La coscienza di se è un esercizio quotidiano, che può essere mantenuto e portato avanti solamente se esiste una motivazione profonda, un centro dal quale si viene e verso il quale si va.
Mi fermo. Mi ricordo di esistere, qui e ora. Esisto. Non importa per ora cosa sia questo “io” che afferma la propria esistenza. Ciò che importa è che mentre affermo la mia esistenza, sia contemporaneamente cosciente di questa affermazione. Lo faccio e lo rifaccio, 10, 20, 100 volte al giorno. Mi distraggo, divago, torno a ricordare che esisto.
Perché continuo a farlo? Che senso ha questo esercizio?
Perché grazie a questo esercizio, a volte, mi rendo conto di alcune cose. Mi rendo conto del perché quella volta ho fatto quello che ho fatto, o perché ho risposto nel modo in cui ho risposto. Perché in questo stato non solo posso osservare quello che sto facendo e sapere che lo sto facendo, ma riesco in qualche modo a riflettere su quello che ho fatto e sulla radice incognita (della legge [s]conosciuta) secondo la quale tutto si muove.
Esercitare la meditazione semplice, tutte le sere, osservando ciò che si è fatto durante il giorno, i conflitti incontrati, gli insogni e le divagazioni che mi hanno influenzato, le scelte fatte e le scelte subite, acquisisce un nuovo valore se durante il giorno ho praticato con costanza la coscienza di se.
Senza un centro di gravità, senza un progetto significativo, senza una direzione, esercitare la coscienza di se può trasformarsi in noia e frustrazione. Praticare la coscienza di se può essere solamente parte di una grande fede nel futuro, di una direzione certa, quella direzione che è lì, qualsiasi cosa succeda; il mio amico mi tradisce? Io vado là. Ho problemi con la mia compagna? Io vado là. Mio figlio non fa ciò che voglio o mi aspetto? Io vado là. Perdo il lavoro? Io vado là.
Questa direzione rompe l'illusione. Quando questa direzione si ripete, giorno dopo giorno, nonostante l'incredibile varietà degli eventi, la spettacolarità dei fenomeni, esterni e di coscienza, la microscopica particolarità dell'esistere, mi connetto con quella sensazione di transitorietà e di permanenza. Tutto è transitorio nella sua particolarità, nella sua espressione, nella rappresentazione che faccio delle cose; contemporaneamente tutto è permanente e immutabile dal punto di vista essenziale, strutturale.
Colgo allora momenti di grande ispirazione, in cui tutto ciò che mi trascina come una giacchetta su una spalla a primavera, perde il suo potere illusorio e non mi fa più del male, le cose non sono più il mio nemico e a volte ne colgo la totale inutilità o essenzialità. Tutto mostra una nuova parte di se, come se il vetro opaco attraverso il quale guardo tutto, per qualche attimo fosse un tantinello più pulito.
Comprendo con verità interna, che la vita è un processo lanciato verso il futuro e che suo significato esiste solamente nel cambiamento che porta al risveglio. Che la vita ha un senso, inteso come significato, solamente se ha una direzione chiara, una direzione che nessun incidente, sia esso anche la morte, può cambiare. Quando, di fronte all'assurdo della morte, sento che la direzione che ho scelto non ne è sminuita, una forza poderosa sgorga dal profondo e una gioia incontenibile mi travolge... nel cercare di afferrarla, come il Tao, la perdo, e rimane una commozione profonda... e come sostengo da sempre, nella commozione c'è Dio.
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