giovedì 14 dicembre 2017

Sono

Riflessioni fatte dopo aver letto una pagina di un testo Zen di Okumura, che spiega Dogen attraverso gli insegnamenti di Uchiyama e Sawaki

Vivo la vita quotidiana. In quel momento sono il padre che prepara i suoi figli per la scuola, o il programmatore schivo che evita qualsiasi discussione in ufficio, o quello che invia le sue pippe mentali via mail, o il ricercatore della mente che chiacchiera con i suoi strambi amici Umanisti, o l'egocentrico che posta link al suo blog.

Sono tutto questo, ma contemporaneamente non sono nulla di tutto ciò. Mi siedo, con me stesso, e inizio lentamente a spostare tutti questi Riccardo. Tutti questi Riccardo, lo stesso nome Riccardo, sono il paesaggio di formazione, lo spazio tempo in cui si è dipanata la mia esperienza vitale; si sono formati attraverso tutta una serie di percezioni e registri; sono il risultato di una serie di eventi, ricordi, parole, pensieri e fondamentalmente sensazioni registrate su queste cose. 

Ma se sposto, uno ad uno, questi Riccardo, queste idee, queste costruzioni stratificate nel tempo, accedendo in attenta ed umile ricerca a zone sempre più profonde della coscienza, mi rendo conto che dietro ognuno di questi Io, c'è qualcosa di più essenziale, di tautologico. Nello zen, viene chiamato “il vero Sé”. Ad ogni spostamento, si presenta sempre un'aspettativa, un obiettivo, un punto d'arrivo, che però nasce anch'esso da un Riccardo che cerca qualcosa, un Riccardo del paesaggio. Per cui, in questo procedere di spostamento in spostamento, supero anche l'aspettativa e l'obiettivo, comprendendo sempre con maggiore chiarezza, quanti e quali strati di “passato”, di “esperienze” hanno formato i vari Riccardo. 

Esistono poi momenti rari, in cui si percepisce, come un'intuizione, come qualcosa che non è pensiero, che non è immagine, né allegoria o simbolo; qualcosa che non è aspettativa, affermazione o negazione; qualcosa che semplicemente è. In quei momenti rari, non sono il padre, l'uomo, il messaggero, il siloista, il marito o il programmatore. In quei momenti molto rari, ma sempre meno rari, sono semplicemente ciò che sono, o detto in modo meno chiaro e quindi più pertinente, semplicemente Sono. In quei momenti molto rari mi trovo di fronte all'incontrovertibile verità dell'Esistere.

L'esperienza è indubitabile, forse è l'unica cosa veramente indubitabile. Io sperimento ciò che sperimento e lo sperimento esattamente come lo sperimento. Tutto il resto che è fuori di me, è percepito attraverso i sensi e quindi è parziale, incompleto, interpretato, per quanto affinati siano i miei sensi, per quanto precisi i miei strumenti di misura, sempre vivo di approssimazioni, interpretazioni e rappresentazioni. Ciò che sperimento invece no, è esattamente come lo sperimento. La sensazione interna che ho delle cose è esattamente e interamente come è. Non vedo le cose come sono, ma sento ciò che sento esattamente come lo sento. So con certezza ciò che percepisco delle cose, non so nulla con certezza delle cose in se.

Allora cosa è questa cosa molto rara? Cosa è questo “Essere” che sperimento e che non è paesaggio? Se non è paesaggio, non è influenzata dal paesaggio, esiste oltre il paesaggio, allora esisteva prima del paesaggio? Esisteva prima di “Io”? Come l'onda del tempo e dell'universo che pulsa attraverso questa singolarità, questa espressione particolare e transitoria della Vita.

Il pensiero non è il luogo per comprendere. Non è un male o un bene; semplicemente il pensiero non è per questo. Comprendere è forse proprio la parola sbagliata da usare. 

Mi accingo quindi a sperimentare, e a sperimentare ciò che sperimento. Mi accingo ad Essere, ad Essere Essenzialmente. Non posso smettere di essere ora il padre, ora il marito, ora il simpatico, ora il taciturno (cosa che non avrei mai pensato di poter essere tra l'altro), poiché ogni Riccardo svolge una funzione precisa nella mia vita. Posso però entrare in contatto con l'Essenza, che ridimensiona e dà un nuovo significato a tutto ciò che Esiste.

Io Sono. Più di ogni altra cosa, Sono.

giovedì 7 dicembre 2017

Urgenza di vivere

Viviamo in questa grande illusione chiamata realtà

Leggevo un pezzo di Ortega y Gasset. Non ricordo bene i dettagli, ma ho un registro chiaro di ciò che ho provato e di ciò che mi ha colpito

La vita s'impone come un'urgenza. La vita deve essere vissuta, ora, è irrimandabile. Non posso vivere ieri, né posso vivere domani, non è possibile. Sono vivo in questo momento, e tutto s'impone esattamente in questo momento, non mi posso sottrarre a questa urgenza. Per quanto possa nascondermi, per quanto io possa anche cercare di stare “altrove”, la vita s'impone in modo inequivocabile, qui e ora.

Devo rispondere a questo potente impulso che proviene dall'essenza dell'essere stesso. Posso rispondere in modo meccanico, naturale e biologico, oppure posso tentare di strappare attimi di libertà dal campo delle possibilità infinite. Lanciare atti nel profondo e attendere risposte da lontano. Posso essere cosciente o incosciente, sveglio o addormentato, ma sempre l'urgenza di vivere imporrà una risposta immediata, qui e ora.

Ogni azione diventa un rispondere meccanicamente ad uno stimolo oppure il tentativo di realizzare una futurizzazione, un'ipotesi, un progetto. Come disse più o meno (più meno che più) sempre Ortega y Gasset in un altro pezzo che lessi, diventiamo praticamente il tentativo di essere ciò che abbiamo immaginato, siamo essenzialmente il nostro stesso progetto di trasformazione, siamo essenzialmente l'ipotesi che abbiamo formulato e ciò che vogliamo diventare, siamo essenzialmente ciò che ancora non siamo.

Siamo ciò che ancora non siamo. Che straordinario paradosso. Siamo ciò che non siamo. E allora la freccia potrebbe essere anche dove non è. La frase sull'altro lato del foglio potrebbe non essere né vera né falsa, ma semplicemente esistere. Ercole e la tartaruga sono arrivati insieme, ma se la sono presa comoda, giusto per non farsi torto.

E se sono ciò che ancora non sono, posso veramente essere ciò che voglio. Ma non in modo così, vago, per dire, perché è molto new age, tipo “non ci si conosce mai abbastanza” o “c'è sempre da imparare”. Affermo proprio di poter essere ciò che voglio, di essere stato più e più volte ciò che volevo... che riesco con chiarezza ad immaginare ciò che voglio essere e di sentire con ancora più chiarezza che sono questo progetto di trasformazione molto più di quanto io sia ciò che sono.

Sento con verità indubitabile, che sono ciò che non sono ancora, e quindi non sono ciò che sono perché presto non lo sarò più.

giovedì 30 novembre 2017

Ciò che ha senso fare

Il tutto si riduce alla fine nella ricerca di pace. La ricerca di pace interiore, di tranquillità.
Quello che vogliamo, in definitiva, è semplice e si chiama “stare bene”. Di fronte alla possibilità di ottenere la certezza di una vita serena, felice e tranquilla, dal più disperato degli emarginati, al più ricco dei potenti, nessuno saprebbe nel proprio intimo dire di no.

