CHE COSA INTENDIAMO OGGI PER UMANESIMO UNIVERSALISTA
COMUNITA’
EMANU-EL, SEDE DELL’EBRAISMO LIBERALE IN ARGENTINA
BUENOS
AIRES, ARGENTINA
24
NOVEMBRE 1994
Ringrazio
la comunità Emanu-El ed il rabbino Sergio Bergman per l’opportunità
che oggi mi offrono di parlare qui. Ringrazio per la loro presenza i
membri della comunità, i correlatori e, in generale, gli amici
dell’umanesimo.
Il
titolo della presente dissertazione postula l’esistenza di un
umanesimo universale: ma, com’è evidente, si tratta di
un’affermazione che dovrà essere provata. Per farlo bisognerà
innanzitutto chiarire che cosa si intenda per “umanesimo”, dato
che sul significato di questa parola non esiste un accordo generale
e quindi sarà necessario chiederci se l’“umanesimo” sia
proprio di una regione del mondo, di una cultura, o se non faccia
parte piuttosto delle radici e del patrimonio di tutta l’umanità.
Sarà anche opportuno mettere subito in chiaro da dove sorge il
nostro interesse per questi temi perché, al non farlo, qualcuno
potrebbe pensare che siamo motivati da una semplice curiosità
storica o magari da uno sfoggio nozionistico di cultura. L’umanesimo
ha per noi il merito speciale di essere non solo storia ma anche
progetto per un mondo futuro e strumento attuale d’azione.
Ci
interessa un umanesimo che contribuisca al miglioramento della vita,
che crei un fronte contro la discriminazione, il fanatismo, lo
sfruttamento e la violenza. In un mondo che corre verso la
globalizzazione e che mostra i sintomi dello scontro tra culture,
etnie e regioni, deve esistere un umanesimo universalista, plurale,
basato sulla convergenza. In un mondo in cui i paesi, le istituzioni
ed i rapporti umani tendono a destrutturarsi, deve esistere un
umanesimo capace di stimolare la ricomposizione delle forze sociali.
In un mondo che ha smarrito il senso e la direzione della vita deve
esistere un umanesimo capace di creare una nuova atmosfera di
riflessione grazie alla quale venga meno l’opposizione irriducibile
tra il personale ed il sociale o tra il sociale ed il personale. Ci
interessa un umanesimo creativo, non un umanesimo ripetitivo; un
nuovo umanesimo che abbia chiari i paradossi di quest’epoca ed
aspiri a risolverli. Questi temi, per qualche verso apparentemente
contraddittori, verranno trattati in modo più dettagliato nel
corso di questo intervento.
Con
la domanda: “Che cosa intendiamo oggi per umanesimo?”, stiamo
puntando tanto all’origine quanto allo stato attuale della
questione. Inizieremo il nostro studio dall’umanesimo storicamente
riconoscibile in Occidente, lasciando però aperta la possibilità di
portare avanti la ricerca anche in altre parti del mondo dove
l’atteggiamento umanista era presente già prima della coniazione
di termini come “umanesimo”, “umanista” o simili. Gli aspetti
più rilevanti di questo atteggiamento, che costituisce il tratto
comune degli umanisti di tutte le culture, possono essere descritti
così: 1. Si riconosce all’essere umano una posizione centrale sia
come valore sia come preoccupazione; 2. si sostiene l’uguaglianza
di tutti gli esseri umani; 3. si accettano e si valorizzano le
diversità personali e culturali; 4. si tende a sviluppare la
conoscenza al di là di quanto accettato, fino a quel momento, come
verità assoluta; 5. si sostiene la libertà di professare qualunque
idea e credenza; 6. si ripudia la violenza.
Se
ci addentriamo nella cultura europea ed in modo particolare in quella
dell’Italia prerinascimentale, risulta che gli studia
humanitatis (lo studio delle “materie umanistiche”) erano
incentrati sulla conoscenza delle lingue greca e latina e ponevano
particolare enfasi sugli autori “classici”. Le “materie
umanistiche” comprendevano: storia, poesia, retorica, grammatica,
letteratura e filosofia morale. Esse affrontavano questioni
genericamente umane, a differenza delle materie proprie dei giuristi,
degli studiosi di canoni e leggi e degli artisti, che erano
finalizzate ad una formazione specificamente professionale.
Ovviamente anche questi studiosi utilizzavano, per la propria
qualificazione, elementi propri delle materie umanistiche ma i loro
studi erano incentrati di preferenza sulle applicazioni pratiche
proprie delle loro rispettive professioni. La differenza tra
“umanisti” e “professionisti” si andò accentuando nella
misura in cui i primi approfondirono gli studi classici e la ricerca
su altre culture; si creò così una sorta di separazione tra la
formazione professionale e l’interesse per tutto ciò che era
genericamente umano e per le umane attività. Questa tendenza
continuò: gli studi degli “umanisti” arrivarono ben presto a
toccare campi molto lontani da quelle che all’epoca venivano intese
come “materie umanistiche”, ed è così che prese le mosse la
grande rivoluzione culturale del Rinascimento.
In
realtà, l’atteggiamento umanista si era sviluppato molto prima e
di esso possiamo trovare traccia nei temi trattati dai “poeti
goliardi” e dalle scuole delle cattedrali francesi del XII secolo.
