giovedì 30 novembre 2017

Ciò che ha senso fare

Il tutto si riduce alla fine nella ricerca di pace. La ricerca di pace interiore, di tranquillità.
Quello che vogliamo, in definitiva, è semplice e si chiama “stare bene”. Di fronte alla possibilità di ottenere la certezza di una vita serena, felice e tranquilla, dal più disperato degli emarginati, al più ricco dei potenti, nessuno saprebbe nel proprio intimo dire di no.

Vorrei semplicemente affrontare la vita con il cuore leggero e ampio. Niente fulmini e saette, niente luci o suoni, poteri fisici o mentali. Quello a cui aspiro è semplicemente una vita serena, allegra, cosciente.

Con questo obiettivo in mente porto avanti tutto il mio lavoro evolutivo. Scopro quindi che il mio lavoro evolutivo è una ricerca della pace interiore; la ricerca della capacità di osservare gli eventi in totale libertà interiore; la ricerca della comprensione della differenza tra amore e attaccamento, tra gioia e dipendenza. E tutto inizia semplicemente dal corpo, dalle sue tensioni, dalle sue necessità, dai suoi segnali. Tutto inizia semplicemente imparando a rilassare il corpo. Una, due, cinque, cinquanta volte al giorno, osservo il mio corpo, scopro i punti tesi, e rilasso lì dove posso. E quando ho tempo, chiudo gli occhi, e vado più a fondo in ogni tensione, cercando la radice del conflitto, dove nasce la violenza che è in me, il desiderio di controllo, l'attaccamento e la paura del cambiamento, l'inerzia della meccanica naturale e biologica.

E scopro quindi lo specchio. Lo specchio nel quale mi guardo giorno dopo giorno dopo giorno. E parlo con te che sei lì, di fronte a me, e immagino le reazioni che avrai alle cose solo perché sono le reazioni che avrei io se fossi te, non quelli che avresti te se fossi te, che sei te. Qui imparo a spostare lo specchio e a pensare veramente a te, chi sei, cosa fai, e a chiedere a te, chi sei, cosa fai, cosa pensi. 

Esercito quindi me stesso ad affrontare la vita con il cuore ampio. Esercito la mente a farsi di tanto in tanto da parte, per cogliere i segnali che giungono dal Profondo, là dove posso giungere solo se non porto con me il pensiero, il concetto, il simbolo, l'allegoria, il giudizio, l'idea né alcun altro oggetto mentale, compreso l'io. Non ho potere su tutto ciò che accade, perché le cose sono come sono e vanno come vanno. Ma ho potere su come guardo le cose, cosa provo quando mi trovo nelle cose, con le cose. 

Sempre più spesso scopro che sono veramente in grado di decidere come guardare le cose e di conseguenza cosa provare quando capitano le cose. Perché le cose sono in me ed io sono nelle cose. Non c'è reale distinzione né separazione. Esiste un unico fenomeno nell'esistente; è la vita che si esprime, l'universo che si manifesta, altri lo chiamano Dio, altri ancora Tao. Io sono la vita che si esprime, mi esprimo nelle cose, le cose sono la vita che si esprime in me, attraverso me, con me.

Allora si, di nuovo, mi osservo. Immagino come vorrei essere. Lo immagino con molta calma, con grande attenzione, connettendomi in profondità con ciò che vorrei essere in relazione alle cose della vita, quelle che hanno un nome, una forma e un colore, non a cose così, ipotetiche. Come vorrei reagire in quella situazione là, che mi capita di tanto in tanto? Proprio quella là specifica, non una situazione generica che gli somiglia. Come mi vorrei sentire? Adesso, qui, pensando alle cose della vita, cosa vorrei veramente provare? Cosa vorrei essere in grado di dire e fare in questa e quella situazione? Cosa vorrei provare pensando al mio papà? Come posso migliorare questo mondo? Sia quello fuori che quello dentro

Ecco, questo è l'obiettivo di una vita, ciò che ha senso fare. Cercare con tenacia di essere ciò che vorrei essere, rinunciando a ciò che ho sempre creduto di dover essere, che fosse meglio essere, che convenisse essere. 

