SILO - INCONTRO
CON L’ORDINE BUDDISTA (SANGHA) IN
SARVODAYA,
COLOMBO,
SRI LANKA
20
OTTOBRE 1981
Saluto
il Sangha - le sorelle, i fratelli, i membri anziani - e tutti i
presenti.
Il
dottor Ariyaratne ci ha fatto oggetto della sua stima e gli siamo
grati per le nobili parole che ha avuto per noi.
Quando
siamo arrivati in questo centro siamo rimasti realmente colpiti sia
dall’essenzialità che dalla qualità del lavoro che vi si svolge.
Noi abbiamo parlato spesso di umanizzare la Terra, ma questo è un
progetto che deve essere messo in pratica. Umanizzare la Terra
potrebbe rimanere solo un’idea; qui abbiamo visto come possa
diventare una realtà. Qui abbiamo visto, sopra ogni altra cosa, una
forza morale che avanza. Di contro abbiamo visto come la Terra, alle
più diverse latitudini, si stia disumanizzando, come il mondo tutto
si stia disumanizzando.
Io
vengo da un luogo dove l’economia è basata sull’agricoltura e
con i miei stessi occhi ho potuto assistere in pochi anni
all’abbandono delle campagne e alla concentrazione della
popolazione nelle città. Ho anche assistito al processo di
distruzione del nucleo familiare tradizionale e alla
marginalizzazione degli anziani. I campi si sono spopolati mentre le
grandi città crescevano, creando periferie affollate di gente
oppressa dalla miseria. Se il dato che ci fornisce l’ONU è vero,
nel 1950 metà della popolazione del mondo viveva in campagna e
l’altra metà in centri urbani di diversa dimensione. Ma se
l’attuale tendenza statistica continuerà, sembra che verso il 2000
più del 90% dei lavoratori della Terra vivrà nelle città. Le
conseguenze che ne deriveranno non potranno che essere esplosive
sotto tutti i punti di vista.
Il
lavoro che abbiamo visto svolgersi nei diversi organismi sociali di
Sarvodaya rimanda ad un’idea che, in tema di decentralizzazione e
di creazione di saldi centri contadini, prefigura una nuova
possibilità per il mondo. La domanda che sorge è: riusciremo a far
sì che le nuove generazioni possano vivere in centri come questo,
dove l’attenzione alla salute, all’istruzione, alla possibilità
di lavoro per tutti sono una realtà palpabile? E dove, nonostante si
tratti di un’area rurale, si possano trovare cultura e strutture di
livello universitario?
Il
processo mondiale cui stiamo assistendo porta ad una sempre più
spinta concentrazione nelle città. Concentrazione dei capitali nelle
mani di pochi, concentrazione della popolazione, concentrazione in
ogni senso. Le decentralizzazioni sono solo apparenti e servono a
distruggere l’ordine precedente e a promuovere concentrazioni ad un
livello più alto. Se gli Stati si disintegrano, c’è una
concentrazione dello Stato Parallelo; se le imprese centralizzate si
disintegrano, c’è un rafforzamento delle corporazioni e del
capitale finanziario. Sembra che la forza centrifuga sia scomparsa:
tutto si concentra, la decentralizzazione è solo apparente, non
essendo altro che un passo in più verso la rottura dei vecchi
schemi, i cui componenti saranno ben presto inclusi in una
concentrazione più grande.
L’essere
umano, poi, è diventato nient’altro che un consumista. Ciascuno
pensa di essere il centro di tutto, che tutto esista solo in sua
funzione. Qui, a Sarvodaya, vengono proposte idee nuove e nuovi
comportamenti, che vanno in direzione opposta a quella appena detta.
Qui l’essere umano non viene concepito secondo l’ideologia del
consumismo: qui si risponde alle esigenze fondamentali. Qui si
distribuisce e si decentralizza, si porta la cultura nelle campagne.
Qui, in definitiva, si cerca di disinnescare il processo compulsivo
in cui vive il mondo d’oggi. Comprendere questa esperienza è della
massima importanza: indipendentemente dal successo che avrà, è già
nel futuro; è, di per se stessa, un’azione valida.