Vorrei semplicemente affrontare la vita con il cuore leggero e ampio. Niente fulmini e saette, niente luci o suoni, poteri fisici o mentali. Quello a cui aspiro è semplicemente una vita serena, allegra, cosciente.

Con questo obiettivo in mente porto avanti tutto il mio lavoro evolutivo. Scopro quindi che il mio lavoro evolutivo è una ricerca della pace interiore; la ricerca della capacità di osservare gli eventi in totale libertà interiore; la ricerca della comprensione della differenza tra amore e attaccamento, tra gioia e dipendenza. E tutto inizia semplicemente dal corpo, dalle sue tensioni, dalle sue necessità, dai suoi segnali. Tutto inizia semplicemente imparando a rilassare il corpo. Una, due, cinque, cinquanta volte al giorno, osservo il mio corpo, scopro i punti tesi, e rilasso lì dove posso. E quando ho tempo, chiudo gli occhi, e vado più a fondo in ogni tensione, cercando la radice del conflitto, dove nasce la violenza che è in me, il desiderio di controllo, l'attaccamento e la paura del cambiamento, l'inerzia della meccanica naturale e biologica.

E scopro quindi lo specchio. Lo specchio nel quale mi guardo giorno dopo giorno dopo giorno. E parlo con te che sei lì, di fronte a me, e immagino le reazioni che avrai alle cose solo perché sono le reazioni che avrei io se fossi te, non quelli che avresti te se fossi te, che sei te. Qui imparo a spostare lo specchio e a pensare veramente a te, chi sei, cosa fai, e a chiedere a te, chi sei, cosa fai, cosa pensi. 

Esercito quindi me stesso ad affrontare la vita con il cuore ampio. Esercito la mente a farsi di tanto in tanto da parte, per cogliere i segnali che giungono dal Profondo, là dove posso giungere solo se non porto con me il pensiero, il concetto, il simbolo, l'allegoria, il giudizio, l'idea né alcun altro oggetto mentale, compreso l'io. Non ho potere su tutto ciò che accade, perché le cose sono come sono e vanno come vanno. Ma ho potere su come guardo le cose, cosa provo quando mi trovo nelle cose, con le cose. 

Sempre più spesso scopro che sono veramente in grado di decidere come guardare le cose e di conseguenza cosa provare quando capitano le cose. Perché le cose sono in me ed io sono nelle cose. Non c'è reale distinzione né separazione. Esiste un unico fenomeno nell'esistente; è la vita che si esprime, l'universo che si manifesta, altri lo chiamano Dio, altri ancora Tao. Io sono la vita che si esprime, mi esprimo nelle cose, le cose sono la vita che si esprime in me, attraverso me, con me.

Allora si, di nuovo, mi osservo. Immagino come vorrei essere. Lo immagino con molta calma, con grande attenzione, connettendomi in profondità con ciò che vorrei essere in relazione alle cose della vita, quelle che hanno un nome, una forma e un colore, non a cose così, ipotetiche. Come vorrei reagire in quella situazione là, che mi capita di tanto in tanto? Proprio quella là specifica, non una situazione generica che gli somiglia. Come mi vorrei sentire? Adesso, qui, pensando alle cose della vita, cosa vorrei veramente provare? Cosa vorrei essere in grado di dire e fare in questa e quella situazione? Cosa vorrei provare pensando al mio papà? Come posso migliorare questo mondo? Sia quello fuori che quello dentro

Ecco, questo è l'obiettivo di una vita, ciò che ha senso fare. Cercare con tenacia di essere ciò che vorrei essere, rinunciando a ciò che ho sempre creduto di dover essere, che fosse meglio essere, che convenisse essere. 

Togliere tutti gli ostacoli che impediscono all'essere più profondo ed essenziale di manifestarsi, partendo dalle tensioni corporee. Perché in finale, andando all'essenza più profonda delle cose, nulla può farmi veramente male.

giovedì 16 novembre 2017

Modificare i comportamenti

Questa riflessione la devo tutta ad una carissima amica ungherese.

Modificare un comportamento è per me fonte di grande contraddizione. Se tento di modificare un comportamento che non mi piace, produco una forte contraddizione, tra un “vorrei fare” e un “non vorrei fare”.
Se un comportamento mi risulta “naturale”... se un comportamento mi risulta quello che meccanicamente terrei... il tentare di non avere quel comportamento diviene una lotta tra due “me”. Se poi non voglio avere quel comportamento perché è scortese o non corretto nei confronti di qualcuno, mi si genera anche un certo astio, un certo risentimento, nei confronti di questa persona su cui proietto la colpa della mia contraddizione.

Intervenire direttamente su un comportamento è un atto assolutamente superficiale, che agisce sul sintomo e non sul problema. Mi porta a grandissima frustrazione, che ondeggia come un pendolo tra il “non ci sono riuscito” al “che fatica  mantenere costantemente un comportamento diverso da quello che in realtà vorrei tenere”, due situazioni di tensione permanente.

Se “naturalmente” e “meccanicamente” ho voglia di trattarti male, dirmi che non devo farlo perché non è rispettoso nei tuoi confronti è ridicolo, poiché se voglio trattarti male vuol dire che già non ti rispetto, come essere umano.

Quello che posso fare invece è meditare in profondità sulla radice di quel comportamento. Perché non ti rispetto? In quale punto si annida losco il risentimento? In quale luogo perdo la percezione dell'umano che è in te? In che momento ti rendo oggetto e protesi della mia intenzione, per usarti e cancellare la tua intenzionalità? Per rispettarti come essere umano, non posso “smettere di non rispettarti” ma devo scovare in quale luogo della mia coscienza si annida la violenza.

Non posso modificare un comportamento modificando un comportamento. Non è di nessun interesse “modificare un comportamento”. I comportamenti si modificano come effetto della propria evoluzione interna, poiché i comportamenti sono il prodotto di uno stato interno, di una credenza, e un comportamento che non mi piace è il prodotto di una contraddizione, è il prodotto di un conflitto interno, è il prodotto di un risentimento, di una riconciliazione mancante, di una credenza fallimentare, di un attaccamento alle proprie opinioni, al proprio ego, all'immagine di sé.

Allora, mentre cerco di non trattare male l'altro perché “devo”, creando in me la contraddizione tra ciò che so essere giusto e ciò che meccanicamente “vorrei” fare, ho un compito fondamentale che è quello di comprendere in profondità la violenza che è in me.

Non c'è possibilità per me di “modificare un comportamento” se non occasionalmente e per brevi momenti. Non è quella la strada. Il comportamento “odiato” deve essere la mia spia luminosa, la traccia da seguire per trovare la contraddizione, il segnale d'errore, il sintomo della malattia. Non qualcosa “da cancellare” ma qualcosa che mi porti a comprendere, il mio filo d'Arianna.

“Únicamente puedes acabar con la violencia en ti y en los demás y en el mundo que te rodea, por la fe interna y la meditación interna
...
Ese tipo de sufrimiento, que es estrictamente de tu mente, retrocede frente a la fe, frente a la alegría de vivir, frente al amor.”

giovedì 9 novembre 2017

Limiti del pensiero

Rilasso completamente il corpo ed acquieto la mente.