Invece la parola umanista, che designava un certo tipo di
studioso, cominciò ad essere usata in Italia solo a partire dal
1538. Su questo punto rimando alle osservazioni di A. Campana ed al
suo articolo The origin of the word ‘humanist’ pubblicato
nel 1946. Dico tutto questo per sottolineare il fatto che i primi
umanisti non si riconoscevano affatto in tale designazione, che
entrerà in uso solo molto più tardi. E qui sarà opportuno
ricordare come parole affini, quali humanistische
(“umanistico”), secondo gli studi di Walter Rüegg, comincino ad
essere utilizzate nel 1784, mentre humanismus (“umanesimo”)
inizi a diffondersi solo nel 1808 a partire dai lavori di Niethammer.
E’ verso la metà del secolo scorso che il termine “umanesimo”
circola in quasi tutte le lingue. Stiamo parlando, pertanto, di
designazioni recenti e di interpretazioni di fenomeni che furono
vissuti dai loro protagonisti in un modo molto diverso da quello
ammesso dalla storiografia o dalla storia della cultura del secolo
scorso. Questo punto non mi sembra ozioso e vorrei riprenderlo più
avanti quando esaminerò i diversi significati che la parola
“umanesimo” ha assunto fino ad oggi.
Se
mi si concede una digressione dirò che nel momento attuale questo
substrato storico persiste ancora e con esso la distinzione tra lo
studio delle materie umanistiche che si impartisce nelle università
od in istituti specializzati e l’atteggiamento “umanista”
definito non dalla direzione degli interessi professionali delle
persone che ne sono portatrici ma dal fatto che per esse il fenomeno
umano risulta costituire la preoccupazione centrale. Oggi quando
qualcuno si definisce “umanista” non lo fa riferendosi ai suoi
studi di “materie umanistiche” e, parallelamente, uno studente od
uno studioso di “materie umanistiche” non per questo si considera
“umanista”. L’atteggiamento “umanista” è quasi
generalmente inteso in senso più ampio, quasi totalizzante, al di là
delle specializzazioni accademiche.
Nel
mondo accademico occidentale si suole dare il nome di “umanesimo”
a quel processo di trasformazione della cultura che prese le mosse in
Italia, ed in particolare a Firenze, tra la fine del 1300 e l’inizio
del 1400 e che, con il Rinascimento, giunse a coinvolgere l’Europa
intera. L’umanesimo si caratterizzò per il suo interesse per le
humanae litterae (che erano gli scritti che trattavano le cose
umane), intese in contrapposizione alle divinae litterae (che
si riferivano invece alla divinità). E questo è uno dei motivi per
cui ai suoi esponenti venne dato il nome di “umanisti”. Secondo
questa interpretazione, l’umanesimo risulta essere stato, alle
origini, un fenomeno letterario caratterizzato da una netta tendenza
a rivalutare i contributi della cultura greco-latina, soffocati dalla
visione cristiana medievale. Va notato come la nascita di questo
fenomeno culturale non sia dovuta alla semplice modificazione
endogena dei fattori economici, sociali e politici della società
occidentale, quanto piuttosto al fatto che questa abbia recepito le
influenze trasformatrici provenienti da altri ambienti e civiltà.
L’intenso contatto con la cultura ebraica e con quella musulmana e
l’ampliamento dell’orizzonte geografico crearono un contesto che
incentivò la preoccupazione per l’umano in generale e per la
scoperta delle cose umane.
Credo
che Salvatore Puledda sia nel giusto quando descrive, nel suo
Interpretazioni dell’Umanesimo, il mondo europeo medievale
preumanista come un ambiente chiuso, dal punto di vista temporale e
fisico, che tendeva a negare l’importanza del contatto, che di
fatto avveniva, con altre culture. La storia, dal punto di vista
medievale, è la storia del peccato e della redenzione; la conoscenza
di altre civiltà non illuminate dalla grazia di Dio non riveste
grande interesse; il futuro prepara semplicemente l’Apocalisse ed
il giudizio di Dio. La Terra è immobile e sta al centro
dell’universo, secondo la concezione tolemaica; il tutto è
circondato dalle stelle fisse ed il movimento circolare delle sfere
planetarie è dovuto all’azione di forze angeliche. Questo sistema
termina nell’empireo, sede di Dio, motore immobile che tutto muove.
L’organizzazione sociale è coerente con questa visione: una
struttura gerarchica ereditaria differenzia i nobili dai servi; al
vertice della piramide stanno il Papa e l’Imperatore, a volte
alleati, a volte in lotta per il predominio gerarchico. Il regime
economico medievale, per lo meno fino al secolo XI, è anch’esso
un sistema chiuso, fondato sul consumo del prodotto nel luogo di
produzione. La circolazione monetaria è scarsa, il commercio è
difficile e lento. L’Europa è una potenza continentale assediata
poiché il mare, in quanto via di scambio commerciale, è in mano ai
bizantini e agli arabi. Ma i viaggi di Marco Polo ed il suo contatto
con le culture e la tecnologia dell’estremo oriente; i centri di
insegnamento della Spagna, dai quali i maestri ebrei, arabi e
cristiani irradiano il sapere; la ricerca di nuove vie commerciali
che aggirino la barriera creata dal conflitto bizantino-musulmano; la
formazione di una classe mercantile sempre più attiva; la crescita
di una borghesia cittadina ogni giorno più potente ed infine lo
svilupparsi di istituzioni politiche più efficienti, quali le
signorie in Italia, tutto questo insieme di fattori determinano un
cambiamento profondo nell’atmosfera sociale e questo cambiamento
permette lo sviluppo dell’atteggiamento umanista. Non dimentichiamo
che tale processo conosce l’alternarsi ripetuto di progressi e
regressi e questo fin quando il nuovo atteggiamento non diventa
cosciente.