D’altra
parte credo di aver compreso la visione dell’uomo e della società
che è propria di Sarvodaya... Qui, mi sembra, l’uomo non viene
considerato un individuo isolato, bensì un essere sempre in rapporto
con la società. Il retroterra di questa concezione sta nell’idea
di compassione. Un’idea a cui corrisponde un’azione che ha per
fine non chi la compie ma l’altro. Mi sembra di aver intuito che
qui le persone non si preoccupino tanto della sofferenza toccata
loro in sorte quanto piuttosto della sofferenza degli altri.
E’
esattamente questo il punto di vista che noi sosteniamo da molto
tempo. Noi diciamo che i problemi non si risolvono all’interno
della propria coscienza; noi diciamo che è necessario superare
l’ostacolo costituito dai propri problemi ed andare verso il dolore
dell’altro. Questo è l’atto morale per eccellenza: “Tratta gli
altri come vorresti essere trattato”.
Ci
sono persone che pensano di avere molti problemi personali, per cui
non fanno nulla per gli altri. In Occidente ha davvero
dell’incredibile vedere quante persone con un buon livello di vita
si trovino nell’impossibilità di aiutare gli altri perché
convinte di avere innumerevoli problemi. Certo, è anche possibile
vedere, e noi lo abbiamo visto, gli strati più poveri della
popolazione passare per difficoltà oggettive enormi, senza perdere
però la disponibilità ad avvicinarsi agli altri, a condividere con
gli altri il proprio cibo, senza perdere lo slancio necessario a
superare la propria sofferenza ed a prodursi in continui atti di
solidarietà.
Qui
abbiamo visto la stessa forza morale, ma in una forma organizzata ed
in espansione: la forza che è diretta verso gli altri e che ci
migliora nella misura in cui vinciamo la sofferenza degli altri... La
nostra conoscenza di questo centro non è molto profonda; tuttavia,
abbiamo osservato a lungo e con molta attenzione gli occhi dei
bambini riscattati dalla strada, abbiamo osservato il sorriso e il
comportamento di chi lavora qui ed abbiamo compreso come dietro tutto
questo ci sia, ancora una volta, una forza morale che avanza.
Questo
è un grande movimento sociale, di più: è un movimento spirituale
ma che io definirei meglio proprio come una grande forza morale che
avanza. Questa è l’impressione positiva del poco che ho visto a
Sarvodaya e che potrò trasmettere; debbo anche dire, d’altra
parte, che avrei bisogno di più tempo per trarre da tutto questo un
insegnamento più profondo.
Vi
ringrazio per l’attenzione.
(segue
la trascrizione della discussione)
-
Vorremmo ascoltare il suo messaggio. Nel Buddismo theravada si chiama
Sila la regola morale che conduce alla retta azione: lei sicuramente
deve darle molto risalto.
-
Venerabile Maestro, il mio messaggio è molto semplice e può essere
applicato alla vita d’ogni giorno: è un messaggio che si rivolge
all’individuo e all’ambiente che più da vicino lo circonda. E’
un messaggio che non si rivolge al mondo in generale ma alle persone
che amano, vivono e soffrono insieme al loro compagno o alla loro
compagna, insieme alla loro famiglia, agli amici, insieme a chi è
loro vicino.
Certo
il mondo ha tanti problemi gravi ma avrei perso il senso della misura
se il mio desiderio di cambiare il mondo non si basasse sulle mie
reali possibilità: le uniche cose che posso cambiare sono l’ambiente
che più da vicino mi circonda e, in qualche misura, me stesso. Solo
nel caso in cui le mie possibilità di azione e di trasformazione
andassero oltre, il mio prossimo sarebbe qualcosa di più della mia
compagna o del mio compagno, del mio amico o del mio collega di
lavoro.
Noi
diciamo che bisogna avere coscienza dei propri limiti per poter
portare avanti un’azione saggia ed efficace. Pertanto in tutti i
luoghi che visitiamo proponiamo la formazione di piccoli gruppi che
leghino il singolo individuo all’ambiente che più da vicino lo
circonda. Questi gruppi potranno essere di qualunque tipo, potranno
radicarsi nel tessuto urbano od altrove ma dovranno mettere insieme
tutti i volontari che vogliano andare oltre i propri problemi
personali per dedicarsi agli altri. Man mano che cresceranno, questi
piccoli gruppi tenderanno a collegarsi tra di loro e così
cresceranno anche le loro possibilità di trasformazione.
