lunedì 19 settembre 2016

La sofferenza come insegnamento

No, non condivido chi dice che senza la sofferenza non si cresce e che si cresce solo attraverso il dolore. Una cosa è affermare che sbagliando s'impara, una cosa è che se non sbaglio non imparo. La differenza è la stessa che c'è tra dire che gli errori sono inevitabili e dire che gli errori sono necessari.

Però (si, c'è un però) la sofferenza può essere una grande maestra quando inavvertitamente ci facciamo intrappolare dalle sue spire. Non bisogna fuggire dalla sofferenza. Non bisogna pensare ad altro, non bisogna compensare facendo immediatamente e compulsivamente il contrario di ciò che stavamo facendo, allontanandoci dalla sofferenza in modo isterico.

Nella sofferenza c'è un grande insegnamento che però può essere utilizzato solamente se si fa un passo, all'inizio: bisogna comprendere, almeno intellettualmente, che non sono le cose a farci soffrire, che la sofferenza non “arriva”; bisogna comprendere almeno intellettualmente, ovvero ammettere che è una ipotesi plausibile, che la sofferenza è un segnale della coscienza di un processo psicologico erroneo e che quindi può essere superata modificando tale processo. Questa è una cosa che la coscienza fa istintivamente, a volte con più successo e a volte con meno successo e lo possiamo sperimentare nella nostra vita, ricordando che ci sono stati eventi che ci hanno fatto soffrire e che il solo ricordo ci faceva soffrire e che poi ad un certo memento non ci hanno più fatto soffrire. Non parlo di cose a cui non si pensa più, parlo di cose che anche pensandoci, non generano più sofferenza... magari una dolce nostalgia, una commovente allegria, non importa; quello che importa è che non ci straziano più il cuore in modo insopportabile... il processo psicologico associato a quell'evento è cambiato, la coscienza ha trovato un modo più sano di pensare a quella cosa... e non conta “è passato tanto tempo”, perché a volte le cose ci fanno soffrire inspiegabilmente per decenni, altre volte per molto meno.

Se si considera questa possibilità, si può stare con la sofferenza, senza scappare. Stando con la sofferenza, nel tentativo di comprendere da cosa nasce, quali aspettative sono state tradite, quali credenze sono state distrutte, quale immagine di me è stata rovinata, si ottengono due cose: per prima cosa si velocizza il processo di comprensione del meccanismo psicologico che ci porta a vivere l'evento come doloroso, si velocizza il processo di ricerca di “un modo più sano di affrontare il ricordo” (magari arrivando anche a generalizzare un “argomento”); in seconda analisi ci permette di memorizzare quali situazioni mi generano un maggior conflitto in modo da comprendere meglio quando ci stiamo avvicinando a quegli stati sofferenti e porre in essere un atteggiamento che non favorisca l'insorgere della sofferenza. In pratica ci permette di cambiare il modo di fare, cambiare noi stessi, cambiare il rapporto con il mondo; ci permette in certi momenti di dire “ricordo bene una situazione del genere e se metto lo stesso punto di vista della volta scorsa, finirò per soffrire”

Un errore che mi sono scoperto a fare è quello di cadere nella colpa. Comprendendo che la sofferenza non arriva da fuori, ma da dentro, mi sono scoperto a giudicarmi in modo severo, aggiungendo senso di colpa (nei confronti di me stesso) alla sofferenza. Questo ha il semplice effetto di rendere ancor meno sopportabile la sofferenza e ancor più difficile il suo superamento. E' quindi ineludibile un atteggiamento positivo, accondiscendente e benevolo nei propri confronti: sto già soffrendo, sto già pagando un prezzo più che salato per il mio errore; quello che devo fare ora è comprendere la radice della sofferenza per rendere sempre più difficile il riproporsi di questa situazione e rendere il più rapida possibile l'acquisizione di un punto di vista corretto.

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