giovedì 20 dicembre 2018

L'esperienza

Non esiste un modo buono e un modo sbagliato di praticare. Non esiste una seduta di meditazione che è andata bene ed una che è andata male. Esiste “essere cosciente” e “non essere coscienti”. “Fatto bene” e “fatto male” appartengono a questi “spazi” e non a quelli.

Qualsiasi “risultato” si ottenga con una seduta è una ricerca dell'Io periferico. Il successo e l'insuccesso sono concetti di questa mente incatenata. 

C'è differenza tra “idea” ed “Esperienza”.

A me interessa la seconda più che la prima. Basta non confondermi, poiché l'Esperienza non è ciò che ricordo di essa. Quello che ricordo è la traduzione di quella Esperienza. Non è un male, basta mantenere il centro. L'Esperienza la sintetizzo in questa frase: “Tutto vive e tutto sta bene. La musica e le cose non hanno nome e davvero nulla le può designare veramente”.

Gli spazi profondi sono indubitabili e indefinibili.

Cosa è reale? Questo o quello? Questa discriminazione è già opera della mente incatenata e non della Mente Lucida. La Mente Lucida non effettua distinzione tra “Uno” e “Tutto”. Non c'è discriminazione, non c'è separazione. 

La Mente Lucida vive la Vita che si esprime. La Mente Lucida vede “io”, vede “mondo” e comprende che non c'è discriminazione. La Mente Lucida non ha fine, non ha inizio. La Mente Lucida partecipa, attivamente.

Perché “io essere umano”? Perché “la coscienza”? Parafrasando altri “Perché l'essere e non piuttosto il nulla”?

Meraviglia delle meraviglie.

Cosa è questo osservare se stesso? C'è questo modo di “osservare dentro”, “osservarsi”, che è diverso dal solito. Come se esistesse un osservatore più in là. Che direzione ha questo sguardo? Se un punto è diretto a se stesso, esiste una direzione? E se non esiste una direzione esiste solo l'essere. Se invece esiste una direzione, da dove parte se il bersaglio sono io? Sono compartecipe di qualcosa. Non parte da me né da fuori di me. Sono compartecipe nell'agire ed essere oggetto. Sono contemporaneamente osservatore ed osservato. Sono compartecipe.

Le parole sono insufficienti. Cerco nuovi linguaggi.

Mi siedo e faccio silenzio. Perché senza Esperienza c'è solo la mente incatenata e tutto diventa consumo. Consumo cose, emozioni, pensieri. L'Esperienza mi dà futuro e certezza. Stabilità in movimento. 

Ogni cosa è in contatto con Tutto, né fa parte, né è espressione. Esiste solo una cosa ed essa si esprime in universi e mondi. Il mio guardare e il guardato, è l'espressione dell'Unica Cosa.

venerdì 14 dicembre 2018

Possesso e Libertà

Voglio possedere tutto.

Esperienze, sapori, vendette. Ogni cosa che passa per la mia vita l'afferro, ne voglio strappare l'essenza, la voglio possedere. 

Questa sembra essere la radice di tutte le tensioni. “La radice possessiva della sofferenza”. Contrarre, tirare, afferrare, trattenere.

Lasciarsi possedere dalla verità interiore. Lasciare che si manifesti. Non discriminare. Non separare. Non oscillare. Essere il fulcro e non il pendolo.

Osservo me stesso. Chi osserva chi? Esiste un momento preciso in cui, ponendo attenzione alla mia vita, a ciò che faccio, sento, dico, penso, prende corpo un centro inamovibile. Un centro “nonostante tutto”. Quando questo centro agisce, tutto funziona in un modo diverso. Non sembra possibile possedere qualcosa; sembra quasi puerile pensare di possedere qualcosa. Non sono più qui nel tentativo di possedere ciò che è lì. Qui e lì, io e il “mondo”, sembrano semplicemente partecipare allo stesso spettacolo. Collaboro.

Soffro quando non ho il controllo. Smetto di soffrire quando sono cosciente che non posso avere il controllo.