Cento
anni dopo Petrarca (1304-1374) la conoscenza dei classici è quasi
dieci volte maggiore che in tutti i mille anni precedenti. Petrarca
ricerca e studia gli antichi manoscritti nel tentativo di correggere
una memoria storica deformata; hanno inizio con lui la tendenza alla
ricostruzione del passato ed un nuovo punto di vista sullo scorrere
della storia, allora ostacolato dall’immobilismo proprio
dell’epoca. Un altro dei primi umanisti, Manetti, nella sua opera
De dignitate et excellentia hominis (Sulla dignità e
l’eccellenza dell’uomo), rivendica la dignità dell’essere
umano contro il Contemptus mundi, il disprezzo del mondo,
predicato da quel monaco Lotario che in seguito divenne Papa con il
nome di Innocenzo III. Quindi Lorenzo Valla nel suo De voluptate
(Sul piacere) attacca il concetto etico del dolore vigente nella
società del suo tempo. E così, mentre il sistema economico e le
strutture sociali si modificano, gli umanisti si sforzano di rendere
cosciente questo processo di trasformazione producendo un’immensa
quantità di opere grazie alle quali l’umanesimo prende forma a
poco a poco. Ma l’umanesimo ben presto travalicherà l’ambito
strettamente culturale e finirà per mettere in discussione le
strutture del potere in mano alla Chiesa ed al monarca.
Numerosi
specialisti hanno messo in evidenza come già nell’umanesimo
prerinascimentale compaia una nuova immagine dell’essere umano e
della personalità umana. Secondo questa nuova concezione, la
personalità umana si costruisce e si esprime nell’azione ed è in
tal senso che la volontà viene ad assumere un’importanza maggiore
dell’intelligenza speculativa. Parallelamente si fa strada una
nuova attitudine nei confronti della natura: questa non è più una
valle di lacrime creata da Dio per i mortali bensì l’ambiente
dell’essere umano ed in alcuni casi la sede ed il corpo della
stessa divinità. Questa nuova attitudine favorisce lo studio dei
diversi aspetti del mondo materiale e fa sorgere la tendenza a
spiegare tale mondo sulla base di un insieme di forze immanenti senza
ricorrere a concetti teologici. Da questo deriva un netto
orientamento verso la sperimentazione e verso il dominio delle leggi
naturali. Il mondo è ora il regno dell’uomo e sta a lui dominarlo
grazie al sapere, grazie alle Scienze.
Proprio
sulla base di questo orientamento, gli studiosi del XIX secolo hanno
annoverato tra gli “umanisti” non soltanto personalità
letterarie ma hanno collocato, a fianco di Nicola di Cusa, Rodolfo
Agricola, Juan Reuchlin, Erasmo, Tommaso Moro, Jacques Lefevre,
Charles Bouillé, Juan Vives, anche Leonardo e Galileo.
E’
noto come molti temi introdotti dagli umanisti abbiano esercitato
un’influenza che è andata ben oltre il periodo rinascimentale:
essa è infatti rintracciabile negli enciclopedisti e nei
rivoluzionari del XVIII secolo. Ma dopo le rivoluzioni americana e
francese ha inizio il declino dell’atteggiamento umanista che
finisce per scomparire. L’idealismo critico, l’idealismo assoluto
ed il romanticismo, ispiratori di filosofie politiche assolutiste, si
lasciano alle spalle l’idea che l’essere umano sia il valore
centrale e trasformano l’essere umano stesso nell’epifenomeno di
altre forze. Questa “cosificazione”, questo”lui” al posto di
un “tu”, come farà notare con acutezza Martin Buber, si
affermano ben presto in tutto il pianeta. Ma la tragedia delle due
guerre mondiali tocca le radici stesse della società e così, di
fronte a qualcosa che sembra assurdo, sorge nuovamente la domanda:
quale è il significato dell’essere umano? Questa domanda si fa
presente soprattutto nelle cosiddette “filosofie dell’esistenza”.
Alla fine di questo intervento tornerò sulla situazione
dell’umanesimo contemporaneo. Per ora vorrei mettere in risalto
alcuni aspetti fondamentali dell’umanesimo e, tra questi,
l’atteggiamento antidiscriminatorio e la tendenza all’universalità.
I
temi della tolleranza reciproca e quello della convergenza sulla base
della tolleranza sono molto cari all’umanesimo e per questo vorrei
sottoporre nuovamente alla vostra attenzione quanto spiegato dal
professor Bauer nella sua conferenza del 3 novembre scorso. Bauer si
è espresso in questi termini:
“Nella
società feudale musulmana, in particolare in Spagna, la situazione
degli ebrei era molto diversa. Di una loro emarginazione sociale non
è possibile nemmeno parlare, così come non è possibile parlarne
nel caso dei cristiani. E solo in via del tutto eccezionale potevano
insorgere quelle tendenze che oggi chiameremmo “fondamentaliste”.