Seguo lentamente e con attenzione il fluire dei pensieri, il trasformarsi di un pensiero in un altro. Tutto segue una logica inflessibile, magari a volte oscura, ma inflessibile. Ogni pensiero sembra provenire da un pensiero già pensato; la memoria sorge apparentemente spontanea, e ogni atto mentale è frutto di un paesaggio che è già in me... 

Ma se ogni pensiero è frutto di un pensiero precedente, la vita diviene semplicemente la proiezione di un paesaggio.
Il maestro dice:
3. E se la vita è solo lo specchio che riflette un paesaggio, come potrà cambiare ciò che riflette?
4. Tra la fredda meccanica dei pendoli ed i fantasmi di un’ottica di soli specchi, che cosa puoi affermare tu senza negare, o senza tornare indietro o senza ricorrere ad una ripetizione aritmetica?

Comprendo che il pensiero è insufficiente, ma lo posso comprendere solamente dopo aver spinto il pensiero fino ai suoi limiti. Solo dopo aver tentato in ogni modo di liberare la mente dai vincoli della memoria e del determinismo, posso arrendermi all'evidenza. Dopo aver tentato ogni strada, aver tentato di pensare ogni pensiero e aver tentato di pensare al di là del pensiero, lo spazio vuoto tra i pensieri, il silenzio dietro i suoni, posso veramente accettare che c'è un limite oltre il quale il pensiero non può andare e quindi comprendere che il pensiero è insufficiente.

Ma c'è un limite... e nel concetto stesso di limite esiste la separazione tra due “luoghi”. Se esiste un limite oltre il quale la mente non può andare, esiste un “luogo” al quale la mente non può accedere, ma che esiste, o non ci sarebbe il limite.

Allora spingo la mia mente fino a quel limite e, come dice un mio caro amico, mi siedo. E seduto su quel limite, ad osservare l'abisso che non può essere contemplato, in uno strano momento qualcosa si lancia in qualche posto. E' un “luogo” dove il pensiero non può andare e quindi non può essere pensato e quindi non è il pensiero che si lancia in quel luogo, ma altro... alcuni lo chiamano il Sé, il Sé più profondo, l'Io profondo, Dio, la Buddhità... e la mente si spegne, in attesa che quel qualcosa ritorni da quel dove. Il nulla?

E poi quel qualcosa torna da quel dove e la mente si riattiva... E' qualcosa che torna da un dove, non il nulla che torna dal nulla. E nel tornare porta con se delle cose... e iniziano le concomitanti, le luci, i suoni, le allegorie, le immagini, i ricordi, le emozioni... e ancora una volta il pensiero tenta di riaffermarsi e riaffermare. E chiama queste concomitanti “l'esperienza”.

Ma non è così. Non è il pensiero ad avere l'esperienza. Non è l'io ad avere l'esperienza. L'io e il pensiero fanno un inevitabile tentativo di afferrare l'inafferrabile, dando colore, forma e movimento a ciò che non ne ha. E come dice un altro mio amico, l'io atterrito trema e si pente pensando “ma cosa diavolo ho combinato?”

E posso quindi solo rilassare completamente il corpo ed acquietare la mente, per accettare che non sono il pensiero e la memoria, né il determinismo, né l'io, ma sono anche ciò che non può essere pensato. E quella parte di me che va dove il pensiero non può giungere ha la sua dignità, la sua compassione. E nel tornare da quel dove, porta con se delle cose, che alimenteranno il determinismo e la memoria, come un seme invisibile, come un calore lontano. Che fosse questo morire? Lanciare un'ultima volta il Sé oltre i limiti del pensiero? E' per questo che l'io ne ha tanta paura?

Tutto ciò che mi rimane da fare, è spingere il pensiero verso i limiti del pensiero... e rilassare le tensioni. Il resto di ciò che fa la mente, è azione e reazione.

5. Se dici sì a ciò che cerca se stesso, a ciò che ha per natura il trasformarsi, a ciò che non trova sazietà in se stesso e che è essenzialmente aperto al futuro, allora ami la realtà che costruisci. Questa è allora la tua vita: la realtà che costruisci!
6. E ci sarà azione e reazione ed anche riflesso e incidente; ma se avrai aperto il tuo futuro, niente potrà fermarti.

giovedì 19 ottobre 2017

La Soglia

Come sarà la mia morte?
Sarà diversa dalla tua?
O sarà lei a stabilire le differenze?
Che paesaggio imporrà l'esperienza?
Un paesaggio definitivo?
Un'ultima sintesi?
Una prima e totale comprensione?
Che cosa rimarrà per intraprendere un nuovo viaggio?
Mi risveglierò dal sogno?
Sorriderò per l'ingenuità con la quale ho vissuto?
Potrò accettare in pace la soglia poeticamente indicata?

In questo orologio di giorni, ore, secondi
in cui si fondono i giorni,
in questo crogiolo di passioni, successi, errori
le ceneri voleranno per colmare di stelle il lontano firmamento?
Potrò rivedere coloro che ho amato?
Potrò tendere la mia mano benevola, quando ne avranno bisogno
per compensare la durezza di un momentaneo errore?
Avrò la possibilità di arrivare su un raggio di sole
di posarmi su una foglia,
di entrare nel loro cuore, quando la disperazione vi si anniderà,
e lasciarvi dolcemente una piccola luce di allegria palpitante?

Non m'è sufficiente seguire ciecamente una credenza
né scappare dalla morte fuggendo il timore.
Molto meglio – mi dico – arrivare dignitosamente alla morte,
decidere ora la mia ribellione,
spogliarmi di tutto
con sguardo curioso, amabile,
disponibile,
non inginocchiarmi dinanzi ad alcun oscuro disegno,
morire con intima risolutezza.

Da qui posso ammirare la notte,
sentire la brezza gelata sfiorare per un breve istante
il soave silenzio della mia esistenza.
Quale necessità infinita di perdonare e di perdonarmi!

In questo ambiguo transito,
vorrei risolvere con gioia il paradosso
di desiderare ciò che rifiuta il possesso
e congedarmi da questa vita con riconoscenza

Joaquin Arduengo

giovedì 12 ottobre 2017

Autocensura

Ritorno su un punto già trattato altre volte. La pudicizia e l'autocensura della felicità.

Mi capitano periodi come questo, in cui sento una grande fede nel futuro, una profonda serenità, un'accettazione di come le cose sono e di come le cose vanno, il rifiuto del controllo a favore dell'influenza. E quando maggiormente sperimento questo senso di pace, una vocina dentro di me sembra dirmi che non è giusto, qualcosa che non va bene c'è sempre, qualcosa che non è esattamente come vorresti c'è...

Certo... se mi metto con l'atteggiamento di trovare qualcosa che non va, qualcosa che non va lo trovo, se proprio voglio stare male, un motivo per stare male lo si scova, o meglio si crea... ma perché questa autocensura? Perché questo non permettere a me stesso di godere pienamente e serenamente di uno stato mentale positivo?
Alcuni direbbero che fa parte della ricerca. Altri direbbero che è giusto così perché non ci si deve mai accontentare... e vari altri modi per “giustificare” (rendere giusta) la sofferenza.

