dentro, non potrei indirizzare la mia attività verso di esso. Quando mi trovo in stato di veglia e con gli occhi aperti, il mio punto di osservazione coincide con l’occhio; o meglio, non solo con l’occhio, ma con tutti i sensi esterni. Quando però il mio livello di coscienza si abbassa, il punto d’osservazione si sposta verso l’interno. Ciò accade perché la frangia di percezione dei sensi esterni diventa più stretta, mentre al contempo cresce il vissuto relativo ai sensi interni. Dunque, il punto di vista (che non è se non una struttura di dati di memoria e di dati di percezione) si sposta verso l’interno col diminuire dei dati della percezione esterna e l’aumentare di quelli dell’interna. Questo spostamento assolve ad una funzione precisa: impedire che le immagini del sogno attivino, con le loro cariche, il corpo facendolo muovere nel mondo esterno. Se ciascuna immagine che mi appare in sogno avesse come risultato una qualche attività nel mondo, il sogno non servirebbe molto agli effetti della ricomposizione delle funzioni corporee. Certo questo non vale quando mi trovo in uno stato di sonnambulismo o di sonno alterato, durante il quale può succedermi di parlare, muovermi, agitarmi e magari alzarmi e mettermi a camminare. Ma una situazione di questo tipo è possibile proprio perché il punto di vista, invece di essersi spostato verso l’interno, si mantiene all’esterno seguendo le rappresentazioni.
Quando il mio punto di vista, nonostante mi trovi nello stato di sonno, viene spinto verso la periferia a causa di contenuti problematici o vi viene richiamato a causa di stimoli esterni, le immagini tenderanno a collocarsi nella cappa più esterna dello spazio di rappresentazione e quindi a inviare segnali in direzione del mondo esterno. Quando invece il sonno diventa profondo, il punto di osservazione cade all’interno dello spazio di rappresentazione, e concomitantemente anche le immagini si fanno interne, mentre la struttura generale di tale spazio si modifica. Quindi quando mi trovo in veglia, vedo le cose a partire da me però non vedo me stesso, mentre quando sogno in genere mi capita di vedere la mia immagine. In varie occasioni, però, molte persone non vedono se stesse nei sogni, ma vedono le scene oniriche in modo simile a quello in cui percepiscono il mondo quotidiano. Questo accade perché il loro punto di vista si trova spostato verso i limiti dello spazio di rappresentazione. Il loro non è un sonno tranquillo. Quando però il punto di vista cade all’interno di tale spazio, sono solito vedere me stesso “dal di fuori” allorché mi rappresento nei sogni. Questo non significa che la mia immagine si trovi fuori della mia testa: significa che il mio punto di osservazione si è spostato all’interno dello spazio di rappresentazione, per cui mi trovo ad osservare, come su uno schermo, il film della rappresentazione nel quale compaio io stesso. Ma non percepisco il mondo da dentro di me, come mi accade in veglia: vedo invece me stesso portare a termine determinate operazioni. Lo stesso vale per la memoria più antica. Se ricordate voi stessi a due, tre o quattro anni d’età, non vi succederà di ricordarvi mentre guardate gli oggetti da dentro di voi, bensì di vedere la vostra immagine collocata tra determinati oggetti o compiere determinate azioni. Quanto alle immagini, la memoria più antica opera come la rappresentazione nel livello di sonno profondo e cioè sposta il punto di vista verso le cappe più interne dello spazio di rappresentazione: tale punto di vista non è altra cosa che l’io. L’io si sposta, l’io si colloca a profondità diverse dello spazio della rappresentazione, a partire dall’io si osserva il mondo, a partire dall’io si osservano le proprie rappresentazioni. L’io è variabile, l’io modifica, adattandole a sé, le rappresentazioni, l’io modifica le percezioni come nell’esempio che abbiamo riportato.
Se osservo il funzionamento degli occhi mentre rappresento delle immagini che si trovano a profondità diverse - per esempio mentre immagino di scendere una scala che conduce verso luoghi profondi oppure di salire una scala che porta in alto - vedrò che nel primo caso gli occhi si muoveranno verso il basso, nell’altro caso verso l’alto. Questo significa che gli occhi, nonostante la loro attività sia superflua dato che non c’è alcun oggetto esterno da vedere, seguono le rappresentazioni come se si trattasse di percezioni. Se immagino la mia casa collocata in quella direzione là, i miei occhi tenderanno a muoversi proprio in quella direzione; e se anche non lo facessero, la mia rappresentazione corrisponderebbe comunque a quella direzione dello spazio; se immagino la mia casa collocata nella direzione opposta, accadrà una cosa analoga. Gli occhi, nel loro muoversi verso l’alto o verso il basso seguendo le immagini, finiscono per incontrare oggetti diversi: e questo perché tutti i sistemi di impulsi del corpo sembrano essere connessi allo schermo di rappresentazione verso cui l’io guarda. Quindi in una frangia dello spazio di rappresentazione appariranno gli impulsi di una parte del corpo, in un’altra frangia gli impulsi di un’altra, e così via. E sapete bene che gli impulsi possono tradursi, deformarsi e trasformarsi.