Presenza mentale. Essere presenti a se stessi. Coscienza di sé.

Perché l'essere umano? Perché di tutti gli esseri, siamo l'unico che genera la propria stessa sofferenza? A mio avviso non può che essere un passaggio necessario, un ostacolo lungo l'ascesa.

Io... noi, come forma più ampia di “io” è sempre io.

Quando sono realmente sveglio vedo come tutto partecipa e come non c'è distinzione alcuna, non c'è separazione ed esiste un unico fenomeno, di cui faccio parte come il vento, il sasso e la stella.

Per agire nel mondo devo discriminare. Quando sono realmente sveglio sono cosciente della discriminazione e del fallo insito in essa. Non posso smettere di distinguere, separare e scegliere, ma posso farlo sapendo di farlo. Sono vivo nell'imperfezione, in ascesa, in espansione.

Partecipo al fenomeno dell'esistere. Qui, con questo corpo.

Vedo il potere totale della compassione. Il “campo di bontà” che comprende ogni cosa e partecipa in ogni cosa. Agire con bontà, con amorevolezza. Vibro di allegria al solo pensiero.

Ho la concreta possibilità di essere ciò che voglio, essendo partecipe.

giovedì 6 dicembre 2018

Fede

Non c’è senso nella vita se tutto finisce con la morte
E’ basicamente una questione di fede
In assenza di esperienza, uno può avere fede nella morte o fede nella trascendenza.
Per molti, dire che “non credere in una vita separata” sia un atto di fede, risulta sgradevole, irritante.
Spesso siamo andati fieri del nostro “non credere”. Svelare che è un atto di fede suscita sdegno.
In entrambi i casi è una questione di fede. Non parlo di un Dio o di una religione.
Posso dire che credo nella cosa più logica o più plausibile, ma la ragione è mutevole, può essere piegata al proprio volere, alla propria necessità interna, di rivalsa, né più e né meno della fede.
Posso dire che credo nella cosa che mi fa stare meglio
Posso dire che credo in ciò di cui sento il bisogno
Posso dire che credo nella cosa che mi consola
Posso credere per rivalsa, per rabbia o per vendetta o per paura
Come si può avere fede, senza alcuna base, senza esperienza?
Perché allora è così facile avere fede nella morte?
Perché è così facile credere che la morte chiuda il futuro e che lo chiuda sempre e inevitabilmente?
E’ così facile credere nella morte, che chi ha fede nella morte, non ammette che si tratti di fede.
E’ così facile, che coloro che credono nella morte mi rispondono stizziti quando affermo che tale credenza è un atto di fede. Si stizziscono perché hanno sempre pensato che non credere in una vita separata è un atto di ribellione all’ingenuità della fede, ribellione alla religione. E’ successo anche a me, mi sono sentito quasi insultato. Non consideravo che non credere nella trascendenza è solo un’altra fede, un’altra religione.
Come può ciò che è immortale generale l’illusione della mortalità?"
Ma la fede, senza esperienza, è mutevole, come la ragione e il sogno.
Esiste la possibilità di avere esperienze di altro tipo?
Di intuire altri stati?
Di sentire un registro interno che trascenda corpo e materia?
Ho cercato, a lungo, in vari “luoghi”. Nella mia esperienza, e in quella di una cara, carissima amica, la stessa cara carissima amica di tante altre volte, si può avere un registro della trascendenza, un vissuto interno dell’immortalità. Non si tratta di una “comprensione”, si tratta di un “sentire”.
Come risolvo il paradosso di un’esperienza che può essere trovata solo quando non è attivamente cercata? La mente non può percepire l’eterno, non può percepire il non tempo.
E’ un’esperienza che non può essere trasmessa né “spiegata" e quindi viene percepita come semplice fede.
Come posso trasmettere la certezza basata sull’esperienza, se questa non è trasmissibile?
Cedo la parola al Maestro, che lo fece meglio di quanto potrei fare io: 