Su
che cosa si basa la crescita di questi gruppi e che cosa li unisce?
Li fa crescere e li unisce l’idea che dare sia meglio che ricevere,
l’idea che qualunque azione che abbia per fine il soggetto stesso
che la compie genera contraddizione e sofferenza, l’idea che le
azioni che abbiano per fine l’altro siano le uniche capaci di farci
superare la nostra sofferenza.
Non
è la saggezza a permettere all’uomo di superare la propria
sofferenza. Possono esserci un retto pensiero ed una retta intenzione
ma può mancare una retta azione: non esiste retta azione che non sia
ispirata dalla compassione. La compassione - questo fondamentale
atteggiamento umano che motiva un modo di agire che si fa carico
degli altri - sta alla base di ogni crescita individuale e sociale.
Come
ben sapete queste cose sono state dette molto tempo fa. Qui non
stiamo dicendo nulla di nuovo ma solo tentando di far prendere
coscienza del fatto che la chiusura, l’individualismo, il
considerare se stessi come fine delle proprie azioni, tutto questo
sta portando l’uomo contemporaneo verso la disintegrazione. Eppure
sembra che queste idee così semplici siano, in tanta parte del
mondo, difficili da capire. Ci sono poi molte persone convinte che il
rinchiudersi nei propri problemi eviti loro, perlomeno, ulteriori
difficoltà. Il che evidentemente non è vero: anzi, è vero il
contrario. La contraddizione personale contamina l’ambiente
circostante.
Quando
parlo di contraddizione, parlo di azioni che danneggiano chi le
compie. Quando faccio cose contrarie a quel che sento, sto tradendo
me stesso. Questo comportamento mi crea una sofferenza permanente
che però non rimane chiusa dentro di me ma contagia quanti mi
circondano. Così la sofferenza che nasce dalla contraddizione
personale e che solo apparentemente è un fatto individuale finisce
per trasformarsi in sofferenza sociale.
C’è
un solo atto che permette all’essere umano di spezzare le sue
contraddizioni e la sua sofferenza permanente: è l’atto morale con
il quale si volge verso gli altri per aiutarli a superare la loro
sofferenza. Se aiuto l’altro a superare la sua sofferenza, di me in
seguito ricorderò la bontà; in cambio, se compio un’azione
contraddittoria, poi la ricorderò come un momento che ha stravolto
la mia vita. Dunque le azioni contraddittorie fanno girare al
contrario la ruota della vita, mentre le azioni che hanno lo scopo di
far superare all’altro la propria sofferenza mettono in moto la
ruota della vita.
Qualunque
atto che abbia per fine colui chi lo compie porta fatalmente alla
contraddizione e finisce per contaminare l’ambiente circostante.
Anche la sapienza intellettuale più pura, se resta chiusa in chi la
possiede, porta alla contraddizione. Questo è tempo d’azione ed
azione significa aiutare gli altri a superare la loro sofferenza.
Questa è la retta azione, la compassione, l’atto morale per
eccellenza.
-
Ma il fatto che gli uni aiutano gli altri non crea il rischio che “il
cieco aiuti il cieco”?
-
Venerabile Maestro, è possibile che un cieco ricorra ad altri sensi.
E’ possibile che un cieco senta, nel cuore della notte, il rumore
di una cascata lontana o lo strisciare di un serpente. Perciò è
possibile che un cieco, basandosi su altri sensi, metta in guardia
chi non ha un udito altrettanto sottile sull’esistenza di un
pericolo nelle vicinanze. Dirò di più: quel cieco non è solo utile
per chi si trova nella sua stessa condizione ma lo è anche per chi
ha gli occhi e, nel buio della notte, non li può utilizzare.
-
Perché l’armonia possa sorgere in noi è necessario che facciamo
qualcosa in noi stessi. Un bambino cresce in modo naturale, senza
pensarci mai, ma il suo comportamento non ha ancora una direzione e
non l’avrà finché egli non comincerà ad apprendere qualcosa su
di sé. Anche le forze della natura agiscono senza una direzione,
senza coscienza di quel che fanno.
-
Venerabile Maestro, l’essere umano apprende facendo e apprende
nella misura in cui fa. Una persona impara a scrivere a macchina solo
esercitandosi ed è tra successi ed errori che perfeziona i propri
movimenti. Noi diciamo che si apprende tramite l’azione. Lo stesso
fatto di pensare costituisce un’azione primaria della coscienza.