Togliere tutti gli ostacoli che impediscono all'essere più profondo ed essenziale di manifestarsi, partendo dalle tensioni corporee. Perché in finale, andando all'essenza più profonda delle cose, nulla può farmi veramente male.

giovedì 16 novembre 2017

Modificare i comportamenti

Questa riflessione la devo tutta ad una carissima amica ungherese.

Modificare un comportamento è per me fonte di grande contraddizione. Se tento di modificare un comportamento che non mi piace, produco una forte contraddizione, tra un “vorrei fare” e un “non vorrei fare”.
Se un comportamento mi risulta “naturale”... se un comportamento mi risulta quello che meccanicamente terrei... il tentare di non avere quel comportamento diviene una lotta tra due “me”. Se poi non voglio avere quel comportamento perché è scortese o non corretto nei confronti di qualcuno, mi si genera anche un certo astio, un certo risentimento, nei confronti di questa persona su cui proietto la colpa della mia contraddizione.

Intervenire direttamente su un comportamento è un atto assolutamente superficiale, che agisce sul sintomo e non sul problema. Mi porta a grandissima frustrazione, che ondeggia come un pendolo tra il “non ci sono riuscito” al “che fatica  mantenere costantemente un comportamento diverso da quello che in realtà vorrei tenere”, due situazioni di tensione permanente.

Se “naturalmente” e “meccanicamente” ho voglia di trattarti male, dirmi che non devo farlo perché non è rispettoso nei tuoi confronti è ridicolo, poiché se voglio trattarti male vuol dire che già non ti rispetto, come essere umano.

Quello che posso fare invece è meditare in profondità sulla radice di quel comportamento. Perché non ti rispetto? In quale punto si annida losco il risentimento? In quale luogo perdo la percezione dell'umano che è in te? In che momento ti rendo oggetto e protesi della mia intenzione, per usarti e cancellare la tua intenzionalità? Per rispettarti come essere umano, non posso “smettere di non rispettarti” ma devo scovare in quale luogo della mia coscienza si annida la violenza.

Non posso modificare un comportamento modificando un comportamento. Non è di nessun interesse “modificare un comportamento”. I comportamenti si modificano come effetto della propria evoluzione interna, poiché i comportamenti sono il prodotto di uno stato interno, di una credenza, e un comportamento che non mi piace è il prodotto di una contraddizione, è il prodotto di un conflitto interno, è il prodotto di un risentimento, di una riconciliazione mancante, di una credenza fallimentare, di un attaccamento alle proprie opinioni, al proprio ego, all'immagine di sé.

Allora, mentre cerco di non trattare male l'altro perché “devo”, creando in me la contraddizione tra ciò che so essere giusto e ciò che meccanicamente “vorrei” fare, ho un compito fondamentale che è quello di comprendere in profondità la violenza che è in me.

Non c'è possibilità per me di “modificare un comportamento” se non occasionalmente e per brevi momenti. Non è quella la strada. Il comportamento “odiato” deve essere la mia spia luminosa, la traccia da seguire per trovare la contraddizione, il segnale d'errore, il sintomo della malattia. Non qualcosa “da cancellare” ma qualcosa che mi porti a comprendere, il mio filo d'Arianna.

“Únicamente puedes acabar con la violencia en ti y en los demás y en el mundo que te rodea, por la fe interna y la meditación interna
...
Ese tipo de sufrimiento, que es estrictamente de tu mente, retrocede frente a la fe, frente a la alegría de vivir, frente al amor.”

giovedì 9 novembre 2017

Limiti del pensiero

Rilasso completamente il corpo ed acquieto la mente.

Seguo lentamente e con attenzione il fluire dei pensieri, il trasformarsi di un pensiero in un altro. Tutto segue una logica inflessibile, magari a volte oscura, ma inflessibile. Ogni pensiero sembra provenire da un pensiero già pensato; la memoria sorge apparentemente spontanea, e ogni atto mentale è frutto di un paesaggio che è già in me... 