No, non sono affatto d'accordo. Per me invece è figlio di una paesaggio vecchio, anzi antico. Quei paesaggi che se per caso di fronte ad un evento drammatico non soffri, allora vuol dire che non te ne frega un cazzo. Ecco quindi che quando mi trovo in conflitto con qualcosa e qualcuno, e riesco a vivere quel conflitto con il giusto distacco, una sana serenità, come un'occasione per cambiare qualcosa, come un impedimento superabile... ecco che sorge il “certo, non te ne frega un cazzo!”. E sorge non solo dalle voci che ci girano intorno. Sono così tanto assuefatto a questo sistema e a questo paesaggio del “se non soffri non ci tieni abbastanza”, che sorge dentro di me, come una voce interna che cerca di convincermi che “non stai soffrendo solo perché non ci tieni abbastanza”.

Ecco cosa intendo quindi con “superamento del vecchio da parte del nuovo”. Supero un paesaggio vecchio, stantio, inutile e pesante. Un paesaggio che lega indissolubilmente l'amore alla perdita, la vicinanza all'attaccamento, la passione al desiderio di possesso.... nell'interminabile pendolo degli opposti.

Affermo con convinzione che, come lo stato naturale del corpo è lo stato di salute e la malattia è un segnale di un qualche malfunzionamento nel corpo ed un tentativo di riparazione si fa necessario, così lo stato naturale della mente è quello di pace e serenità e la sofferenza è un segnale di un qualche malfunzionamento della mente ed un tentativo di riparazione si fa necessario.

La sofferenza non è necessaria, a volte capita, a qualcuno, in certe situazioni
La sofferenza non indica che ci tieni a qualcosa, attaccamento forse
La sofferenza non indica amore, desiderio di possesso forse
La serenità non indica menefreghismo, lucidità magari
Il distacco non significa apatia, coscienza della transitorietà invece

Una determinata situazione conflittuale può essere vissuta da qualcuno come contraddizione, foriera di grandi tensioni, di sofferenza. Altri possono viverla come un ostacolo, più o meno complesso, che non fa che richiedere più impegno ed energia. Altri ancora come un'opportunità di cambiamento, come lo stimolo a modificare il paesaggio, come occasione per comprendere la radice dei propri conflitti. Di fronte allo stesso paesaggio può sorgere la sofferenza o uno slancio verso il futuro, paralisi o stimolo... rifiuto ogni allusione al fatto che chi soffre è perché ci tiene di più

Rifiuto ogni spiegazione razionale della sofferenza basata sugli eventi esterni. Rifiuto ogni “soffro perché è  successo questo, perché lei ha fatto questo, perché lui ha detto quello”. Rifiuto l'autocensura. 
Se sono felice è perché sono felice, perché sto come è previsto che io stia, perché sono nello stato mentale di salute, lo stato mentale corretto, sano, giusto. Se sono sereno e in pace è perché ho un corretto punto di vista sulla realtà, perché ho un adeguato livello di coscienza che mi permette di dare il giusto peso alle cose, perché accetto il transitorio in tutto ciò che vedo, l'illusione dei sensi, la certezza dei registri.

Se mi sento sereno e in pace, è perché in quel momento, la mia mente, non è malata.

giovedì 28 settembre 2017

Coscienza o macchina biochimica?

La libertà... la libertà di scelta

Quanto spesso effettuo una scelta? Quando di fronte ad una situazione reagisco, quanto spesso scelgo la reazione tra una gamma di possibili reazioni... e quanto spesso invece semplicemente “reagisco”?
Quanto spesso sono un essere che seleziona coscientemente una risposta tra possibilità e quanto spesso invece sono una semplice macchina biologica, una serie di impulsi biochimici, elettrici, meccanici?

Mi soffermo sull'agire, che in realtà, in questo stato di coscienza, è un “reagire”. Mi soffermo sulle possibili scelte... ma ce ne sono? 
Ultimamente, ho cercato di soffermarmi sulle scelte, e ho notato che molto spesso non ho vari possibili modi in cui posso rispondere ad una situazione data, ma solo un possibile modo che io ritengo attuabile, plausibile, accettabile. Ma da dove viene questo “giudizio”? Educazione, formazione, passato. Sembra che tutto ciò che penso, provenga dal passato, da quello che mi è successo, da chi ho conosciuto, da ciò che mi è stato insegnato, dal rifiuto di ciò che mi ha fatto male. Dov'è quindi la libertà? Rispondo in base a ciò che sono convinto di essere, di pensare, di credere.

Deve essere nel cuore di ciò che credi la chiave di ciò che fai”. 
E se la vita è solo lo specchio che riflette un paesaggio, come potrà cambiare ciò che riflette?

Poi scopro un po' più in là, un po' più in fondo, una risposta che mi piacerebbe dare, una risposta che mi piacerebbe fosse “plausibile”, una risposta che mi piacerebbe prendere in considerazione quando devo rispondere alle cose, una risposta che non esiste da nessuna parte, non è mai esistita, eppure è là, con una carica anomala, come esistesse a prescindere da me, da quello che credo di essere, da quello che voglio essere, da quello che sono stato. Una risposta che sembra stare in quel cesto di cui parlava Fulvio, e che non riesco a non chiamare “il campo delle possibilità infinite”. Ho le vertigini... e rido.

Le cose sono come sono e vanno come vanno. Posso intervenire solamente su come interagisco io con ciò che le cose sono e su come le cose vanno. E per prima cosa, prendo contatto ad un nuovo livello con il condizionamento, con il determinismo, con la mia attuale mancanza di libertà di scelta, l'attuale mancanza di opzioni e possibilità. Per prima cosa, prendo coscienza di quanto le mie scelte in realtà non siano tali, ma sono meccanica naturale, proiezione del paesaggio di formazione, l'effetto del passato che spinge... 

la tua vita pesa, i tuoi ricordi pesano, le tue azioni precedenti ti impediscono l'ascesa

E più chiaramente vedo la mancanza di libertà, più chiaramente ne vedo i limiti. Perché non si può vedere qualcosa se non ha un inizio e una fine... e allora intuisco qualcosa che è “oltre” questi limiti. Intuisco il campo delle possibilità infinite, cerco di afferrarlo e lo perdo. Perché è una intuizione, un registro, una forza che spinge. Non è un concetto né un pensiero. E' vertifine, euforia, speranza, incertezza, riso e pianto. E' tutto ciò che è e quindi anche ciò che non è.


  1. Forse la vita è solo azione e reazione? La fame sogna la sazietà, l’oppresso la libertà; il dolore cerca il piacere e il piacere si annoia di se stesso.
  2. Se la vita è solo una continua ricerca di sicurezza per chi teme il futuro o di affermazione di sé per chi è disorientato od anelito di vendetta per chi ha patito la frustrazione... di quale libertà, di quale responsabilità, di quale impegno si potrà fare una bandiera?
  3. E se la vita è solo lo specchio che riflette un paesaggio, come potrà cambiare ciò che riflette?
  4. Tra la fredda meccanica dei pendoli ed i fantasmi di un’ottica di soli specchi, che cosa puoi affermare tu senza negare, o senza tornare indietro o senza ricorrere ad una ripetizione aritmetica?
  5. Se dici sì a ciò che cerca se stesso, a ciò che ha per natura il trasformarsi, a ciò che non trova sazietà in se stesso e che è essenzialmente aperto al futuro, allora ami la realtà che costruisci. Questa è allora la tua vita: la realtà che costruisci!
  6. E ci sarà azione e reazione ed anche riflesso e incidente; ma se avrai aperto il tuo futuro, niente potrà fermarti.
  7. Che attraverso la tua bocca la vita parli così: “Non esiste niente che possa fermarmi!”
  8. Inutile e malvagia è la profezia che annuncia l’ecatombe del mondo. Io affermo che l’essere umano non solo continuerà a vivere, ma anche che crescerà senza limiti. E dico inoltre che chi nega la vita desidera rubare ogni speranza, palpitante cuore dell’agire umano.
  9. Che in futuro, nei momenti più oscuri, la tua allegria ti faccia ricordare questa frase: “La vita cerca la crescita, non la compensazione del nulla!.
Silo – Umanizzare la terra – XII. COMPENSAZIONE, RIFLESSO E FUTURO

