E' sempre l'io che vuole diventare immortale. E' subdolo questo io, perché è sua anche questa grande ricerca. Io vuole che faccio bene la disciplina mentale (è lui che la fa), perché spera che se la faccio bene anche lui ne beneficerà, e pensa che possa renderlo immortale. E' suo anche il voler contemplare l'agire della mente, il voler registrare l'attività della mente.
Ma io è quello che fa praticamente tutto. Scopro che è sempre io che guarda le cose, che le giudica, che distingue. Anche quando “mi guardo” è io che guarda una cosa che poi chiama me, ma sembra non essere altro che un ennesimo inganno dell'io, un'altra illusione dell'illusione, l'ombra di un ombra.
L'illusione. L'identificazione. Qualsiasi cosa guardo, è io. Per questo m'identifico così tanto in tutto... come se io cercasse un posto in cui stare per stare bene, per sempre... ma non lo trova mai, perché io, alla fine, in fondo in fondo, lo sa che non potrà permanere, in alcun modo. E' io che desidera, è io che prova piacere, è io che prova dolore, è io che contempla l'abbandono dell'io. E' io che vuole essere immortale ma è proprio io che muore, proprio tutto ciò a cui mi riferisco quando dico “io sono”, “io faccio”, “io penso”, “io spero”, “io odio”, “io amo”, “io accetto”, “io rifiuto” è ciò che muore, che un giorno smetterà di essere, inevitabilmente.
Alla fine, è sempre io. Ma la coscienza esiste prima dell'io. Questa struttura continua di atti, di intenzioni, di protensioni, esisteva prima dell'io. Nasciamo con una tendenza al futuro... siamo sempre un attimo nel futuro, con queste intenzioni lanciate a quegli oggetti che stanno lì, a pochi istanti da ora... e ogni volta che questa intenzione raggiunge il traguardo, altri atti sono di nuovo lanciati verso qualcosa che a breve sarà raggiunto. E così si va formando io. Comincio a credere di essere quello che m'è successo, le mie tensioni, le mie aspirazioni, le mie aspettative... tutte cose che cesseranno. Che senso ha questa costruzione?
E così ogni pensiero è falso. Ogni considerazione è una considerazione dell'io... e ricorsivamente torno indietro a guardare chi guarda e sempre mi scopro a guardare l'io. Tutto sembra essere permeato da questo io. Qualsiasi cosa osservo, qualsiasi cosa considero, è io che osserva e considera io. Qualsiasi cosa abbandono, è io che l'abbandona, e si attacca a questa nobile arte dell'abbandono. E' l'io che può essere ferito, che può soffrire, non altro.
Il rifiuto totale di ogni considerazione e di ogni considerante. Come dice Krishna ad Arjuna, contemplare la natura che agisce, poiché il Sé non è l'agente. Non c'è un agente, ma una natura che si esprime, che agisce e interagisce. Agire per l'agire e non per il frutto, perché se agisci per agire non agisci. Faccio Zazen per fare Zazen. Stai su ciò in cui stai. Medita con l'unico scopo di meditare.
E' come qualcosa che bussa, che prende a spallate una porta e qualcuno che davanti alla porta tossisce per coprire e nascondere il rumore: “niente niente, un po' di tosse”. Bum! Bum! “Cof, cof! Scusate, sapete, un po' di tosse, non vi preoccupate, continuate a bere, continuate a ballare, continuate per sempre!”.
Chi è che bussa? Chi è che sta in quegli spazi sacri. Cos'è quella commozione profonda, intensa, dolce e interminabile come il cielo stellato, silenzioso e delicato? Cosa sono quelle lacrime benedette che sorgono quando scrivo certe cose, quando leggo certe cose, quando vedo certe cose?
Più che il piacere in se o il dolore in se... è l'attaccamento.
E il primo a cadere, è sempre l'orgoglio, che cade sempre per ultimo, il furbino.
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