Ma se ogni pensiero è frutto di un pensiero precedente, la vita diviene semplicemente la proiezione di un paesaggio.
Il maestro dice:
3. E se la vita è solo lo specchio che riflette un paesaggio, come potrà cambiare ciò che riflette?
4. Tra la fredda meccanica dei pendoli ed i fantasmi di un’ottica di soli specchi, che cosa puoi affermare tu senza negare, o senza tornare indietro o senza ricorrere ad una ripetizione aritmetica?

Comprendo che il pensiero è insufficiente, ma lo posso comprendere solamente dopo aver spinto il pensiero fino ai suoi limiti. Solo dopo aver tentato in ogni modo di liberare la mente dai vincoli della memoria e del determinismo, posso arrendermi all'evidenza. Dopo aver tentato ogni strada, aver tentato di pensare ogni pensiero e aver tentato di pensare al di là del pensiero, lo spazio vuoto tra i pensieri, il silenzio dietro i suoni, posso veramente accettare che c'è un limite oltre il quale il pensiero non può andare e quindi comprendere che il pensiero è insufficiente.

Ma c'è un limite... e nel concetto stesso di limite esiste la separazione tra due “luoghi”. Se esiste un limite oltre il quale la mente non può andare, esiste un “luogo” al quale la mente non può accedere, ma che esiste, o non ci sarebbe il limite.

Allora spingo la mia mente fino a quel limite e, come dice un mio caro amico, mi siedo. E seduto su quel limite, ad osservare l'abisso che non può essere contemplato, in uno strano momento qualcosa si lancia in qualche posto. E' un “luogo” dove il pensiero non può andare e quindi non può essere pensato e quindi non è il pensiero che si lancia in quel luogo, ma altro... alcuni lo chiamano il Sé, il Sé più profondo, l'Io profondo, Dio, la Buddhità... e la mente si spegne, in attesa che quel qualcosa ritorni da quel dove. Il nulla?

E poi quel qualcosa torna da quel dove e la mente si riattiva... E' qualcosa che torna da un dove, non il nulla che torna dal nulla. E nel tornare porta con se delle cose... e iniziano le concomitanti, le luci, i suoni, le allegorie, le immagini, i ricordi, le emozioni... e ancora una volta il pensiero tenta di riaffermarsi e riaffermare. E chiama queste concomitanti “l'esperienza”.

Ma non è così. Non è il pensiero ad avere l'esperienza. Non è l'io ad avere l'esperienza. L'io e il pensiero fanno un inevitabile tentativo di afferrare l'inafferrabile, dando colore, forma e movimento a ciò che non ne ha. E come dice un altro mio amico, l'io atterrito trema e si pente pensando “ma cosa diavolo ho combinato?”

E posso quindi solo rilassare completamente il corpo ed acquietare la mente, per accettare che non sono il pensiero e la memoria, né il determinismo, né l'io, ma sono anche ciò che non può essere pensato. E quella parte di me che va dove il pensiero non può giungere ha la sua dignità, la sua compassione. E nel tornare da quel dove, porta con se delle cose, che alimenteranno il determinismo e la memoria, come un seme invisibile, come un calore lontano. Che fosse questo morire? Lanciare un'ultima volta il Sé oltre i limiti del pensiero? E' per questo che l'io ne ha tanta paura?

Tutto ciò che mi rimane da fare, è spingere il pensiero verso i limiti del pensiero... e rilassare le tensioni. Il resto di ciò che fa la mente, è azione e reazione.

5. Se dici sì a ciò che cerca se stesso, a ciò che ha per natura il trasformarsi, a ciò che non trova sazietà in se stesso e che è essenzialmente aperto al futuro, allora ami la realtà che costruisci. Questa è allora la tua vita: la realtà che costruisci!
6. E ci sarà azione e reazione ed anche riflesso e incidente; ma se avrai aperto il tuo futuro, niente potrà fermarti.