La religione dominante non si identificava con l’ordine sociale
nella stessa misura in cui ciò avveniva nell’Europa cristiana.
Analogamente, non è davvero il caso di usare termini quali
“divisione ideologica”, per quanto esistessero, parallelamente ed
in rapporto di tolleranza reciproca, culti differenti. Si
frequentavano insieme, senza divisioni, le scuole e le università
ufficiali; cosa, questa, inconcepibile nella società cristiana
medievale. Il grande Maimonide in gioventù fu discepolo ed amico del
filosofo arabo Ibn Roshd (Averroè). E se è vero che, più tardi,
gli ebrei e lo stesso Maimonide subirono pressioni e persecuzioni da
parte dei fanatici di origine africana che si erano impadroniti del
potere nell’al-Andalus, è vero anche che Averroè per loro non era
che un eretico per cui non sfuggì alla condanna. In un’atmosfera
di questo genere sì che poteva nascere, tanto da parte dei musulmani
che degli ebrei, un umanesimo ampio e profondo... In Italia la
situazione era simile, non solo durante il breve periodo della
dominazione islamica in Sicilia ma anche in seguito e per molto tempo
addirittura durante il dominio diretto del Papato. Un monarca di
origine tedesca, Federico II di Hohenstaufen, che regnava in Sicilia
ed era egli stesso poeta, ebbe l’audacia di dichiarare che il
proprio regime era fondato su una triplice base ideologica: la
cristiana, l’ebrea e la musulmana e di arrivare a stabilire,
attraverso quest’ultima, la continuità con la filosofia greca
classica.”
Fin
qui la citazione.
Per
quanto attiene all’umanesimo nelle culture ebrea ed araba non c’è
alcuna difficoltà a rinvenirne le tracce; vorrei limitarmi a
riportare alcune osservazioni dell’accademico russo Artur Sagadeev
tratte dalla conferenza da lui tenuta a Mosca nel novembre dell’anno
passato, dal titolo “L’umanesimo nel pensiero musulmano
classico”. Sagadeev ha osservato:
“(...)
l’umanesimo nel mondo musulmano poggiava sullo sviluppo delle città
e sulla loro cultura. Dalle cifre che seguono sarà possibile farsi
un’idea del grado di urbanizzazione del mondo musulmano: nelle tre
più grandi città della Savad - ovvero, la Mesopotamia meridionale -
e nelle due più grandi dell’Egitto viveva all’incirca il venti
per cento della popolazione complessiva. La percentuale dei residenti
in città con una popolazione superiore ai centomila abitanti
superava, nella Mesopotamia e nell’Egitto dei secoli VIII e X,
quella di paesi dell’Europa Occidentale del secolo XIX quali
l’Inghilterra, l’Olanda, il Galles o la Francia. Secondo i
calcoli più accurati, Bagdad contava a quel tempo quattrocentomila
abitanti, e la popolazione di città come Fustat (che in seguito
divenne Il Cairo), Cordova, Alessandria, Kufa e Bassora era compresa
tra i cento e i duecentomila abitanti. La concentrazione nelle città
di grandi risorse provenienti dal commercio e dalle tasse determinò,
nel Medioevo, la nascita di una frangia piuttosto numerosa di
intellettuali, portò ad una dinamizzazione della vita spirituale e
creò una situazione di prosperità per la scienza, la letteratura
e le arti. Al centro dell’attenzione, in ogni campo, stava l’essere
umano, inteso sia come genere umano che come personalità singola. Va
sottolineato come il mondo musulmano, a differenza dell’Europa
medievale, non abbia conosciuto una divisione negli orientamenti
assiologici tra la cultura urbana e la cultura ad essa opposta, che
in Europa era rappresentata dagli abitanti dei monasteri e da quelli
dei castelli feudali. I responsabili dell’educazione teologica ed i
gruppi sociali che nel mondo musulmano svolgevano una funzione
analoga a quelli feudali in Europa vivevano nelle città, dove
subivano l’influenza poderosa della cultura che si era formata tra
i cittadini musulmani facoltosi. Possiamo farci un’idea di quale
fosse l’orientamento assiologico di tali abitanti, prendendo in
esame il gruppo di riferimento che tendevano ad imitare, perché
incarnava quei tratti distintivi considerati indispensabili in una
persona illustre e ben educata. Tale gruppo di riferimento era
costituito dagli Adib, persone di vasti interessi, istruite e dotate
di profondo senso morale. L’Adab, vale a dire l’insieme delle
qualità proprie dell’Adib, comportava profondi ideali di condotta
