I sensi.
Mi siedo su quella panchina e osservo gli alberi ondeggiare al vento, in un magico scorcio di Villa Borghese; zone d'ombra tra gli alberi che sembrano antichi luoghi di preghiera. I piccioni zampettano incoscienti... in qualche modo tutto sta bene.
Ma come posso dire che quello che “vedo” è “come lo vedo”? Su quali basi affermo che ciò che percepisco è come lo percepisco?
Lo affermo perché do per scontato che se ci fossero alcune persone vicino a me, confermerebbero la mia percezione; in qualche modo percepirebbero ciò che io sto percependo. Già qui c'è il primo inganno. Non è vero. Anche solo fermandoci alla percezione, gli altri non percepirebbero affatto quello che percepisco io. Uno di questi “altri” potrebbe essere miope, l'altro daltonico, il terzo con un olfatto particolarmente sviluppato, uno sordo da un orecchio (già, sono tutte persone che conosco!!!), vedrebbero alcuni dettagli da un punto di vista leggermente spostato. Queste persone non percepirebbero affatto “ciò che percepisco io”. Devo quindi correggere e dire che: percepirebbero una serie di dati che, con alcuni aggiustamenti e basandoci solamente su certe forme e strutture, potrebbero essere paragonati al modo in cui io percepisco la stessa porzione di realtà; utilizzando quindi una certa soglia di tolleranza, io e gli altri affermiamo che le nostre percezioni del paesaggio in questione “coincidono”; riassumo questo nella frase “l'altro percepisce più o meno quello che percepisco io”. Senza contare la possibile esistenza di qualcosa non percepibile con i 5 sensi.
Ma... ci rendiamo conto? Ma di quale realtà stiamo parlando? E dove è decisa questa “soglia di tolleranza” che, superata la quale, ci obbliga a dire che le nostre percezioni non coincidono? E se in futuro l'essere umano sviluppasse la capacità di vedere gli infrarossi o gli ultravioletti? E se dieci persone mi vengono a dire che questa penna che vedo non solo non è blu, ma è anche di legno e non di plastica? Inizialmente penserei che mi stanno prendendo in giro. Poi penserei che sono pazzo. Quindi la certezza di ciò che percepisco è data dalla conferma data dalla percezione altrui, entro una “soglia di tolleranza”... e quando questi “altri” non ci sono, comunque credo in ciò che vedo (e credo che sia come lo vedo) perché ho fede che altri percepirebbero più o meno quello che percepisco io, dando per scontato che nel frattempo nessuno dei miei sensi abbia subito un danno, di cui non sono ancora cosciente, tale da rendere le differenze superiori alla “soglia di tolleranza”.
Mia moglie, quando era incinta, percepiva odori che nessun altro sentiva... C'erano? Erano “nella sua mente”? Il suo olfatto era più sviluppato per via di ormoni o altre alterazioni del senso? Quell'odore era quindi immaginato, o esisteva solamente per chi aveva un olfatto in grado di percepire a quei livelli? Un po' come i cani con il fischietto per cani?
E mi sono fermato ai sensi.
Cosa succede se faccio il passo successivo? Se aggiungo a questa già esistente e innegabile differenza di percezione, l'influenza dello stato d'animo, del tono generale del corpo, dell'insogno... in generale se aggiungo l'intenzione di chi percepisce?
Ho sempre pensato di avere la necessità di un nuovo linguaggio che mi permettesse di comunicare alcune cose. Mi rendo conto che prima di questo linguaggio, ho bisogno di dubitare molto di più. Così che, attraverso il dubbio, io possa porre più attenzione. Più attenzione a ciò che percepisco; più attenzione all'altro, a ciò che lui tenta di descrivere, a ciò che potrebbe sentire, volere, temere, cercare; più attenzione alla “realtà” in tutte le sue forme; più attenzione a me, a quello che penso, a come lo penso, al perché lo penso; più attenzione “dentro” mentre percepisco e faccio attenzione “fuori”.
A volte vivere mi sembra meraviglioso.
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