giovedì 21 settembre 2017

Immagino

Immagino...
Chiudo gli occhi. Rilasso completamente il corpo ed acquieto la mente.
Immagino quindi cosa vorrei provare.
Immagino quindi come vorrei stare.
Immagino quindi come vorrei affrontare le cose.
Mi immagino nell'atto di agire nel modo in cui vorrei agire.
Mi immagino nell'atto di reagire nel modo in cui vorrei reagire.
M'immagino esattamente come vorrei essere.
Pulito, sereno, in pace.
Attivo, coraggioso, indomabile.
Forte, imperturbabile, amorevole.
Cosciente, attento, sveglio.
M'immagino mentre irradio la compassione, la forza e la commozione.
Rilasso completamente il corpo ed acquieto la mente.
E lascio andare il pudore. Quello che mi fa dire “non è possibile”, insieme al “realismo”, che mi fa dire “ma è troppo difficile”, insieme alla sfiducia che mi fa dire “sarebbe bello”.
Rilasso completamente il corpo e acquieto la mente.

Cosa posso fare, qui, ora, senza “se” e senza “ma”, per essere oggi un po' più simile a questa versione di me rispetto a ieri?
Come ci arrivo?
Cosa posso fare, qui, ora, per essere sempre più ciò che vorrei essere.

Non posso controllare “le cose”. Non posso controllare l'altro.
Le cose sono come sono e vanno come vanno.
Ma posso cambiare le mie reazioni alle cose. Ciò che sento può dipendere da me.
Se io soffro o non soffro dipende molto più da me che da te.

Immagino come vorrei stare, cosa vorrei sentire, come vorrei che fosse la mia vita.
Meditare su questo punto, quotidianamente, è come una palla di neve gettata da un monte.
Giorno dopo giorno prende forza.
Questa immagine di me diviene sempre più grande, sempre più invadente.
Esaltante, gioiosa, plausibile.
E più prende forza, più mi cambia, mi tira e mi spinge.
Per proiettarsi verso fuori, verso il mondo medio.
Meditare su questo punto, quotidianamente, è irrimandabile, irrinunciabile.

Perché non essere esattamente come vorrei essere?
Perché non essere esattamente come vorrei essere?

Perché non essere esattamente come vorrei essere?

giovedì 7 settembre 2017

Rifiuto e Rivendico

Rifiuto qualsiasi religione si professi come l'unica Vera.
Rifiuto qualsiasi religione si professi vera per tutti.
Rifiuto qualsiasi religione si basi su premi e castighi da ottenere dopo la morte.
Rifiuto qualsiasi religione non contempli il superamento della sofferenza in vita, qui, ora, per tutti.
Rifiuto qualsiasi religione accetti, in qualsiasi modo, la sofferenza mia o di chiunque altro.
Rifiuto qualsiasi religione dichiari dolore e sofferenza come necessari o inevitabili.
Rifiuto il sacrificio, il senso di colpa e le minacce dell'oltretomba.
Rifiuto qualsiasi religione preveda un Dio unico e assoluto.
Rifiuto qualsiasi religione ponga Dio o il Sacro al di sopra della vita e della libertà umana.
Rifiuto qualsiasi religione ponga Dio al di sopra dell'essere umano.
Rifiuto qualsiasi religione ponga Dio fuori dall'essere umano.
Rifiuto qualsiasi religione ponga l'essere umano al servizio di Dio invece che Dio al servizio dell'essere umano.
Rifiuto qualsiasi religione limiti la libertà umana, personale o sociale.
Rifiuto qualsiasi religione che insegni come comportarsi invece che insegnare come trovare la pace.
Rifiuto qualsiasi religione che non contempli serenamente la possibilità del proprio stesso superamento.
Rifiuto qualsiasi religione che dica che basta la fede e non incentivi all'esperienza.
Rifiuto qualsiasi religione non incentivi a sperimentare il contatto col Sacro.
Rifiuto qualsiasi religione pretenda di dire come sarà questo contatto con il Sacro.
Rifiuto qualsiasi religione che preveda una gerarchia di comando, un clero.
Rifiuto qualsiasi religione preveda un maestro che vuole rimanere tale.
Rifiuto qualsiasi maestro che voglia dirmi come sarà il contatto con il mio Sacro.
Rifiuto qualsiasi maestro o “sacerdote” che voglia dirmi cosa è Dio.
Rifiuto qualsiasi verità eterna ed universale.
Rifiuto qualsiasi religione divida invece che unire.
Rifiuto qualsiasi religione porti a giudicare invece che comprendere.
Rifiuto qualsiasi religione discrimini le donne.
Rifiuto qualsiasi religione discrimini le razze.
Rifiuto qualsiasi religione esprima giudizi sul sesso, sull'orientamento sessuale e di genere.
Rifiuto qualsiasi religione contempli l'eterno tormento. Le minacce sono la prima arma dello schiavista.
Rifiuto qualsiasi religione pretenda di commissariare il corpo.
Rifiuto l'esistenza di una “natura umana” immutabile ed eterna.

Rivendico il valore di ciò che sento.
Rivendico il valore dell'azione diretta verso gli altri.
Rivendico il valore del Sacro, fin quando aiuta me e gli altri a superare il dolore e la sofferenza.
Rivendico il valore del Sacro quando unisce.
Rivendico il valore della Spiritualità intima e personale.
Rivendico il valore della condivisione della propria esperienza spirituale.
Rivendico il valore del contatto con il Profondo della mia coscienza.
Rivendico il valore della libertà.
Rivendico il valore della personale ed indubitabile esperienza della trascendenza.
Rivendico il valore umano di chi non ha tale esperienza.
Rivendico il valore umano di chi ha esperienze diverse sulla trascendenza.
Rivendico il valore umano di chi non è interessato a tale argomento.
Rivendico il valore umano di chi li rifiuta.
Rivendico il valore umano di chi crede nell'immortalità.
Rivendico il valore umano di chi crede nella non-immortalità.
Rivendico il valore della lotta contro la violenza che è in me.
Rivendico il superamento della sofferenza, del sacrificio, dei sensi di colpa e delle minacce dell'oltretomba come supremo atto morale.
Rivendico il valore della riconciliazione, con se stessi e con gli altri.
Rivendico il superamento del perdono da parte della riconciliazione.
Rivendico il superamento della religione da parte del sentimento religioso.
Rivendico la libertà di scelta, l'inesistenza di una “natura umana” immutabile.

Questo mi dà il diritto di dire che chi, direttamente o indirettamente, generi sofferenza o la giustifichi come inevitabile o necessaria, è un avvelenatore della vita, un nemico della vita.
Chi limita la libertà, discrimina o fa violenza, è un nemico dell'evoluzione e si batte per tenere l'essere umano fermo e immobile invece che contribuire superamento di se stesso.
Posso comprendere la radice delle sue e delle mie azioni e provare compassione per la sua e la mia povertà morale, ma ciò non cambia il valore delle nostre azioni.
Questo mi dà il diritto di dire che si può fare del male o si può fare del bene e l'unico modo per distinguere è il dolore e la sofferenza generato dall'azione, qui, ora, in vita.