nella vita cittadina e di corte, la raffinatezza e l’umorismo e,
per la sua funzione intellettuale e morale, era sinonimo di quel che
i greci avevano indicato con la parola ‘paideia’ ed i latini con
‘humanitas’. Gli Adib incarnavano gli ideali dell’umanesimo e
nel contempo ne diffondevano le idee, che a volte assumevano la forma
di lapidarie sentenze, quali: ‘l’uomo è il problema dell’uomo’;
‘chi attraversa il nostro mare non troverà altra sponda se non se
stesso’. L’insistenza sul destino terreno dell’essere umano,
così tipica degli Adib, li portava a volte allo scetticismo
religioso; anzi, tra le loro fila non mancavano figure assai in vista
che ostentavano il proprio ateismo. L’Adab inizialmente indicava le
norme di comportamento, l’etichetta, dei beduini; il termine
assunse un significato propriamente umanista quando il Califfato,
per la prima volta da Alessandro Magno, divenne il centro di
interrelazione tra differenti tradizioni culturali e tra differenti
gruppi confessionali, il centro che univa il Mediterraneo al mondo
indo-iraniano. Nel periodo di prosperità della cultura musulmana
medievale, l’Adab attribuì alla conoscenza della filosofia greca
antica un grandissimo valore ed assimilò i programmi educativi dei
filosofi greci. Per la messa in pratica di tali programmi i musulmani
disponevano di enormi possibilità: basti dire che, secondo il
calcolo degli specialisti, nella sola Cordova si concentravano più
libri che in tutta Europa, escludendo l’al-Andalus. Il Califfato,
divenuto centro di influenze reciproche tra culture diverse,
mescolando tra loro differenti gruppi etnici, contribuì alla
formazione di un altro elemento dell’umanesimo: l’universalismo,
ovvero l’idea dell’unità del genere umano. La formazione di
questa idea aveva come correlato nella vita reale il fatto che le
terre abitate dai musulmani si estendevano dal corso del Volga a Nord
fino al Madagascar a Sud e dalla costa atlantica dell’Africa ad
Occidente fino alla costa pacifica dell’Asia ad Oriente. Anche dopo
la disintegrazione dell’Impero musulmano che portò alla
formazione, sulle sue rovine, di piccoli stati comparabili ai
possedimenti dei successori di Alessandro Magno, i fedeli dell’Islam
continuarono a vivere uniti da una sola religione, una sola lingua
letteraria comune, una sola legge, una sola cultura e nella vita
quotidiana continuarono ad avere rapporti con svariati gruppi
confessionali molto diversi da loro, con i quali ci fu un continuo
scambio di valori culturali. Lo spirito dell’universalismo dominava
nei circoli scientifici (i ‘Madjalis’) i quali univano musulmani,
cristiani, ebrei ed atei che provenivano dagli angoli più remoti
del mondo musulmano ma condividevano interessi intellettuali comuni.
Li univa quella ‘ideologia dell’amicizia’ che in precedenza
aveva unito le scuole filosofiche dell’antichità - quali, ad
esempio, gli stoici, gli epicurei, i neoplatonici, ecc. - e che
avrebbe tenuto unito, nel Rinascimento italiano, il circolo di
Marsilio Ficino. Sul piano teorico, i princìpi dell’universalismo
erano già stati elaborati nel quadro del Kalam o teologia
speculativa; in seguito divennero il fondamento della concezione del
mondo tanto per i filosofi razionalisti quanto per i mistici sufi.
Nelle discussioni organizzate dai teologi Mutakallim (i ‘Maestri
dell’Islam’), alle quali partecipavano i rappresentanti di
differenti confessioni, la norma era dimostrare l’autenticità
delle tesi non con riferimenti ai testi sacri, dato che questi non
avrebbero offerto ai rappresentanti di altre religioni alcun sostegno
per la discussione, ma basandosi esclusivamente sulla ragione umana”.
La
lettura di questo brano di Sagadeev non rende merito della ricchezza
di un lavoro che ci descrive costumi, vita quotidiana, arte,
religiosità, diritto ed attività economica del mondo musulmano
all’epoca del suo splendore umanista. Vorrei passare ora ad
un’altra opera, anch’essa di un accademico russo, specializzato
però nelle culture d’America. Il professor Sergei Semenov, nel suo
saggio monografico dello scorso agosto, intitolato Tradizioni e
innovazioni umaniste nel mondo ibero-americano, utilizza un
approccio completamente nuovo per la ricerca dell’atteggiamento
umanista all’interno delle grandi culture dell’America
precolombiana.