Certo, lasciare che i pensieri divaghino non è la stessa cosa che
dare ad essi una direzione. Ma il fatto di dare ai propri pensieri
una determinata direzione implica già un’azione da parte della
coscienza. E quando mi prefiggo di smettere di pensare e di fare il
vuoto mentale, sto compiendo un’azione che segue tale direzione.
-
Le chiediamo: è l’azione il fattore primario rispetto al pensiero
od è il pensiero ad avere la precedenza sull’azione?
-
Venerabile Maestro, dal nostro punto di vista non ci sono, quanto a
questo, cause ed effetti lineari. Si tratta di un circuito che si
retroalimenta, all’interno del quale una cosa incessantemente
supera l’altra ed è questo a produrre la crescita. Espresso in
immagini visive: se lo vediamo dall’alto, questo processo ci
apparirà di forma circolare, simile ad una ruota; se lo vediamo di
profilo comprenderemo che si tratta di una spirale in movimento, che
cresce ad ogni giro. Ne consegue che una persona in un certo momento
può anche non sapere una cosa, ma quanto più lavorerà sul tema in
questione tanto più la sua esperienza si arricchirà e da questo
arricchimento sorgeranno nuove idee; idee che poi si applicheranno su
quel tema. In questo senso l’essere umano, rispetto agli altri
esseri viventi, è cresciuto, ed è cresciuto confrontandosi con il
dolore del proprio corpo, cercando di procurarsi calore, riparo, cibo
e tentando di prevedere i malanni fisici con i quali la natura potrà
aggredirlo in futuro. Così facendo, sempre procedendo per successi
ed errori, ha trasformato la natura: ed ora deve riequilibrare lo
squilibrio che ha prodotto... sempre agendo, sempre apprendendo e
crescendo. Questa è l’idea con la quale risponderei alla domanda
su pensiero ed azione.
-
Sfortunatamente l’essere umano incontra molte difficoltà nel suo
confronto con la natura e questo gli arreca sofferenza.
-
Venerabile Maestro, sfortunatamente lei ha ragione. L’essere umano
ha conosciuto la sofferenza che deriva da tale confronto e la conosce
ancor oggi: ma dovremmo anche ricordare che, attraverso questa
sofferenza, è andato apprendendo. Il progresso, in realtà, non è
stato altro che una ribellione contro la sofferenza e la morte; il
motore della storia umana è stata la ribellione contro la morte. Ma
è certo che l’uomo ha sofferto immensamente.
Sappiamo
che grande è la differenza tra dolore e sofferenza: il dolore è
fisico e sarà vinto quando l’organizzazione sociale e la scienza
avranno raggiunto uno sviluppo adeguato. Ed il dolore fisico può
essere vinto: la medicina ce lo insegna, il progresso sociale ce lo
dimostra. Ma la sofferenza mentale è qualcosa di molto diverso. Non
esiste scienza né organizzazione sociale che possa farci vincere la
sofferenza mentale. L’essere umano è cresciuto e lo ha fatto nella
misura in cui è riuscito a vincere gran parte del suo dolore fisico,
eppure non è riuscito a vincere la sofferenza mentale. E la funzione
fondamentale dei grandi messaggi e dei grandi insegnamenti è stata
proprio quella di far comprendere che si richiedono condizioni molto
precise per vincere la sofferenza: ma su questo argomento, ora, non
possiamo dire di più. Gli insegnamenti ci sono e noi li rispettiamo.
Ma
in questo mondo che è il dominio del percettivo, dell’immediato,
in questo mondo di aggregati della coscienza, in cui la percezione
illusoria e la memoria illusoria mi danno una coscienza illusoria ed
una coscienza dell’io illusorio; in questo mondo, nel quale mi
trovo provvisoriamente immerso, faccio di tutto perché venga vinto
il dolore, perché la scienza e l’organizzazione sociale prendano
una direzione che porti ad un miglioramento della vita umana. Ma
comprendo anche che quando l’essere umano avrà realmente
bisogno di vincere la sofferenza mentale bisognerà ricorrere a
comprensioni che lacerino il velo di Maya, che lacerino l’illusione.
Il retto cammino va però percorso da subito: nella compassione,
aiutando a vincere il dolore.
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