L'unico modo per distinguere è la libertà generata dall'azione, qui, ora, in vita, per tutti gli esseri umani.
Un'azione libera o incatena.

lunedì 28 agosto 2017

Una vacanza straordinaria

Una vacanza straordinaria. 
Dieci giorni di vacanza. Ogni giorno scandito da momenti precisi, ogni giorno uguale al precedente. Mi alzo, preparo la colazione, si va al mare, si torna, ci si lava, preparo il pranzo, si mangia, si rassetta casa, si fanno i compiti, si va al mare, si torna, ci si lava, preparo la cena, si mangia, si passa un po' di tempo insieme, si va a dormire. 
Mi accorgo dopo qualche giorno che vivo semplicemente nell'attesa della fine di una fase, per passare alla successiva... la vita diventa “cercare di arrivare quanto prima a fine giornata”. Sale una inquietudine.
Il terzo giorno diventa insostenibile. Mi siedo, chiudo gli occhi, osservo e mi osservo. Mi connetto in profondità con questa inquietudine, con l'assurdo di vivere. Chiudo gli occhi e mi arrendo a ciò che sento, lascio che il sentire sia manifesto, che l'inquietudine sia totale; osservo e mi osservo, sento e mi sento, senza filtri, senza protezione, senza difese, in modo completo, anche doloroso se necessario.
Comprendo di aver dimenticato il principio “Se ogni cosa la fai come un fine in sé, ti liberi
Comprendo di essermi dimenticato di esistere, di essermi dimenticato di essere presente a me stesso, di essermi dimenticato di chiedermi chi sono e dove vado, cosa sento mentre lo sento.
Riprendo il filo della mia vita e ritorno a vivere sapendo di vivere. Devo vivere ogni istante trovando un senso in ciò che faccio. Lavo i piatti o passo il mocio come momento per rilassarmi. Faccio il bagno con le bimbe godendo dell'opportunità che mi viene data per fare qualcosa per coloro che amo.
La noia, il non senso, l'assurdo, non è nella routine, non è nella monotonia, ma nel modo in cui la mia mente si pone di fronte alla routine, alla monotonia. La noia non è nelle cose ma nel modo in cui faccio le cose, nel significato che do alle cose. Se ciò che faccio è fatto per “arrivare il prima possibile alla fine di ciò che sto facendo”, non sto vivendo e tutto perde significato e l'abisso si apre.
Le cose non sono come le vedo ma diventano il modo in cui le guardo.
Le cose non hanno valore in sé, ma sono io che “le significo”.
Il senso di ciò che faccio dipende più da me che da ciò che faccio.
Riapro gli occhi. Riprendo il cammino. Un giorno un amico mio caro disse “apri bene gli occhi, sia mai che entri più luce nel cervello”. 
Inizia la vera vacanza, quella straordinaria, piena di significati, di ricordi caldi e confortevoli, di sorrisi visti veramente. Ritrovo me stesso e quindi le dolci creature che sto accompagnando. 
Ricordai allora le leggende sui 'cieli' e sugli 'inferni' e vidi la linea divisoria tra i due stati mentali”.
L'insinuante forma della luna nera è lì, inchiodata nel firmamento. Niente di male mi può accadere. Devo semplicemente attendere pazientemente il giorno. Senza improvvisare, ma nemmeno fuggire. Non è una battaglia. Sentire tutto ciò che sento. Senza filtrare, senza difendermi. La libertà e l'incatenamento non esistono di per sé, ma dipendono da dove mi pongo. In cosa mi identifico? Cosa sono? Sono ciò che muore o ciò che perdura? Se mi identifico con l'io incatenato al pendolo degli opposti, non esiste libertà, ma solo adesione e rifiuto. Se penso “questo sono io, questo è mio”, “tutto ciò che faccio e penso non dipende da me”.
Una vacanza straordinaria.

martedì 6 giugno 2017

Proposito

La vita ha bisogno di una direzione chiara.

La mia vita ha bisogno di un proposito chiaro.

Senza una direzione chiara...
che possa resistere a qualsiasi incidente...
sia esso anche la morte...
tutto ciò che faccio, sento e penso, è meccanica.

Se non c'è una proposito profondo, ancorato alla parte migliore di me...
gli incidenti decidono per me.

Succede questo e sono felice.
Succede quello e sono triste.
Tutto “succede”.

Prendere in mano le redini della propria vita può avvenire solamente se parto dalle zone più profonde della coscienza, se queste redini sono in mano ad “altro”. Zone dove risiedono i modelli più profondi. Le guide antiche come le montagne, come gli spiriti del vento e del mare.

Senza questo tentativo di connettersi con la parte migliore di me, tutto è vano. Alcuni lo chiamano il Senso, altri il Sacro, altri Dio, altri il Profondo. Non importa il nome che si sceglie per questo stato mentale, questa zona della mente e della coscienza, che è un'esperienza, qualcosa che si vive e si testimonia, non qualcosa che si racconta. 

Proposito e Contatto.

E scopro quindi la profonda ingiustizia di questo mondo violento e discriminatore.

Perché se hai risolto il problema primario di mangiare e dormire per te e per i tuoi cari, la schiavitù nei confronti della proprio pensare e sentire meccanico è una scelta. Che ti porterà ad essere dei tuoi egoistici bisogni o della manipolazione altrui.

Se non sei disperatamente occupato a schivare bombe e a cercare cibo, non c'è giustificazione per non soffermarsi spesso e chiedersi:
“Chi sono?”
“Dove sto andando?”
“Le mie azioni generano gioia o dolore?”
“La mia esistenza, fino ad oggi, è stata un bene o un male per gli altri? Per il mondo?”
Domande a cui spesso, chi è occupato a schivare bombe e cercare cibo, magari, ha già imparato a rispondere.

Perché la coscienza non si ferma, nemmeno nella disperazione. E cerca la crescita, non la compensazione del nulla.

Perché per quanto piccola e limitata mi possa sembrarmi la mia influenza, essa esiste. Ogni giorno mi sveglio e guardo la direzione che ho scelto. E non manco di chiedermi:
“Chi sono?”
“Dove sto andando?”

E mentre avanzo, la mia visione si modifica. Le mie risposte cambiano, evolvono, sintetizzando esperienze, comprensioni.

giovedì 1 giugno 2017

Allenare la coscienza

L'allenamento

Se vogliamo un corpo snello e muscoloso, sappiamo che dobbiamo allenarci, con costanza... e curare l'alimentazione, con costanza. Sappiamo che richiede impegno e sacrificio. Ci vuole allenamento. Questo lo sappiamo, lo accettiamo, ci sembra normale, ovvio.

Se vogliamo imparare delle nozioni, sappiamo che dobbiamo studiare, con impegno e costanza. Se vogliamo memorizzare dei dati possiamo studiare, con impegno e costanza. Se voglio diventare più bravo a far di conto, devo fare esercizi. Ci vuole allenamento. Questo lo sappiamo, lo accettiamo, ci sembra ovvio.