Vi
lascio alle sue parole: “(...) Possiamo rintracciare nozioni di
umanesimo in America centrale ed in America del Sud in epoca
precolombiana. Nel primo caso si tratta del mito di Quetzalcoatl, nel
secondo della leggenda di Viracocha, due divinità che rifiutavano i
sacrifici umani, generalmente di prigionieri di guerra appartenenti
ad altre tribù. I sacrifici umani erano comuni in America centrale
prima della conquista spagnola. Tuttavia, tanto i miti e le leggende
indigene che le cronache spagnole ed i monumenti della cultura
materiale dimostrano come il culto di Quetzalcoatl, che compare negli
anni 1200-1100 dell’era precedente alla nostra, sia strettamente
legato, nella coscienza dei popoli di questa regione, alla lotta
contro i sacrifici umani ed all’affermazione di norme morali che
condannano l’assassinio, il furto e la guerra. Stando a quanto
narrato da un ciclo di leggende, il governante tolteco della città
di Tula, Topiltzin, che assunse il nome di Quetzalcoatl e visse nel
secolo X della nostra era, aveva tutte le caratteristiche di un vero
eroe culturale. Secondo tali leggende, egli insegnò agli abitanti di
Tula l’arte dell’oreficeria, proibì di compiere sacrifici umani
od animali ed ordinò che agli dei venissero offerti soltanto fiori,
pane ed essenze profumate. Topiltzin condannava l’assassinio, la
guerra ed il furto. Secondo la leggenda aveva l’aspetto di un uomo
bianco ma non era biondo, bensì di capelli scuri. Alcuni dicono che
scomparve nel mare, altri che ascese al cielo avvolto dalle fiamme,
consegnando alla stella del mattino la speranza del suo ritorno. A
questo eroe si attribuisce l’affermazione in America centrale dello
stile di vita umanista denominato ‘toltecayotl’, che fu
assimilato non solo dai toltechi ma anche dai popoli vicini che
ereditarono le loro tradizioni. Questo stile di vita si basava su una
serie di princìpi: fratellanza tra tutti gli esseri umani, ricerca
di un continuo perfezionamento, venerazione per il lavoro, onestà,
fedeltà alla parola data, studio dei segreti della natura e visione
ottimista del mondo. Le leggende dei popoli maya dello stesso periodo
testimoniano l’attività di un governante o sacerdote della città
di Chichen-Itzà, fondatore della città di Mayapan, chiamato
Kukulkan, equivalente maya di Quetzalcoatl. Un altro rappresentante
della tendenza umanista in America centrale fu il governante della
città di Texcoco, il filosofo e poeta Netzahualcoyotl, che visse tra
il 1402 e il 1472. Anche questo saggio rifiutò i sacrifici umani,
cantò l’amicizia tra i popoli ed esercitò una profonda influenza
sulla cultura delle popolazioni del Messico. In America del Sud
troviamo un movimento simile all’inizio del XV secolo. Esso è
legato ai nomi dell’Inca Cuzi Yupanqui, che ricevette il nome di
Pachacutéc, ‘il riformatore’, ed a quello di suo figlio Tupac
Yupanqui, ed all’espandersi del culto di Viracocha. Così come era
costume in America centrale, e come già prima di lui aveva fatto suo
padre Ripa Yupanqui, Pachacutéc assunse il titolo di dio e si chiamò
Viracocha. Le norme morali sulle quali si reggeva ufficialmente la
società di Tahuantinsuyo erano legate al culto di Pachacutéc ed
alle riforme da lui attuate. Pachacutéc, proprio come Topiltzin,
aveva tutte le caratteristiche dell’eroe culturale.”
Termino
qui la citazione da un’opera che è, ovviamente, ben più estesa e
sostanziosa.
Con
la lettura di questi due testi ho voluto mostrare alcuni esempi della
presenza di quello che chiamiamo “atteggiamento umanista” in
aree geografiche molto distanti tra loro, presenza che evidentemente
possiamo rintracciare in certi periodi precisi per ciascuna cultura.
E dico “periodi precisi” perché tale atteggiamento sembra ora
retrocedere ed ora avanzare secondo un ritmo ondulatorio nel corso
della storia ed addirittura scomparire definitivamente, in alcuni
casi, in quei tempi senza ritorno che precedono il collasso di una
civiltà. Comprenderete che stabilire dei legami tra civiltà per
mezzo dei loro “momenti” umanisti è un compito arduo e di grande
portata. Se nel momento attuale i gruppi etnici e religiosi si
ripiegano su se stessi alla ricerca di una forte identità, questo
significa che sta crescendo una sorta di sciovinismo culturale o
regionale che minaccia di innescare uno scontro con altre etnie,
culture o religioni. Ma la persona che legittimamente ama il proprio
popolo e la propria cultura deve poter comprendere che in se stessa
e nelle proprie radici è esistito o esiste un “momento umanista”
che la rende universale per definizione e simile all’altra che ha
di fronte. Si tratta, insomma, di differenze che non potranno essere
spazzate via da nessuno. Si tratta di differenze che non
costituiscono né una remora né un difetto né un fattore di ritardo
ma che, al contrario, sono la ricchezza stessa dell’umanità. Il
problema non sta nelle differenze bensì nel come portarle a
convergere ed è ai “momenti umanisti” che mi riferisco quando
parlo dei punti di convergenza.