Non potrai giustificare l’esistenza se ad essa porrai come fine l’assurdo della morte. Finora tu ed io siamo stati compagni di lotta. Né tu né io abbiamo voluto piegarci dinanzi ad alcun dio. Vorrei poterti ricordare sempre così. Allora perché mi abbandoni quando non accetto l’inesorabilità della morte? Una volta abbiamo detto: “Neppure gli dei sono al di sopra della vita!” Allora come mai adesso ti inginocchi davanti alla negazione della vita? Tu puoi fare quello che vuoi ma io non abbasserò la testa dinanzi a nessun idolo, anche quando la fede nella ragione sembrerà “giustificarlo””. Silo – Il paesaggio interno
E poi ancora sempre il Maestro
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descriveremo i cinque possibili stati o modi di porsi rispetto al problema della morte e della trascendenza
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C’è un primo stato che corrisponde a chi ha la prova indubitabile - data dall’esperienza diretta, non dall’educazione o dall’ambiente -, la prova evidente, indiscutibile, che la vita è un transito e che la morte è un incidente di poco conto.
Ci sono altri che credono che la vita umana abbia come fine una qualche forma di trascendenza; questa credenza viene loro dall’educazione, dall’ambiente, non da qualcosa di sentito, di sperimentato; non da qualcosa di evidente per loro ma da qualcosa che è stato loro insegnato e che essi accettano, senza alcuna esperienza.
C’è poi un terzo modo di porsi nei confronti del senso della vita, ed è quello di chi vorrebbe avere una fede o un’esperienza. Persone che non hanno fede, non credono nella trascendenza, ma desidererebbero avere qualcosa che desse loro coraggio e direzione nella vita.
Ci sono persone che sospettano, a livello intellettuale, che esista un futuro dopo la morte, una trascendenza. Si limitano a ritenere possibile questa ipotesi pur senza contare su alcuna esperienza di tipo trascendente o alcun tipo di fede e senza peraltro aspirare ad averle
C’è, infine, chi nega ogni possibilità di trascendenza. 
Ma con questo non abbiamo esaurito il tema delle diverse posizioni che si possono assumere di fronte al problema della trascendenza, perché sono possibili differenti gradi di profondità in ciascuna di tali posizioni
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Quanti riescono a trovare la fede o ad avere un’esperienza trascendente, pur non potendole definire in termini precisi (così come non si può definire l’amore), riconosceranno la necessità di dare un orientamento ad altri, di indirizzarli sulla loro stessa via ma non tenteranno mai di imporre il proprio paesaggio a chi non vi si riconosca.
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E così, coerentemente con quanto ho affermato, dichiaro innanzi a voi la mia fede e la mia certezza basata sull’esperienza nel fatto che la morte non chiude il futuro, che la morte, al contrario, modifica lo stato provvisorio della nostra esistenza per lanciarla verso la trascendenza immortale. Non impongo la mia certezza né la mia fede e vivo accanto a coloro il cui modo di porsi nei confronti del senso della vita è diverso dal mio; tuttavia mi sento obbligato ad offrire, per solidarietà, il messaggio che riconosco rende libero e felice l’essere umano. Per nessun motivo eludo la responsabilità di esprimere le mie verità, per quanto esse possano apparire discutibili a chi sperimenta la provvisorietà della vita e l’assurdità della morte.

D’altra parte non chiedo mai agli altri quali siano le loro credenze personali ed in ogni caso, pur definendo con assoluta chiarezza la mia posizione su questo punto, proclamo per ogni essere umano la libertà di credere o non credere in Dio e la libertà di credere o non credere nell’immortalità.

Tra le migliaia e migliaia di donne e di uomini che, fianco a fianco, lavorano con noi in modo solidale, si contano atei e credenti, persone con dubbi e certezze; ma a nessuno viene chiesto quale sia la sua fede; e tutto ciò che viene dato, viene dato come un orientamento, affinché ciascuno decida per proprio conto quale sia la via che meglio chiarisca il senso della sua vita.

Evitare di proclamare le proprie certezze non è coraggioso, ma tentare di imporle non è degno della vera solidarietà.” Silo – Città del Messico – 10 ottobre 1980