Bene, anche la coscienza si può allenare. Posso allenarmi a sentire quello che sento. Posso allenare la coscienza ad essere “cosciente di”. Cosciente di cosa? Non importa! Quando alleno gli addominali non li alleno perché prevedo di fare un determinato e specifico movimento con quel muscolo nell'immediato futuro. Li alleno perché fa bene al corpo. Li alleno ad essere addominali più efficaci, in generale.

Stessa cosa vale per la coscienza. Alleno la coscienza ad essere “cosciente di”, in generale, delle cose, della vita, della realtà, di ciò che sento, di ciò che credo, di ciò che penso. Alleno la coscienza ad essere “cosciente di”. Alleno la coscienza a fare ciò che fa, a fare ciò che è nata per fare, così come alleno gli addominali ad essere addominali.

Non devo trasformare la coscienza in qualcosa di strano, incomprensibile e lontano. Alleno la coscienza ad essere coscienza, solo un po' più efficacemente.

Perché spesso non so cosa penso, né perché lo penso. Spesso non so quello che sento e come lo sento. E affermo questo perché quando accetto questo fatto e alleno la coscienza, porto su pensieri che non vedevo, sento cose che non sentivo, comprendo cose che non comprendevo. Sorgo domande che non mi facevo.

E di comprensione in comprensioni individuo la possibilità di nuove comprensioni. Comprensioni profonde che non possono essere trovate sui libri, sacri e mondani, né nell'esperienza altrui. Comprensioni di chi io sia, del perché faccio quello che faccio, dove nasce la contraddizione, il conflitto e la violenza che è in me.

Il tutto attraverso una esperienza, una pratica. Lo studio può essere utile, ma nulla ha senso senza un'esperienza diretta, personale, indubitabile. E' la mancanza di esperienza che genera la fede ingenua, il fanatismo, la credulità, la paura, la violenza.

La coscienza di sé si allena.
Il silenzio si allena.
Il contatto con il Sacro si allena.
L'unità si allena.
Il rifiuto della violenza si allena.
Il rifiuto della sofferenza si allena.
Il rifiuto delle minacce dell'oltretomba si allena.
La riconciliazione si allena.
L'evoluzione della coscienza è cosciente.
Il tutto si allena come pratica, come esperienza.

martedì 23 maggio 2017

Quello che conta

Ci sono solo due metri di giudizio per misurare una vita.
Quanta serenità, gioia e pace hai alimentato intorno a te?
Quanta contraddizione e sofferenza hai proiettato intorno a te?
Il resto, TUTTO il resto, è fuffa.
La “realizzazione personale”, la carriera...
I soldi, gli oggetti, il prestigio.
Fuffa, tutta interminabile ed inutile fuffa.
Le persone intorno a te sono felici di averti conosciuto?
Quanti rimpiangono di essere finiti sul tuo cammino?
Se la risposta non ti piace, sei ancora in tempo.
Questo conta, il resto è illusione dell'ego.
Quante ami veramente coloro che ami?
Quanto ti amano veramente coloro che ti amano?
Se la risposta non ti piace, sei ancora in tempo.
Il resto lascia dietro di se il vuoto.
Per questo è un insulto alla vita che qualcuno patisca.
Che qualcuno soffra.
Che qualcuno non possa vivere perché troppo occupato a sopravvivere.
A schivare le bombe.
A piangere gli amati.
A trovar il modo di nutrire i figli.
La vita, come ha sempre fatto, troverà il modo di superare gli ostacoli.
Quegli ostacoli una volta materiali e naturali.
Oggi sono intenzionali e sociali, mentali.
La vita troverà il modo.
E l'evoluzione seppellirà questo delirio nei libri di storia.
Libro: “Storia dell'evoluzione”
Sezione: “Archeologia e Coscienza”
Capitolo: “Coscienza prima del Risveglio”

mercoledì 17 maggio 2017

Essere e Paradosso

Il senso di colpa è inutile, anzi dannoso.
Posso comprendere un errore e impegnarmi per rimediare, senza soffrire.
Inganno dell'oggi quello che dice: se non soffri non ci tieni.
Senso di colpa, senso del dovere, orgoglio, ego, sfiducia, sospetto.
Diverse epoche, diverse latitudini, diversi strumenti d'incatenamento.
Ciò che per noi è inimmaginabile e irrealizzabile lo è per noi, qui e ora.
Come pensiamo di pensare ciò che reputiamo impensabile?
Come possiamo muoverci per realizzare ciò che pensiamo irrealizzabile.
Le prime catene sono nella nostra mente.
Se non vediamo queste catene, non ci libereremo.
Se non vediamo le catene, non faremo nulla per liberarci.
Non si può pensare solo ciò che è stato già pensato.
Non si può credere solo ciò che è già creduto.
Se non ci fossero stati i folli e i visionari?
Se non ci fosse stato chi non ha mai accettato la realtà data?
Perché siamo così superbi?
La nostra realtà non si può mettere in discussione?
Noi non sbagliamo?
Vogliamo essere come gli oscurantisti del passato?
Rifiutare che qualcuno possa pensare ciò che noi non sappiamo pensare?
Vogliamo essere la moderna inquisizione?
Bruciare i moderni Giordano Bruno?
Combattere i moderni Galileo Galilei?
Impedire la liberazione della mente a colpi di “like”?
Finiranno gli stati.
Finiranno le colpe.
Finirà il dovere.
Finirà il mercato.
Non è questione di “se” ma di “quando”.
Dove voglio essere?
Tra coloro che resistono o tra coloro che si lanciano?
Voglio accompagnare od oppormi?
Voglio liberarmi o mantenere il punto?
L'essere umano non è che agli inizi della sua evoluzione.
Quest'epoca finirà nei libri di storia, capitolo “Preistoria: Coscienza prima del Risveglio”.
O “Archeologia e Coscienza”. O “Pre-coscienza”.
Tutto si darà perché ci costituiremo, in un atto libero, finalmente umani.
Il nonsenso sarà travolto da una soave valanga di Senso.

venerdì 12 maggio 2017

Dubbio

La più grande rivoluzione che posso fare è smettere di accettare la realtà come è.

Accettare il valore inestimabile del dubbio.

Io Dubito. Dubito che la realtà sia come ho sempre creduto che sia. Dubito che ciò che è appurato e assodato sia vero domani. Dubito che 2+2 sia equivalente a 4 e che la forma contiene il contenuto.

Dubito di ciò che so perché sono cosciente di un fatto: gran parte di ciò che so è frutto di ciò che credo e ciò che credo è fondamentalmente frutto dell'epoca e non dell'essenza ultima di tutte le cose.

Perché io non vedo la realtà. Io vedo delle cose e le chiamo “realtà”. Vedo dei dettagli e li chiamo “tutto”.

Acquisire la dimestichezza con il dubbio è un lavoro difficile. E' difficile perché è proprio ciò di cui assolutamente non dubitiamo, ciò di cui maggiormente dovremmo dubitare. Proprio in ciò che è indubitabile si annida la radice di ciò che credo ed è nella radice di ciò che credo la chiave di ciò che faccio. In ciò di cui non dubito si annida l'illusione.

Valori, essenze, certezze. Solo mettendo di nuovo in discussione ciò che era certo ieri potrò scoprire ciò che è vero oggi. Solo mettendo in dubbio ciò che è vero oggi potrò toccare la libertà.

Lasciare e abbandonare il controllo. Solo quando finalmente accetterò di non avere il controllo potrò finalmente avere dubbi.