Vorrei,
per concludere, riprendere il discorso sullo stato della questione
umanista nel momento attuale. Abbiamo detto che in seguito alle due
catastrofi mondiali i filosofi dell’esistenza riaprirono il
dibattito su un tema che sembrava morto e sepolto. Ma questo
dibattito partì dall’ammissione che l’umanesimo fosse una
filosofia quando in realtà non si trattò mai di una posizione
filosofica ma di una prospettiva e di un atteggiamento di fronte alla
vita ed alle cose. Se nel dibattito si dette per valida la
descrizione dell’umanesimo propria del XIX secolo, non risulta
strano che pensatori come Foucault abbiano accusato l’umanesimo di
essere un prodotto tipico di quel secolo. Già prima Heidegger aveva
espresso una posizione contraria all’umanesimo che aveva
considerato, nella sua Lettera sull’Umanesimo, null’altro
che un’ennesima “metafisica”. Forse la discussione si basò
sulla posizione sostenuta dall’esistenzialismo sartriano che
formulò la questione in termini filosofici. Osservando queste cose
dalla prospettiva attuale ci sembra eccessivo accettare
l’interpretazione di un fatto come il fatto stesso e, partendo da
essa, attribuire al fatto determinate caratteristiche. Althusser,
Lévi-Strauss e vari altri strutturalisti hanno fatto aperta
professione di anti-umanesimo nelle loro opere, così come altri
filosofi hanno difeso l’umanesimo intendendolo come una metafisica
o quanto meno come un’antropologia. In realtà l’umanesimo
storico occidentale non fu in nessun caso una filosofia, neppure in
Pico della Mirandola od in Marsilio Ficino. Il fatto che numerosi
filosofi condividessero un atteggiamento umanista non implica che
questo fosse una filosofia. D’altra parte, se l’umanesimo del
Rinascimento si interessò ai temi della “filosofia morale”,
questa preoccupazione deve essere intesa come uno sforzo in più per
porre fine alla manipolazione pratica operata in questo campo dalla
filosofia scolastica medievale. Partendo dall’errore di
interpretare l’umanesimo come una filosofia è facile arrivare a
posizioni naturaliste come quelle espresse nello Humanist
Manifesto del 1933, o a posizioni social-liberali come quelle
dello Humanist Manifesto II del 1974. Stando così le cose,
non sorprende che vari autori tra i quali Lamont abbiano definito il
proprio umanesimo come naturalista ed anti-idealista, proclamando il
rifiuto del soprannaturale, l’evoluzionismo radicale, l’inesistenza
dell’anima, l’autosufficienza dell’uomo, la libertà della
volontà, l’etica intra-mondana, il valore dell’arte e
l’umanitarismo. Credo che tali autori abbiano tutto il diritto di
caratterizzare così le proprie concezioni ma mi pare eccessivo
sostenere che l’umanesimo storico si sia mosso all’interno di
questo orizzonte. D’altra parte penso che la proliferazione di
“umanesimi” negli anni recenti sia del tutto legittima, sempre
che questi si presentino come forme particolari di umanesimo, senza
la pretesa di assolutizzarne l’idea. Credo anche, infine, che
l’umanesimo sia attualmente in condizioni di diventare una
filosofia, una morale, uno strumento di azione ed uno stile di vita.
La
discussione filosofica portata avanti contro un umanesimo storico -
ed in più localizzato in una precisa area geografica - è stata mal
formulata. Il dibattito comincia solo ora e le obiezioni
dell’anti-umanesimo dovranno dimostrare la loro validità
confrontandosi con quanto il Nuovo Umanesimo universalista propone
oggi. Dobbiamo riconoscere che tutta questa discussione ha avuto un
tono un po’ provinciale e che ormai non è più possibile sostenere
che l’umanesimo sia apparso in un’unica parte del mondo, che
solo lì possa essere discusso e che il resto del mondo debba seguire
quella specie di modello da esportazione. Concediamo pure che il
copyright, il monopolio della parola “umanesimo”,
appartenga ad una certa area geografica. Di fatto questa discussione
si riferisce all’umanesimo occidentale, europeo ed in certa misura
ciceroniano. Noi, però, abbiamo sostenuto che l’umanesimo non fu
mai una filosofia ma una prospettiva ed un atteggiamento di fronte
alla vita: allora, che cosa ci impedisce di estendere la nostra
ricerca dall’Occidente ad altre regioni del pianeta e riconoscere
che tale atteggiamento vi si manifestò in modo simile? Se, al
contrario, fissiamo l’umanesimo storico come una filosofia e, per
di più, come una filosofia specifica dell’Occidente, non solo
commettiamo un errore ma finiamo anche per innalzare una barriera
insuperabile che impedisce il dialogo con gli atteggiamenti umanisti
di tutte le culture della Terra. Se mi permetto di insistere su
questo punto non è solo per le conseguenze teoriche che la posizione
di cui parlavamo ha avuto ma anche per le conseguenze negative che
essa ha direttamente nella pratica.
Nell’umanesimo
storico esisteva la profonda credenza che la conoscenza ed il
controllo delle leggi naturali avrebbe portato alla liberazione
dell’umanità, che tale conoscenza fosse patrimonio di tutte le
culture e che si dovesse imparare da ciascuna di esse. Ma oggi
abbiamo chiaro come il sapere, la conoscenza, la scienza e la
tecnologia possano essere oggetto di manipolazione e come la
conoscenza sia spesso servita da strumento di dominazione. Il mondo
è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta. Alcuni hanno creduto
che la religiosità abbrutisse la coscienza e quindi, per imporre
paternalisticamente la libertà, si sono scagliati contro le
religioni. Oggi emergono violente reazioni religiose che non
rispettano la libertà di coscienza. Il mondo è cambiato e la nostra
esperienza è cresciuta. Alcuni hanno pensato che qualunque
differenza culturale costituisse una divergenza e che quindi
bisognasse uniformare i costumi e gli stili di vita. Oggi si
manifestano violente reazioni a questi tentativi di uniformazione ed
anzi varie culture cercano di imporre i propri valori senza
rispettare la diversità. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza
è cresciuta...