Un esempio di quanto detto ci viene fornito dal seguente caso molto noto. Il nostro soggetto scende all’interno dello scenario costituito dalle proprie immagini: lo fa percorrendo una sorta di tubo. Ma ecco che nella discesa trova all’improvviso una forte resistenza. Questa appare nella forma di una grande testa di gatto che gli impedisce di continuare a scendere nel tubo. Per poter passare il nostro soggetto accarezza, nell’immagine, il collo del gatto: al farlo, questo immediatamente si rimpicciolisce. Simultaneamente il nostro soggetto riscontra una distensione nel collo: a questo punto può passare e riprendere la discesa nel tubo. In altre parole, il gatto che compare in questo esempio non è altro se non l’allegorizzazione di una tensione presente nel collo del soggetto. Nel momento in cui si determina una distensione, il sistema di segnali connessi all’immagine allegorizzata del gatto si trasforma; allora la resistenza diminuisce e il nostro amico può continuare la sua discesa. In un altro caso un diverso soggetto discende nello scenario delle proprie rappresentazioni. Giù, nei luoghi più profondi, d’un tratto s’imbatte in un personaggio che gli porge una piccola pietra scura. Quindi il nostro amico torna a salire fino a raggiungere un piano medio, cioè un piano che ha l’aspetto del mondo della vita quotidiana, anche se costituisce in ogni caso una rappresentazione. A questo punto si presenta un altro personaggio che gli consegna un oggetto che, seppur differente, ha una forma simile a quella dell’oggetto visto giù in basso. Quindi il soggetto riprende a salire, sempre più in alto. Raggiunge la cima di una montagna, si perde tra le nuvole ed ecco che incontra una figura che somiglia ad un angelo, la quale gli consegna un oggetto che pur essendo più luminoso, più chiaro dei precedenti, possiede caratteristiche simili. Il nostro amico si rende conto che nei tre casi l’oggetto si trovava in una posizione precisa dello spazio di rappresentazione: l’oggetto non gli è apparso prima in una posizione, poi in un’altra, e quindi in un’altra ancora, ma sempre, in tutti e tre i piani, diciamo, quasi al centro dello spazio, leggermente spostato verso sinistra. Il punto è che il nostro amico ha, e ricorda di avere, una vertebra artificiale che invia dei segnali; egli non percepisce tali segnali sempre nel medesimo modo, ma sempre essi si traducono in un’immagine.
Dunque i sistemi di allegorizzazione trasformano i segnali dell’intracorpo e li traducono in immagini che si collocano in punti diversi dello spazio di rappresentazione. Non è che l’occhio, nel suo salire e scendere, ad un certo punto scenda ad osservare quel che succede nell’intracorpo: non è che l’occhio finisca nell’esofago, tanto per dirne una. E’ il segnale relativo ad una tensione che arriva allo schermo di rappresentazione, non è l’occhio ad arrivare al punto in cui si dà la tensione. Allora iniziare una discesa significa iniziare a prendere contatto con traduzioni che si collocano a livelli diversi dell’intracorpo; non significa che il mio occhio si introduca nelle viscere e traduca ciò che sto vedendo.
Man mano che vi si discende, lo spazio di rappresentazione diventa sempre più buio mentre man mano che vi si sale si fa sempre più chiaro. Questa è un’esperienza che voi tutti conoscete benissimo. L’aumento progressivo dell’oscurità che accompagna la discesa e l’aumento progressivo della luce che corrisponde all’ascesa sono in realtà legati a due fenomeni: il primo riguarda l’allontanamento dai centri ottici o l’avvicinamento ad essi; il secondo si riferisce ai sistemi abituali di ideazione e di percezione, grazie ai quali abbiamo sempre associato la luce del sole al cielo e la mancanza di luce alle zone profonde. Tutto ciò senza dubbio non vale per gli abitanti delle zone molto fredde e nebbiose nelle quali la neve quasi sempre copre la terra ed il cielo è in genere scuro. D’altra parte anche a grandi altezze esistono oggetti oscuri, e questo nonostante lo spazio di rappresentazione sia ben illuminato; analogamente nelle profondità di tale spazio esistono oggetti chiari. Esistono poi dei punti limite tanto nella salita quanto nella discesa all’interno dello spazio di rappresentazione. Ma questo è un tema che sarà oggetto di altre conversazioni.
Abbiamo esaminato quattordici punti: nel primo abbiamo studiato la collocazione del punto di vista nel caso in cui l’oggetto è esterno; nel secondo la collocazione del punto di vista nel caso in cui l’oggetto è interno; nel terzo abbiamo esaminato il caso in cui il punto di vista si trova collocato nella parte posteriore della testa, oppure “in alto” o “in basso”; nel quarto abbiamo affrontato il problema del falso spostamento del punto di vista che si dà quando il soggetto colloca “di fronte” l’immagine di sé; nel quinto abbiamo studiato ciò che succede quando gli oggetti si collocano nella parte più esterna dello spazio di rappresentazione. Il sesto è stato dedicato a chiarire la differenza tra lo spazio di rappresentazione relativo agli oggetti che sembrano collocarsi “fuori” e quello relativo agli oggetti che sembrano collocarsi “dentro”, differenza determinata dalla barriera tattile costituita dalle palpebre; nel settimo abbiamo analizzato in che modo la percezione possa essere modificata dalla rappresentazione; nell’ottavo abbiamo preso in esame cosa succede quando si cerca di operare con il corpo su un oggetto rappresentato “dentro”; nel nono abbiamo studiato lo spazio di rappresentazione e le sue modificazioni nello stato di veglia; nel decimo ci siamo occupati dello spazio di rappresentazione e delle sue modificazioni nello stato di sonno; nell’undicesimo abbiamo preso in esame alcune proprietà degli oggetti corrispondenti allo spazio interno; nel dodicesimo abbiamo parlato dello spazio di rappresentazione ed abbiamo detto che esso è in rapporto con i diversi punti dell’intracorpo e che può essere descritto come una sorta di schermo; nel tredicesimo abbiamo osservato come lo spazio di rappresentazione tenda ad illuminarsi nella misura in cui si “sale” in esso; infine nel quattordicesimo punto abbiamo osservato come lo spazio di rappresentazione tenda (con le dovute eccezioni) a farsi oscuro nella misura in cui “discendiamo” in esso.

Da quanto abbiamo detto si possono trarre innumerevoli conseguenze.

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