Il dubbio che abilita il tentativo.
Il dubbio attraverso il quale cercare nuove strade.

Senza il dubbio si pensa ciò che si è già pensato.
Senza il dubbio la vita è solamente ascoltare l'eco della propria voce, l'eco della voce dell'epoca.

“Ciò che viene detto oggi da me o da qualcun altro, non è valido domani”

giovedì 27 aprile 2017

Cosa e non cosa

Fisso la mia attenzione su una cosa, una qualsiasi cosa.
Come posso dire di aver fissato attenzione su questa cosa? Lo posso dire perché posso differenziare “la cosa” da ciò che non è “la cosa”. Posso dire che faccio attenzione ad essa perché non sto facendo attenzione ad altro, poiché se sorgesse altro nella mia mente e mi distraessi potrei dire “non sto più pensando alla cosa” e lo potrei dire perché ho un registro di un tipo quando ho attenzione alla cosa e un registro diverso quando non ho attenzione alla cosa, quindi c'è una distinzione chiara, inequivocabile, in termini di registri, di vissuti interni, tra la cosa e la non-cosa.

Posso quindi dire che sto ponendo attenzione ad una cosa, sto analizzando una cosa, sto osservando una cosa, solamente se ho un registro più o meno chiaro di un ambito, di un campo, all'interno del quale “sono sulla cosa” e all'esterno del quale “non sono sulla cosa”.

Non c'è possibilità di porre attenzione a qualcosa se non c'è una sensazione chiara di dove questa cosa cominci e dove finisca. Se non ci fossero questi limiti, non potrei dire con certezza se sono ancora all'interno del campo cognitivo che riguarda la cosa o ne sono uscito, non esisterebbe il “dentro” e il “fuori” e non potrei quindi porre attenzione diretta su nulla, non potrei distinguere le cose tra loro.

Questo meccanismo è intrinseco nell'atto stesso del porre attenzione, del pensare. Che sia un atto mentale diretto verso un oggetto di percezione o un atto mentale diretto verso un oggetto di coscienza, non c'è possibilità di dirigere questo atto mentale verso un qualsiasi oggetto se non c'è registro di cosa è l'oggetto e cosa non lo è in modo che la coscienza sia sempre in grado di dire “ora sto ponendo attenzione sull'oggetto, ora non più, perché sono su altro”.

Posso porre attenzione ad un oggetto mentale, posso dirigere un atto mentale verso un oggetto, solo se l'oggetto in questione si differenzia da ciò che non è l'oggetto.

Quando quindi pongo attenzione sulla coscienza, è perché ho un registro (che sia evidente o meno) di ciò che non è coscienza. Se riesco a registrare il determinismo, l'incatenamento e riesco a chiamarlo “permanente” è perché percepisco e intuisco in qualche modo i suoi limiti, dove inizia e dove finisce, cosa è incatenamento e cosa no, dove c'è determinismo e dove no.

Percepisco quindi la struttura coscienza/mondo, la forma e il movimento-forma perché ho un registro del complemento. Avere un registro chiaro del complemento non è quindi un cercare di creare qualcosa nella nostra mente attraverso la riflessione, ma un cercare di percepire qualcosa che inevitabilmente già c'è... perché se non ci fosse non avrei mai potuto avere registro del movimento-forma.

Ogni cosa su cui posso porre attenzione, ogni oggetto di un atto mentale, esiste solamente perché esiste il suo complemento. Fino a ieri dicevo “ogni cosa esiste SE esiste il suo complemento” mentre oggi dico “ogni cosa esiste INDISSOLUBILMENTE INSIEME al suo complemento”.

La separazione tra cosa e complemento ha a che vedere solamente con l'intenzione che metto nel porre attenzione, con la direzione dei miei atti. E' il mio sguardo a definire la cosa-complemento. Il mio porre attenzione ad una cosa quindi letteralmente crea la struttura cosa-complemento. Sono io, con la mia intenzione, a definire “cosa è” e “cosa non è”, in ogni singolo istante. Sono io che definisco la realtà, definendo “le cose” nel momento in cui pongo attenzione, in cui dirigo un mio atto verso le cose. Le cose non sono definite “di per sé”, ma vengono definite all'atto del porre attenzione, nel momento in cui la mia intenzione si dirige verso di esse.

Si tratta di meditare in attenta ed umile ricerca sull'essenza di tutto ciò che esiste e sui limiti arbitrari che impongo, sulla libertà.

martedì 14 febbraio 2017

Il "ritorno"

Il ritorno

Il “ritorno” è un momento importante, che si verifica di continuo e che ho compreso non deve essere sottovalutato né posso permettermi di passarvi oltre in modo tanto superficiale.

La crescita dell'essere, la mia crescita, non è una linea che sale, allontanandosi dal punto di partenza in modo diretto. La mia crescita è come una scala a chiocciola che sale e si allarga, come una spirale che si allarga e sale.  

Questo significa che periodicamente, mi trovo in quello che sembra essere lo stesso punto di prima, ma ad un livello diverso. Questo è il punto del “ritorno” (ogni punto è quindi in qualche modo il “ritorno” di un altro punto). In questo momento, in cui ho l'illusione di essere dove sono già stato, sono in realtà nel momento di analisi di ciò che è stato già analizzato, nel momento in cui guardo il conosciuto, in cui ri-scopro e ri-conosco.

Questo l'ho chiamato “ritorno”. Questo momento è prezioso e devo viverlo con pienezza e attenzione. E' grazie ai vari “ritorni” che posso effettivamente vedere il mondo che cambia. Osservare ciò che ho creduto essere come era, scopro ora essere come è, cosa che mi fa inoltre comprendere che domani sarà come sarà.

Nel vivere pienamente il “ritorno”, accetto che il mondo cambi, la mia percezione cambi, la percezione che ho del mondo cambi, il mio sapere cambi, le mie conoscenze cambino, il mio giudizio cambi. Nel vivere con attenzione e lucidità il “ritorno”, tento di accettare di mettere in dubbio tutto ciò che era in quel punto al passaggio precedente. Ad ogni giro, osservo ciò che è stato osservato e mi concentro sull'evoluzione, sul cambiamento, su ciò che era e non è, su ciò che non era ed ora è, su ciò che era ed è ancora. Comprendo che ciò che è forse sarà, forse non sarà più e ciò che non è, forse non sarà ancora o forse sarà.

Alcune cose si fortificano, prendono carica, si confermano. Altre si assopiscono ed esaurendo il loro compito scompaiono. 

Scopro qui la necessità di “lasciar andare”. Lasciar andare ciò che è servito, nello stesso modo in cui il Buddha ci dice di lasciare andare il cammino per la liberazione quando ha svolto il suo compito, come si lascia andare la zattera una volta raggiunta la riva opposta. Lasciar andare il proprio punto di vista, perché non sono il mio punto di vista, non sono le mie credenze, non smetto di esistere per il fatto di rinunciare a ciò che mi ha sostenuto fino ad oggi, per il semplice fatto che non mi sostiene più, ora è un peso, una zavorra, come sarebbe la zattera che mi ha aiutato ad attraversare il fiume se la dovessi continuare a portare con me scalando la montagna.

La mia evoluzione è fondamentalmente la trasformazione del modo di osservare. Raggiungere un nuovo livello di comprensione più che raggiungere nuove comprensioni.