Ed
oggi, di fronte a questa tragica scomparsa della ragione, di fronte a
sempre nuovi sintomi di neo-irrazionalismo che sembrano sommergerci,
si ascoltano ancora gli echi di quel razionalismo primitivo nel
quale sono state educate varie generazioni. Molti dicono: “Avevamo
ragione quando cercavamo di farla finita con le religioni, perché
se ci fossimo riusciti oggi non ci sarebbero guerre di religione;
avevamo ragione quando cercavamo di liquidare la diversità, perché
se ci fossimo riusciti ora non si accenderebbero le lotte tra etnie e
culture!” Ma i razionalisti di questa schiatta non sono mai
riusciti ad imporre il loro culto filosofico unico, né il loro stile
di vita unico, né la loro cultura unica, e questo è ciò che conta.
E conta soprattutto la discussione per risolvere i drammatici
conflitti che si stanno presentando oggi. Quanto tempo ci vorrà
ancora per capire che una cultura ed i suoi capisaldi intellettuali o
comportamentali non sono affatto dei modelli che tutta l’umanità
deve seguire? Dico questo perché forse è il momento di riflettere
seriamente sul cambiamento del mondo e di noi stessi. E’ facile
pretendere che cambino gli altri: il punto è che gli altri pensano
la stessa cosa. Non sarà tempo di iniziare a riconoscere l’“altro”,
la diversità del ‘tu’? Credo che oggi sia sul tappeto con più
urgenza che mai il problema del cambiamento del mondo e che questo
cambiamento, per poter essere positivo, debba andare di pari passo
con il cambiamento personale. Dopo tutto, la mia vita ha senso
solo se voglio viverla e solo se posso scegliere le condizioni della
mia esistenza e della vita in generale o lottare per esse.
L’antagonismo tra l’aspetto personale e quello sociale della
vita non ha dato buoni risultati, per cui è da considerare
seriamente se non abbia più senso una relazione convergente tra i
due termini. L’antagonismo tra le culture non ci porta sulla strada
giusta, per cui diventa imprescindibile riconsiderare un modo di
riconoscere la diversità culturale vero soltanto a parole; e diventa
inoltre imprescindibile lo studio di una possibile convergenza delle
culture che porti alla creazione di una nazione umana universale.
Per
ultimo c’è da dire che non poche pecche sono state attribuite agli
umanisti di tutte le epoche. Si è detto che anche Machiavelli era un
umanista che cercava di comprendere le leggi che reggono il potere;
che lo stesso Galileo mostrò una sorta di debolezza morale di fronte
alla barbarie dell’Inquisizione; che Leonardo annoverava, tra le
sue invenzioni, delle macchine da guerra molto perfezionate,
disegnate per il Principe. E, continuando su questo registro, si è
affermato che anche molti scrittori, pensatori e scienziati
contemporanei hanno mostrato debolezze dello stesso genere.
Sicuramente c’è del vero in tutto questo: ma dobbiamo essere
giusti nella nostra valutazione dei fatti. Einstein non ha avuto a
che vedere con la fabbricazione della bomba atomica; il suo merito
risiede nell’invenzione della cellula fotoelettrica, grazie alla
quale si sono sviluppate tante industrie, comprese il cinema e la
televisione, ed il suo genio si è rivelato soprattutto nella
formulazione di una grande teoria assoluta: la teoria della
Relatività. Ed Einstein non ha mostrato debolezze morali di fronte
alla nuova Inquisizione. Né tantomeno Oppenheimer al quale il
progetto Manhattan, finalizzato alla costruzione di uno strumento che
mettesse fine al conflitto mondiale, era stato presentato solo come
un’arma dissuasiva, che mai sarebbe stata utilizzata contro degli
esseri umani. Oppenheimer fu vilmente tradito e per questo fece
sentire con forza la sua voce appellandosi alla coscienza morale
degli scienziati: per questo fu destituito dall’incarico che
ricopriva, per questo fu perseguitato dal Maccartismo. Molti difetti
morali attribuiti a persone che hanno manifestato un atteggiamento
umanista non hanno a che vedere con la loro posizione nei confronti
della società o della scienza ma con la loro stoffa di esseri umani
posti di fronte al dolore e alla sofferenza. Se parliamo di coerenza
e di forza morale, la figura di Giordano Bruno di fronte al martirio
appare come il paradigma dell’umanista classico e, al nostro tempo,
tanto Einstein quanto Oppenheimer possono essere giustamente
considerati umanisti tutti d’un pezzo. E perché, andando al di là
del campo della scienza, non dovremmo considerare come dei genuini
umanisti Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King? Forse Schweitzer non è
stato un umanista? Sono sicuro che milioni di persone in tutto il
mondo affrontano la vita con un atteggiamento umanista ma se cito
solo alcune personalità è perché esse costituiscono modelli di
umanesimo universalmente riconosciuti. So che a tali individui
possono essere rimproverati alcuni comportamenti, qualche volta il
modo di agire od il senso dell’opportunità od il tatto, ma non
possiamo negare il loro impegno nei confronti degli altri esseri
umani. D’altra parte, non siamo qui per pontificare su chi sia
umanista e su chi non lo sia ma per presentare la nostra opinione,
con tutte le limitazioni del caso, sull’Umanesimo. Ma se qualcuno
esigesse da noi una definizione dell’atteggiamento umanista in
questo momento storico, gli risponderemmo con poche parole che “è
un umanista chiunque lotti contro la discriminazione e la violenza e
proponga delle alternative affinché la libertà di scelta
dell’essere umano possa manifestarsi”.
Nient’altro.
Molte grazie.
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